Ho molto apprezzato il recente intervento di Andrea Terzi su economiaepolitica.it riguardo all’esigenza di ripensare la politica fiscale, considerandola come il solo vero strumento in grado di immettere attività finanziarie direttamente nel sistema economico e proponendone una rilettura in chiave di nuova reinterpretazione della relazione fra debito e risparmio. Ho anche molto apprezzato la disponibilità di Terzi a dialogare su alcuni aspetti del suo intervento per me non chiari, da cui è scaturito il mini-dibattito che la rivista riporta in calce all’intervento di Terzi.
Sento tuttavia di dover tornare su una delle tesi principali di Terzi, che non ritengo di poter condividere, soprattutto a causa delle conseguenze critiche che da essa potrebbero derivare nel caso di un’azione sostenuta di politica fiscale espansiva.
Obsolescenza del vincolo intertemporale di bilancio
Terzi contesta la scelta di sottoporre la spesa pubblica al vincolo intertemporale delle entrate fiscali, secondo lui motivata, in teoria come nella prassi, dal timore di ‘monetizzazione’ del debito pubblico cui il governo farebbe ricorso nel caso si trovasse in assenza di sottoscrittori. Ne contesta la logica sottostante sulla base dell’ormai lunga esperienza che, dalla crisi in poi, ha ripetutamente mostrato come la sostituzione di danaro al posto di titoli pubblici nel portafoglio del settore privato non abbia provocato i previsti effetti inflazionistici.
Ne trae che il vincolo intertemporale di bilancio per il settore pubblico è obsoleto in un’economia monetaria in cui ogni attività finanziaria esiste e ha valore soltanto in quanto corrisponde a un debito emesso da una controparte: la ricchezza finanziaria del settore privato può crescere soltanto se cresce di pari passo il debito, privato o pubblico.
Conclude auspicando la definizione di nuove regole di bilancio e ravvisando nell’individuazione di tali regole la vera sfida della macroeconomia oggi.
Quale vincolo di bilancio?
La proposizione secondo cui il debito, privato o pubblico, deve crescere perché cresca la ricchezza privata induce a ritenere che il debito possa (o addirittura debba) aumentare a qualunque livello sia necessario per garantire una crescita non-inflazionistica dell’output. In tal caso, un corretto vincolo di bilancio (‘corretto’ relativamente alla funzione supposta anti-ciclica della politica macroeconomica) mirerebbe a contenere la crescita del debito entro limiti coerenti col rispetto dell’equilibrio economico nazionale interno ed esterno.
Tuttavia, tale conclusione e la proposizione a suo sostegno e ignorano:
- le condizioni alle quali l’equilibrio debito-risparmio si realizza. Queste variano a seconda dell’offerta e della domanda che governano debito e risparmio rispettivamente, e
- il ruolo del mercato finanziario. Il giudizio che il mercato esprime sulla sostenibilità delle passività rientra tra le determinanti fondamentali del loro valore e, più in generale, delle condizioni di equilibrio debito-risparmio.
Se si considerano tali fattori, le precedenti conclusioni sul vincolo di bilancio si dimostrano pericolosamente fallaci.[1]
Valore delle passività e vincolo di bilancio
Se il debito cresce e accresce il risparmio privato, ciò di per sé non assicura che i risparmiatori siano disposti ad assorbire il debito interamente e a condizioni invarianti nel tempo. La determinazione del tasso d’interesse di equilibrio (al quale, cioè, tutto il debito è assorbito dallo stock di risparmio) non deriva dall’uguaglianza debito-risparmio, ma dalle preferenze dei risparmiatori rispetto ai rischi (di credito, di liquidità, o di mercato) relativi al debito in questione, ed è determinato dalla domanda e dall’offerta delle forme in cui il debito è espresso, peraltro in concorrenza con altre passività, pubbliche o private, interne o esterne, espresse in forme simili o diverse.
