INTRODUZIONE
La teoria della convergenza economica fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo costituisce certamente uno dei capisaldi dell’approccio economico mainstream. Proposta originariamente da Solow (1956) nell’ambito dei modelli di crescita esogena, essa afferma che le economie relativamente più povere con bassi rapporti capitale/lavoro – a parità di investimenti e risparmi – crescono più velocemente di quelle relativamente più ricche. Un concetto che poggia le basi sull’ipotesi di rendimenti marginali decrescenti del capitale – secondo cui il capitale è più produttivo laddove risulta più scarso – e sulla libera circolazione dei fattori di produzione e dei beni, che consente l’accelerazione del processo di convergenza attraverso l’uguaglianza dei prezzi dei beni e dei fattori di produzione stessi. Una condizione che nel lungo periodo viene completata dall’azione del progresso tecnologico, che è di fatto un dato esogeno del modello.
- L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI CONVERGENZA NELL’APPROCCIO NEOCLASSICCO
Nello specifico, l’approccio ortodosso distingue due tipi di convergenza: la β-convergenza e la σ-convergenza. Secondo la prima tipologia di convergenza, tutte le economie tendono fisiologicamente verso situazioni di steady state o stato uniforme, in cui le divergenze in termini di reddito pro-capite si appiattiscono progressivamente nel corso del tempo. Affinché ciò avvenga, durante la fase di transizione le regioni con reddito pro-capite più basso devono crescere con tassi medi maggiori rispetto alle regioni più ricche; in caso contrario, le disparità reddituali permangono e il processo di catching up è disatteso [1]. Col secondo fenomeno, invece, si fa riferimento al livello di dispersione del reddito pro-capite di un determinato campione. Se il grado di dispersione diminuisce nel tempo, ha luogo la c.d. ipotesi di σ-convergenza. E i due fenomeni sono fra loro interdipendenti: difatti, la β-convergenza è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la σ-convergenza (Young et al. 2008).
All’approccio di Solow si è poi affiancato quello dei nuovi macroeconomisti classici della crescita endogena, che hanno introdotto all’interno dell’impianto solowiano due ulteriori variabili: le esternalità dinamiche prodotte dalle attività di R&S delle imprese (Romer 1986) e la formazione del capitale umano (Lucas 1988). Secondo i nuovi classici, questi fattori incidono sul processo di convergenza molto più dei rendimenti decrescenti.
Diversi studi confermano la validità di queste ipotesi. Sala-i-Martin (1996, p. 1326, ns. traduzione) rileva che: << le velocità stimate della [β-]convergenza sono così sorprendentemente simili fra i [cross-section] data set, che possiamo usare una regola mnemonica: le economie convergono a una velocità del 2% all’anno >>. E quando nel modello vengono introdotti il progresso tecnico e il capitale umano la velocità e la significatività del processo di convergenza tende a crescere ulteriormente (Barro 1991). Altri studi, basati invece su panel di dati, mostrano dei coefficienti beta ancora più grandi (Islam 1995, Evans 1997). Tuttavia, i risultati migliori si ottengono con analisi county-level, ovvero incentrate su campioni di economie molto simili, come le regioni di un’economia unificata (Barro e Sala-i-Martin 1991, Higgins et al. 2006). Quando, invece, si considerano regioni e stati diversi, la teoria della convergenza non sembra funzionare. Secondo alcuni studiosi si parla, a riguardo, di convergenza condizionata dalle politiche economiche, dalle caratteristiche delle istituzioni e da altri fattori specifici di un Paese (Rodrik 2013).
- UNA VERIFICA EMPIRICA A LIVELLO INTERNAZIONALE
Sulla scorta di queste considerazioni, proviamo ad analizzare empiricamente l’ipotesi di convergenza assoluta, attraverso una semplice analisi cross country su 143 economie mondiali [2], per un arco temporale che va dal 1980 al 2016. Nel grafico 1 riportiamo la retta di regressione lineare semplice fra il reddito pro-capite a parità di potere d’acquisto rilevato nel 1980 (in dollari) e la media annuale dei tassi di crescita reali del PIL aggregato, registrata nella finestra temporale 1980-2016.
