1. Ho religiosamente compitato la collazione (rimaneggiata) di scritti che Riccardo Bellofiore ha testé dato alle stampe (R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020) e qui mi provo a recensirla. Per me è stato come compiere un viaggio a ritroso nella mia stessa vicenda intellettuale davanti alla evidenza di un identico sentire (Riccardo, come al solito, non concorderà, ma a me non importa affatto se lui non percepisce, perché io invece sì). E dire che non ci siamo mai frequentati veramente (lui a Torino e a Bergamo, io stabilmente a Bologna), sebbene entrambi avessimo da sempre condiviso l’idea generale che non c’è modo di capire l’economia politica se non se ne ripassa la storia. È stata questa la grande lezione che ha dato ad entrambi Claudio Napoleoni in quelle Considerazioni sulla storia del pensiero economico, dapprima uscite sulla “Rivista trimestrale” e poi raccolte nel 1970 sotto il titolo di Smith Ricardo Marx, che hanno segnato una intera generazione di giovanotti, allora aggressivi e irriverenti, che ambivano a farsi economisti. Poi tanti di loro si sono persi anche solo per «tirare quattro paghe per il lesso» (Giosuè Carducci, Davanti San Guido), ma non Riccardo che ha proprio voluto intitolare questa sua ultima pubblicazione a Smith Ricardo Marx+ Sraffa dove il quarto nome, che nel titolo di Napoleoni non c’era, non è affatto peregrino se proprio Napoleoni è stato il miglior divulgatore in Italia dell’unico libro di alta teoria che sia uscito nella seconda metà del Novecento: quella mitica Produzione di merci a mezzo di merci, per l’appunto, di Piero Sraffa.
Ma da dove cominciare questa mia recensione che vorrei mantenere il più possibile pirotecnica? Dalla certezza, altrettanto condivisa da Riccardo con me, che l’economia politica non tratta per niente di un agire economico in generale (sans phrase, come avrebbe detto Carlo Marx), bensì dell’agire specifico nel cosiddetto “modo capitalistico di produzione”, dove l’aggettivo è tutto un programma. E quale programma? Che il «ricambio organico tra uomo e natura» (copyright, ma piuttosto copyleft dell’inevitabile Carletto) non si pratica più utilizzando lavoro schiavile o servile, bensì con il lavoro salariato. Che tuttavia andrebbe meglio declinato come Lavoro a Salario, per mettere subito in evidenza che due sono gli elementi che entrano in gioco nella “maniera di produrre” che ci governa, ossia il lavoro, necessario affinché si dia una offerta di merci, ed il salario che ne risulta lo stimolo ma pure la domanda di quelle merci. Era ciò che Adamo Smith, “padre nobile” di tutti gli economisti, aveva ben capito introducendo quella categoria del lavoro comandato che io sul momento avevo snobbato parendomi un “pasticciaccio brutto” mettere insieme la fatica e la sua remunerazione. Ma allora ero più ricardiano che smithiano e poi ero giustificato dalla vicenda successiva del pensiero economico che i due termini aveva preso a far correre separatamente con il lavoro, promosso a “sostanza celeste” nel “lavoro contenuto astratto” da David Ricardo (con una “c” soltanto però, perché Riccardo non si allarghi troppo…) ed il salario rigettato sull’istinto di procreazione da contenere con la castità da parte del “prete” Malthus che io, figlio della generazione contraccettiva a venire, ho odiato quanti altri mai perché intendevo fottere e non astenermi! Si sa comunque che da questa divaricazione si sono aperte le due alternative possibili, verso destra, di un “lavoro senza salario” che al giorno d’oggi ha condotto a quella manna per il capitale che è il lavoro volontario (ossia gratuito!) e, verso sinistra, alla utopia (ma mai disperare!) di un “salario senza lavoro” in quel Paese di Cuccagna «dove manco si lavora, più si guadagna».
2. Come che sia, a questo punto partono le nostre due biografie parallele: a partire dalla tesi di laurea che Riccardo ha condotto con Claudio Napoleoni su Rosa Luxemburg e io su Joseph Schumpeter con Renato Zangheri (su cui, per me, il tacere è bello e so io il perché). Ed è dalla Luxemburg che Riccardo ha tratto il concetto di “salario relativo” a correzione della “legge d’immiserimento crescente” del proletariato perché, se il salario complessivo va piuttosto rapportato alla massa del profitto, il rapporto può andare all’ingiù ma pure all’insù qualora la forza contrattuale dei lavoratori organizzati lo consenta (da cui quello “sciopero spontaneo di massa” che Rosa si dava tanta pena a diffondere nella politica socialdemocratica del suo tempo). Io invece dal mio Schumpeter ho tratto l’idea, mai più dismessa, che la ricchezza del mondo cresce a colpi di trasformazioni della maniera del produrre, che sono quelle innovazioni, anche epoch-making, che consentono di ridurre progressivamente il contenuto di lavoro delle merci prodotte, come il solito nostro Adamo Smith aveva già compreso quando aveva unificato tutte quelle che sarebbero poi venute (dalla macchina a vapore al computer) sotto il titolo onnicomprensivo di “divisione del lavoro”: la sua fantastica «fabbrica degli spilli» (niente affatto del cioccolato!).