Il prezzo al quale le passività sono domandate dai risparmiatori devono rifletterne la rischiosità, e possono financo sussistere livelli di rischio ai quali nessun prezzo può renderle domandabili. Anzi, ulteriori riduzioni di quel prezzo indurrebbero a peggiorare il giudizio di sostenibilità (e quindi di appetibilità) delle passività medesime. Il volume di debito già in essere, la sua crescita prospettica, la credibilità dell’emittente e la capacità di pagamento di quest’ultimo sono alcuni fra i fattori critici che presiedono alla formazione del prezzo (o di nessun prezzo) di equilibrio.
Pertanto, una cosa è se il debito viene emesso, per esempio, da un paese come gli Stati Uniti, soprattutto in periodi di grave incertezza finanziaria internazionale, allorché esso viene visto come l’attività rifugio mondiale par excellence e la sua domanda diventa inappagabile al punto da azzerarne o renderne negativo il rendimento reale: si tratta di un vero e proprio potere di signoraggio esercitato ed esercitabile dallo stato emittente.[2] Si osservi, peraltro, che in caso come questo il rischio di monetizzazione è virtualmente nullo, tanto più che il debito in questione è un sostituto quasi perfetto della moneta.
Ben diverso è se a emettere il debito, soprattutto in periodi di turbolenza dei mercati, è invece un paese ritenuto non credibile sul piano finanziario (il cui potere di signoraggio è, in altri termini, nullo). In tal caso, il rischio di monetizzazione non è trascurabile, soprattutto se il debito da collocare è in prospettiva crescente e se crescente è percepita la rischiosità dello stato emittente. Dunque, sussiste un vincolo intertemporale di bilancio e questo è diverso per ciascun debitore, fosse anche uno stato sovrano. Nel caso di paesi che i mercati ritengono non essere (sufficientemente) credibili, tale vincolo può ostacolare l’uso anti-ciclico della politica fiscale invocato da Terzi. Più alta è l’esposizione debitoria di tali paesi, maggiore è la loro vulnerabilità rispetto alle preferenze dei mercati, più forte è l’esigenza di un vincolo, e più stringente e l’effetto del vincolo richiesto dai mercati.
Debito estero vs. debito interno
Potrebbe sostenersi che il problema non è il debito in quanto tale, ma il debito estero. Qui occorre stabilire se la qualifica di ‘estero’ si riferisce al debito in valuta nazionale detenuto da residenti esteri oppure al debito nazionale espresso in valuta estera (o in una valuta rispetto sulla quale lo stato emittente non esercita sovranità – come ad esempio nel caso del debito emesso in euro da uno stato membro dell’Eurozona). Escludiamo la rilevanza del primo caso, assumendo che, soprattutto in mercati ampi e integrati, siano assenti effetti di ‘home bias’ da parte dei risparmiatori nazionali e che essi operino secondo i medesimi criteri utilizzati dai risparmiatori esteri. In questo caso, che il debito sia detenuto dagli uni o dagli altri non ne altera la valutazione e il giudizio di sostenibilità.
Nel secondo caso, invece, è ovvio che la pura e semplice denominazione del debito in valuta estera ha effetti determinanti sul suo valore e sostenibilità. Per quanto riguarda poi il debito in euro di un paese dell’eurozona, se esso non presenta rischio di cambio (almeno sino a quando il paese rimane nell’Eurozona), nondimeno risulta esposto al rischio di default.
Supponiamo pertanto che il paese in questione decida di uscire dall’euro e che emetta una propria valuta, invochi la lex monetae, converta tutto lo stock di debito pubblico nella nuova valuta, e istruisca la propria banca centrale affinché garantisca il servizio del debito (eliminando di fatto il rischio di default) e finanzi i futuri disavanzi di bilancio con moneta di nuova emissione. Supponiamo inoltre che il governo adotti la regola di Terzi, in base alla quale (spero di interpretarla correttamente), se l’economia presenta un output gap dovuto a carenza di domanda, esso persegua livelli di disavanzo commisurati alla chiusura del gap. In tal caso, il disavanzo pubblico è assorbito dal risparmio aggiuntivo privato, l’output gap si chiude senza inflazione, e il vincolo di bilancio anti-ciclico è rispettato.
Tutto risolto, allora?