Com’era lecito attendersi, le variabili rappresentate sono legate da un rapporto di proporzionalità inversa: regioni con reddito pro-capite iniziale inferiore si sviluppano in media con saggi di crescita del prodotto aggregato più elevati. Tuttavia, analizzando l’indice di determinazione, notiamo come il modello sia piuttosto debole e poco aderente all’ipotesi dominante; difatti, il livello iniziale del reddito pro-capite consente di spiegare solo una piccola frazione della variabilità dei saggi di crescita successivi, equivalente al 14,61%. A titolo di puro esempio, citiamo i casi di Kiribati e Repubblica Democratica del Congo, i quali a fronte di redditi pro-capite iniziali piuttosto bassi (953 e 2.886,06 dollari), hanno conosciuto saggi di crescita medi intorno all’unità, rispettivamente dell’1,09% e dell’1,44%. Di converso, Paesi con redditi iniziali molto più elevati, come Australia (10.437,98) e Stati Uniti (12.575,57), si sono sviluppati con tassi fino a tre volte maggiori, rispettivamente del 3,17% e del 2,69%.
Grafico 1. Convergenza economica a livello internazionale in scala semilogaritmica, nel periodo 1980-2016.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016).
Tuttavia, la violenta recessione economica degli ultimi anni potrebbe aver determinato delle distorsioni nella stima del modello. Così, al fine di fugare ogni dubbio, ripetiamo il test sulla finestra temporale antecedente la crisi (grafico 2).
Grafico 2. Convergenza economica a livello internazionale in scala semilogaritmica, nel periodo 1980-2007.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016).
L’indice di determinazione risulta anche più basso del caso precedente: il livello iniziale del reddito pro-capite consente di spiegare appena il 6,88% della crescita successiva del prodotto aggregato. La tendenza, dunque, è confermata anche considerando la dinamica pre-crisi [3]. Ma ulteriori indicazioni possono essere altresì ricavate anche dall’analisi per classe reddituale di partenza, ovvero costruendo cluster di Paesi aventi redditi pro-capite più o meno simili e computandone i saggi (medi) di crescita del PIL reale. I 143 Paesi esaminati sono stati così suddivisi:
- Paesi a reddito pro-capite molto basso (y < 1.000 dollari);
- Paesi a basso reddito pro-capite (1.000 < y < 5.000);
- Paesi a reddito pro-capite medio (5.000 < y < 10.000);
- Paesi ad alto reddito pro-capite (y > 10.000).
Dal grafico 3 notiamo come i Paesi con livelli di reddito pro-capite iniziale molto basso presentino saggi di crescita non molto diversi da quelli caratterizzati da reddito basso. L’unico “salto” rilevante della distribuzione si registra fra il secondo e il terzo cluster, ovvero fra i Paesi a basso reddito e quelli con reddito medio. Nel periodo 1980-2016, i primi si sono sviluppati a un saggio medio del 3,74%, mentre i secondi a un tasso del 2,84%, con uno scostamento medio di 0,90 punti percentuali. I Paesi ad alto reddito, invece, si sono contraddistinti per tassi di crescita del tutto simili a quelli dei Paesi a medio reddito. Quindi, l’unico disallineamento – peraltro fisiologico – è da rilevarsi fra la prima e la seconda coppia di cluster.
Grafico 3. Suddivisione dei Paesi analizzati in quattro cluster crescenti di reddito (1980-2016).
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016).
E se consideriamo il periodo 1980-2007, lo scarto fra i cluster diminuisce ancora: nella fattispecie, confrontando il primo e l’ultimo gruppo rileviamo un gap dello 0,92% a favore dei Paesi più poveri (grafico 4). A ciò va aggiunto che il “salto” fra i Paesi a reddito basso e i Paesi a reddito medio si assottiglia notevolmente, passando dallo 0,90% calcolato nel caso esteso (grafico 3) allo 0,53% del caso particolare.
Grafico 4. Suddivisione dei Paesi analizzati in quattro cluster crescenti di reddito (1980-2007).
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016)
A completamento del quadro fin qui delineato, operiamo poi un’analisi particolareggiata per i soli Paesi avanzati per il periodo 1980-2016 (grafico 5). Grazie soprattutto alle performance della Corea del Sud e delle tigri asiatiche (Hong Kong, Singapore e Taiwan), l’adattamento del modello sembra leggermente migliorato rispetto al caso esteso [4]; nella fattispecie, i livelli di reddito pro-capite iniziale consentono di spiegare circa il 22,78% della variabilità dei tassi di crescita del PIL. Inoltre, la retta di regressione lineare ci informa che ogni incremento di 1.000 dollari del reddito pro-capite è associato a un decremento dello 0,20% dei tassi di crescita del PIL.
Grafico 5. Convergenza economica fra i Paesi avanzati nel periodo 1980-2016.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016).
Di seguito, invece, concentriamo il nostro focus sul più recente periodo 1999-2016 (Grafico 6).