Eppure tra salario e lavoro c’è bisogno di un collegamento d’ordine superiore che l’imprescindibile Carlo Marx aveva indicato quando aveva fatto partire la formula della circolazione del capitale (il capitale non è una cosa e nemmeno un rapporto, bensì un processo) dalla quantità di denaro che viene pagata come salario per attivare il lavoro che poi ne segue. Ma Marx era limitato dall’idea dei tempi suoi che il denaro dovesse essere per forza di metallo (oro ed argento da trarre dalle miniere; e dove non sono miniere? Da una bilancia commerciale in attivo, così che il saldo venga pagato con le monete tratte dalla miniere altrui, che è poi quella politica mercantilistica che la Germania del Quarto, dopo il Terzo, Reich continua ostinatamente a perseguire). Però questo non poteva più essere il caso nella belle époque del Novecento, così che il mio Schumpeter (non teutonico bensì viennese come il Rudolf Hilferding del Capitale finanziario) ha potuto andare oltre il vincolo metallico mostrando come quel denaro d’avvio potesse essere tratto dalle altre “miniere” che sono le banche quando concedono credito allo scoperto agli imprenditori per far loro introdurre le innovazioni (ma non ne sarebbe seguita l’inflazione dei prezzi, come si preoccupano i benpensanti? Balle, perché con l’aumento delle merci prodotte a seguito delle innovazioni i prezzi sarebbero poi caduti ritornando a casa). È questo l’argomento magistrale (ancora insolito ai più) ripreso negli anni ‘80 del secolo scorso dall’altro nostro grande comune maestro Augusto Graziani (con cui ho avuto anche un piccola corrispondenza epistolare. Falso: ne ho avuta anche un’altra con Aurelio Macchioro, eccentrico storicone del pensiero economico che chi più conosce) a ricordarci come stia nel cielo della Moneta la giustificazione di quel Lavoro a Salario che si mostra sulla terra.
3. E arrivo al giudizio dolente del libro di Riccardo a proposito di quel “quarto incluso” che nel titolo di Napoleoni non c’era, e cioè Piero Sraffa. Napoleoni (l’ho già detto) lo conosceva a menadito e proprio lui, negli anni Sessanta, ci ha istruiti al riguardo con altre sue pubblicazioni, ma per veicolare (memorabile la conclusione del Pensiero economico del Novecento del 1963 e le scandalose Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx del 1972) l’idea sciagurata, che allora mi diede dolore, che proprio Sraffa aveva dato il colpo di grazia alla cosiddetta “trasformazione” marxiana dei prezzi di produzione nei valori-lavoro delle merci prodotte, così che ne franava la dimostrazione che il profitto capitalistico derivava dallo sfruttamento “di classe” del lavoro altrui. Eppure c’erano buone ragioni per convenire con Sraffa (e Napoleoni) perché intanto la dimostrazione della “trasformazione”, come data nel Capitale, logicamente non reggeva e poi perché in Produzione di merci era pur stato elegantemente dimostrato che un «uomo caduto dalla luna» poteva determinare tutti i prezzi di produzione e le quote distributive del reddito (salario + profitto) partendo dalla sola base dei metodi di produzione stabiliti dalla tecnica in essere, senza bisogno di scomodare i fallimentari valori-lavoro.
Peccato però che questa fosse la lezione essoterica di Sraffa, ossia quella rivolta ai più, perché in segreto egli coltivava una diversa dottrina esoterica, come se fosse “l’altra faccia della luna”, affidata alle sue carte private che, finché lui vivo, nessuno ha potuto leggere. Però non se ne può fargliene una colpa, dato che il tempo in cui egli visse era stato tempo di tirannie (nazifascismo, stalinismo, maccartismo – da non dimenticare nemmeno l’ultimo che in Gran Bretagna produsse nel 1951 lo scandalo di quelle “spie di Cambridge” che, da studenti, erano state introdotte al marxismo nella cellula comunista universitaria da Maurice Dobb, il compagno più caro di Sraffa, e che poi, in piena “guerra fredda”, erano fuggite in URSS per non essere arrestate in quanto agenti segreti del KGB). E’ ovvio che a queste condizioni per un ebreo+comunista+espatriato, qual era Sraffa, fosse più che opportuno procedere mascherato, ed anche in ambito accademico se ancora nel 1960 un suo collega (forse Dennis Robertson?) al solo leggere le bozze di Produzione di merci lo ammonì che quel libro doveva essere bruciato perché «immorale, neoricardiano e neomarxista»!