Altrove ho sostenuto e difeso il ricorso al finanziamento monetario del deficit pubblico come lo strumento più efficace per rilanciare la domanda aggregata, sebbene lo ritenga uno strumento da utilizzare in casi eccezionali di grave recessione o depressione economica.[3] Neanche questo strumento, come vedremo, è scevro da rischi (sempre legati alla credibilità del paese che vi fa ricorso) che ne condizionano l’efficacia e il cui contenimento richiede comunque la previsione di un vincolo intertemporale di bilancio cogente.
Alla valutazione dei mercati oggi non si sfugge
Nel contesto di economie di mercato altamente finanziarizzate e integrate globalmente, il valore delle passività (private o pubbliche) di un’economia viene continuamente confrontato con quello delle altre economie concorrenti. Il riferimento imprescindibile per tale confronto, per quanto imperfettamente stimabile, è il tasso di cambio di equilibrio basato sui fondamentali (FEER dall’originale denominazione inglese).[4] Tutto quanto possa alterare il FEER si riflette sul valore e sulla sostenibilità delle passività di un’economia ed è importante osservare che, dal momento che si ragiona in termini di equilibri di stock, sono le aspettative del mercato sui fondamentali a determinare il FEER. E, beninteso, qui non si parla di effetti speculativi e di discrepanze di breve periodo fra prezzi effettivi e prezzi di equilibrio, ma di quel che il mercato giudica essere il valore del prezzo basato sui fondamentali (il FEER) al quale le passività di un’economia si traducono in quelle di un’altra in un orizzonte temporale di medio/lungo termine.
Ebbene, nel contesto di economie finanziarizzate e integrate di cui ci occupiamo, il prezzo di equilibrio al quale gli investitori riferiscono continuamente il valore delle passività emesse da un paese non è soltanto rilevante per le passività estere. Esso lo è anche per la valutazione di sostenibilità delle passività interne – laddove il concetto di ‘sostenibilità’ è inteso in senso lato come invarianza nel tempo del valore relativo di dette passività.
Tornando al caso sopra richiamato di un’economia che anche rendesse ‘interno’ il suo debito e lo immunizzasse dal rischio di default, le sue passività rimarrebbero comunque soggette alla valutazione che i mercati attribuirebbero alla “qualità” del regime di policy adottato dal governo, delle istituzioni che presiedono alle decisioni di policy e delle policy stesse. In altri termini, il valore e la sostenibilità delle passività sarebbero sempre soggetti al giudizio di ‘credibilità’ espresso dai mercati sul paese in questione. In particolare, lo stock di passività è esposto al rischio di deprezzamento del FEER se il mercato ritiene che la sua dinamica di crescita attesa non sia governata responsabilmente dalle autorità di politica economica – detto altrimenti, se i mercati non ritengono credibile e sufficientemente cogente il vincolo di bilancio intertemporale gravante sulle autorità fiscali.
Considerazioni per l’Italia
Chi sostenesse che l’Italia non soffre di un problema d’insufficiente credibilità finanziaria potrebbe accettare tout court la ricetta sopra richiamata, ritenendola adeguata per tirar fuori la nostra economia dalle secche in cui si trova ormai da anni.
Non ho prove contrarie da opporre a coloro che la pensano così e mi augurerei anzi che essi avessero ragione. Tuttavia, la storia del nostro Paese, che dal secondo dopoguerra a oggi ha sempre ricercato (a torto o a ragione) nel ‘vincolo esterno’ la cura del deficit di credibilità attribuitogli relativamente alle economie nazionali più forti,[5] mi fa dubitare che quella ricetta ci consentirebbe molti gradi di libertà in più nella conduzione della politica macroeconomica rispetto a quelli assai esigui di cui disponiamo oggi.
Un’Italia che si avventurasse in quel percorso si esporrebbe a un forte rischio di svalutazione della lira di nuovo conio, e non per causa di un divario di competitività fra produttori nazionali ed esteri, ma proprio per la valutazione che il mercato assegnerebbe ai fondamentali di un’economia fuoriuscita dai meccanismi di controllo imposti dalla partecipazione all’euro e la cui conduzione non è ritenuta pienamente credibile. In assenza di un regime di policy considerato accettato come responsabile, la qualità della nuova valuta sarebbe già in partenza compromessa, il potere d’acquisto interno si ridurrebbe e non si avrebbe certo l’effetto di rilancio economico desiderato.