Grafico 6. Convergenza economica fra i Paesi industrializzati nel periodo 1999-2016.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016).
In questo caso, la nuvola dei punti è fortemente dispersa; quindi, fra il reddito pro-capite di partenza e la crescita media del PIL successiva non si ravvisano sintomi di correlazione. Difatti, da un lato il coefficiente di correlazione, seppur negativo, è molto basso ed equivalente a -0,1442, e dall’altro il reddito pro-capite di partenza dei Paesi avanzati consente di spiegare appena il 2,08% della variabilità dei relativi tassi di crescita reali del PIL [5]. Ciò che rileva, piuttosto, è la posizione delle periferie dell’Eurozona. A fronte di livelli di partenza del reddito pro-capite relativamente bassi, Grecia, Portogallo e Italia non hanno conosciuto variazioni significative del PIL. Per questa ragione, i Paesi dell’area euro potrebbero essere stati interessati da un andamento del tutto peculiare. A tal fine, introduciamo un grafico comprensivo dei soli valori delle economie dell’Eurozona-12 (grafico 7).
Grafico 7. Convergenza economica fra i Paesi dell’Eurozona-12 nel periodo 1999-2016.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati FMI (2016). Per l’Irlanda il periodo è il 1999-2014 [6].
L’analisi di regressione sembra confermare il nostro sospetto: difatti, la relazione di correlazione è addirittura positiva. Nella fattispecie, il coefficiente di correlazione risulta pari +0,7114, e il reddito pro-capite di partenza consente di spiegare il 50,61% del successivo sentiero dinamico del PIL reale. A ciò va aggiunto che il coefficiente di regressione che lega le due variabili risulta verificato a un livello dell’1% (p-value = 0,0095). All’interno dell’Eurozona abbiamo, dunque, assistito a un processo di divergenza, piuttosto che a una riduzione dei gap reddituali.
CONCLUSIONI
Lo studio delle dinamiche di crescita degli ultimi 35 anni sembra, così, confermare che la teoria della convergenza incondizionata sia stata, nel complesso, disattesa. È dunque probabile che la meccanica dei processi di crescita dipenda anche da altre variabili, come le componenti della domanda aggregata. Difatti, se guardiamo al contesto europeo, notiamo come negli ultimi anni si sia innescato un profondo processo di divergenza, aggravato delle politiche di austerità fiscale e di flessibilità del lavoro, che hanno favorito, via moderazione dei salari, una compressione notevole delle commesse delle imprese (Realfonzo 2013, Tridico 2015). Una circostanza che richiama l’attenzione sulla lezione di Keynes (2004), secondo cui gli investimenti pubblici costituiscono uno strumento anti-ciclico importante per coadiuvare e stimolare la ripresa durante le fasi di depressione economica; una lezione tuttavia dimenticata sia (comprensibilmente) dall’ortodossia sia da una buona parte dei c.d. neo-keynesiani, che nonostante la maggiore possibilità – offerta dalla crisi – di penetrare il dibattito economico e di influenzare le scelte dei policy maker, hanno de facto rinunciato a una più compiuta rielaborazione del pensiero keynesiano (Fini 2016), condannando le aree periferiche dell’Europa a una sottoutilizzazione strutturale delle risorse produttive, e quindi a un processo di progressiva deindustrializzazione.
*Assegnista di ricerca presso l’Università di Bergamo
[1] Un concetto sviluppato in tempi più recenti soprattutto da Mankiw et al. (1990) e da Barro e Sala-i-Martin (1995).
[2] Sono riportati tutti i Paesi per i quali il Fondo Monetario Internazionale fornisce dati esaustivi.
[3] Come se non bastasse, il coefficiente di regressione che lega le due variabili non risulta mai significativo. Nello specifico, il p-value è equivalente a 0,2551 nel primo caso e a 0,2855 nel secondo.
[4] Stavolta il coefficiente di regressione che lega le due variabili risulta molto significativo, facendo registrare un p-value di 0,0043.
[5] A ciò si aggiunge la non significatività del coefficiente di regressione (p-value = 0,4163).
[6] I tassi di crescita del PIL degli anni 2015-2016 sono stati esclusi per evitare distorsioni. In particolare, nel 2015 il PIL irlandese ha fatto registrare un incremento del 26,3%; tuttavia, questo aumento è da addebitare soprattutto al trasferimento di sede di diverse società multinazionali – attratte dalle politiche di forte dumping fiscale – che ha fatto decollare lo stock di capitale fisso dell’isola celtica.
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