È quindi merito di Riccardo l’aver scovato, andando a rovistare a Cambridge tra le carte dello Sraffa defunto, proprio quegli appunti esoterici che, invece di negare il valore-lavoro marxiano, lo rifondavano dandogli (con un escamotage apparentemente di poco conto: il Netto invece del Lordo, ossia il PIN al posto del PIL) una consistenza logica ineccepibile e poi di essersi messo infaticabilmente a diffondere questo nuovo verbo. Io pure, senza muovermi da Bologna e senza bisogno di frugare negli inediti, ero arrivato al medesimo risultato risolvendo un indovinello presente in chiaro in Produzione di merci: perché mai nel paragrafo 10 il lavoro vivo complessivo viene preso a numerario (L = 1) se nel paragrafo 12 il prezzo di produzione del Netto in aggregato è altrettanto messo a numerario (Y = 1)? Siccome due numerari differenti non si possono dare, l’unica risposta poteva essere solo quella che essi fossero implicitamente identici (ossia che: Y = L o, piuttosto, che il numerario sia: Y/L = 1), con ciò ripristinando la misura marxiana del valore-lavoro contenuto, ma in aggregato e non per singole merci, con il valore come neo-valore ed il lavoro come solo lavoro vivo.
Nei vent’anni che abbiamo appena alle spalle Riccardo e Stefano Perri (giunto anche lui allo stesso risultato per altra via) e io (che a questo argomento ho dedicato nel 2011 una Storia del valore-lavoro che Riccardo non cita) avremmo potuto essere i Tre Moschettieri dello Sraffa en marxiste, con Perri come il miglior Aramis (e chi lo conosce, capisce), io come il Porthos d’occasione e Riccardo, come poi si dirà, come l’Athos necessario. Purtroppo, però, ciò non è successo perché quei tre moschettieri sono stati incapaci di fare massa critica ed invece di praticare il celebre detto moschettiere dell’“Uno per tutti, tutti per uno!” hanno preferito esercitare la regola contraria dell’“Ognuno per sé e nessuno per tutti”!
È ciò che succede anche nel capitolo su Sraffa in cui Riccardo si dilunga fin troppo a raccontare come fu che da una originaria impostazione marshalliana Sraffa sia approdato all’esoterica equazione di “neovalore-lavoro vivo” (ma si sa che per i viaggiatori veraci ciò che più conta è il viaggio e non la meta) e poi, quando tratta degli altri moschettieri, assume un atteggiamento di sufficienza come se dovesse mostrare che lui è l’unico autorizzato ad essere moschettiere. E invece verso le “guardie del Cardinale” che negano lo Sraffa “del lavoro vivo”, come si comporta? Non lesina scappellate, ma ciò è giusto perché lui è un Athos tenerone che, avendo avuto un tempo connubio con la perfida Milady (quegli sraffisti nostrani che sraffiani non sono), non se la sente di consegnarla nelle mani del boia, sebbene lei abbia assassinato il duca di Buckingham (il valore-lavoro) per danneggiare l’adorata regina (Karl Marx). E questo all’incontrario della vicenda romanzesca in cui Alexandre Dumas è stato invece senza pietà: «“I’m lost!” mormorò in inglese Milady, “I must die!”».
4. Vent’anni dopo (come nel sequel di Dumas con «il senso di grandezza di Athos, la vivacità di Porthos e l’eleganza di Aramis» ormai appannati dagli anni) che fa Riccardo nello specifico con me e Giancarlo Gozzi, coautori di uno Sraffa come economista classico: una congettura possibile? Ci rimprovera di esserci serviti dell’ipotesi ridicola di una “produzione a solo lavoro”, come se anche lui non sapesse che in aggregato un “prodotto netto” (alla Quesnay) è il risultato del solo “lavoro vivo” (alla Smith) anche nel caso di una «produzione di merci di mezzo di merci e di lavoro», che è una precisa citazione sraffiana che dovrebbe emendare il titolo del suo libro e che proprio Riccardo ha scovato tra le carte segrete. E accusa me di “ipostatizzare” il lavoro vivo assumendolo senza fondamento, come se io non sapessi, proprio per via di Graziani, che il lavoro vivo non è affatto un presupposto, essendo posto dalla quantità di denaro che viene immessa nel circuito a pagamento del salario monetario complessivo: D = W = Lw e quindi L = f (D). Non a caso l’altrettanto dimenticato Alfred Sohn-Rethel aveva chiamato il denaro come l’«apriori in contanti» che attiva il successivo Lavoro a Salario, così che, se mai mi capitasse di scrivere il capolavoro economico che oggi ci manca (non capiterà…), per dargli un titolo keynesianeggiante direi così: Teoria generale della moneta, del lavoro (non dell’occupazione) e delle tasse poi.