Chi ha ragione? Si potrebbe sapere solo a cose fatte, ma non raccomanderei per questo di provare per vedere poi che succede, ad onta di conseguenze che potrebbero essere ben gravi.
D’altra parte, non difendo certo il deprecabile inattivismo nel quale siamo sprofondanti. Ne ho scritto recentemente sul 24 Ore e a quel che lì ho scritto rinvio i lettori eventualmente interessati. Mi limito qui a ribadire che o l’Italia recupera maggiore spazio fiscale, attraverso un’operazione di monetizzazione del debito accompagnata da una riforma del proprio regime di policy in funzione anti-ciclica ma con un credibile vincolo intertemporale di bilancio (e, comunque, si tratterebbe sempre di un passaggio tutt’altro che facile e non scevro da rischi) oppure introduce la Moneta Fiscale per uscire dalla trappola del debito senza passaggi traumatici e soprattutto senza mettere in discussione la permanenza dell’Italia nell’euro (Bossone et al. 2017).
*Presidente del Group of Lecce on global governance e membro del Comitato di sorveglianza del Centre d’Études pour le Financement du Développement Local
**L’autore desidera ringraziare Charles Wyplosz per l’approfondito e proficuo scambio di idee sull’argomento oggetto di quest’articolo
Riferimenti Bibliografici
Bossone, B. (2015), “Macroeconomic policy coordination and central bank independence after the crisis”, All About Finance, World Bank, 3 September.
Bossone, B. (2016), “Why Helicopter Money is a ‘Free Lunch’”, EconoMonitor, June 6.
Bossone, B., T. Fazi, and R. Wood (2014), “Helicopter money: The Best Policy to Address High Public Debt and Deflation, VoxEu, 1 October.
Bossone, B., M. Cattaneo, M. Costa, e S. Sylos Labini ()2017), “Moneta Fiscale: il punto della situazione”, MicroMega, 17 giugno.
Burda, M., and C. Wyplosz (2012), “Macroeconomics: A European Text”, Oxford University Press.
Capel, J. (2011), “The post-crisis world of collateral and international liquidity: A central banker’s perspective”,DNB Occasional Studies Vol.9/No.3. De Netherlandsche Bank.
Carli, G. (1993), “Cinquant’anni di vita italiana”, Laterza.
Williamson, J. (1994), “Estimates of FEERs,” in Estimating Equilibrium Exchange Rates, ed. by John Williamson, Institute for International Economics.
[1] La conclusione precedente ignora anche le conseguenze di eventuali squilibri fra singole componenti del debito e del risparmio, la cui formazione assoggetta le passività nette a rischi che retroagiscono sulle condizioni di l’equilibrio debito-risparmio aggregati. Ma di questa fattore di rischio non si terrà conto in quanto segue.
[2] Ciò fu talmente vero durante e dopo la crisi finanziaria del 2007-09 la scarsità di collateral (tipicamente titoli del Tesoro USA) per il normale funzionamento dei sistemi di pagamento e dei mercati dei derivati in dollari divenne motivo di preoccupazione per operatori e banche centrali (Capel 2011).
[3] Si vedano, per esempio, Bossone (2015, 2016) e Bossone et. Al. (2014).
[4] Si veda Williamson (1994). Il FEER per una data economia è il valore relativo fra la valuta dell’economia in parola e le valute dell’economie concorrenti che risulta simultaneamente coerente con l’equilibrio economico interno ed esterno. L’equilibrio interno si raggiunge quando l’economia è al livello di output di piena occupazione a prezzi stabili, mentre l’equilibrio esterno corrisponde a una posizione della bilancia dei pagamenti che risulta essere sostenibile su un orizzonte temporale di medio/lungo termine. Sul piano quantitativo, il FEER è il tasso di cambio al quale il valore attuale dei surplus primari di parte corrente futuri eguaglia la posizione debitoria netta dell’economia o, viceversa, il tasso di cambio al quale la posizione creditoria netta dell’economia eguaglia il valore presente di tutti i deficit primari futuri (Burda e Wyplosz 2012).
[5] Si veda, per esempio, Carli (1993).