E qui, se mi resta lo spazio per un ultimo commento, vorrei dire del conflitto che dilania inevitabilmente il capitale, sempre incerto proprio sulla quantità di moneta da immettere nel suo circuito di valorizzazione: in funzione del lavoro vivo (l’offerta) oppure del salario (la domanda)? Da qui quel suo incedere incerto sul “filo del rasoio” di un eccessivo abbondare in moneta emessa, da cui più lavoro ma pure più salario e quindi meno profitto, oppure di un lesinare nella moneta con meno salario e quindi più profitto, ma pure meno lavoro. E’ questa la croce del denaro su cui il capitale si presenta necessariamente inchiodato e che Marx ha sintetizzato con una sola citazione presa dal Faust di Goethe: «due anime alberga il mio petto e l’una dall’altra si vuol separare». Che poi non è altro che il significato della contraddizione e siccome «ciò che in generale muove il mondo è la contraddizione, è ridicolo dire che la contraddizione non si può pensare» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 119).
Risposta di Riccardo Bellofiore
È uscita ora anche la “pirotecnica” recensione di Giorgio Gattei a Smith Ricardo Marx Sraffa. E se non su tutto su buona parte concordo, a partire dall’ “identico sentire”, che è anche generazionale. Conoscendolo, scommetterei addirittura che il titolo della recensione sia redazionale, e che il suo fosse più brillante (conoscendolo: perché nella mia vita gliene ho rubati due, di titoli; e in cambio lui me ne invidia uno).
Come Sraffa – che ad Aurelio Macchioro nel 1960 disse che “ognuno è stato lasciato libero di interpretare Produzione di merci a suo modo” – penso che i libri una volta pubblicati parlano da sé, e dunque chi vuole troverà alcune mie risposte a Giorgio andandosele a leggere nel volume. Mi limito solo ad aggiungere a margine un paio di aneddoti (in parte ne avevo parlato dopo la presentazione alla mediateca Gateway, in parte in quell’evento stesso).
Ecco il primo. Sono felice di essere stato accomunato ad Athos. Ma dov’è D’Artagnan nel discorso di Gattei? Giorgio scrive: “Senza muovermi da Bologna e senza bisogno di frugare negli inediti, ero arrivato al medesimo risultato risolvendo un indovinello presente in chiaro in Produzione di merci: perché mai nel paragrafo 10 il lavoro vivo complessivo viene preso a numerario (L = 1) se nel paragrafo 12 il prezzo di produzione del Netto in aggregato è altrettanto messo a numerario (Y = 1)? Siccome due numerari differenti non si possono dare, l’unica risposta poteva essere solo quella che essi fossero implicitamente identici (ossia che: Y = L o, piuttosto, che il numerario sia: Y/L = 1), con ciò ripristinando la misura marxiana del valore-lavoro contenuto, ma in aggregato e non per singole merci, con il valore come neo-valore ed il lavoro come solo lavoro vivo”.
Ma le cose non stanno così, e Giorgio lo sa bene. A quell’indovinello abbiamo dato la stessa risposta Stefano Perri e Giorgio, Scott Carter ed io: un bel po’ di amici e compagni. Eravamo però stati preceduti da un non accademico, Dario Preti, in alcuni lucidissimi contributi: Giorgio lo conobbe perché gli inviai un suo manoscritto all’inizio dei Novanta. E con l’onestà che gli è propria Giorgio lo dichiarò in un articolo con Giampiero Betti, quando (alla nota 15 a pagina 140 di «Lavoro contro capitale» a cura di Luciano Vasapollo) osserva che la “rivelazione esplicita” di quella “semplicissima deduzione” del neovalore-lavoro va attribuita a Dario Preti, e cita l’articolo che lo stesso Giorgio gli chiese per un capitolo nel libro da lui curato su «Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto».
Poi, visto che l’identico sentire si può declinare diversamente (leggetevi davvero I Tre Moschettieri, e Vent’anni dopo, e Il Visconte di Bragelonne: sono ben diversi i quattro! E si scornano ben bene), io credo che quell’argomento non basti (e che esso stesso vada “fondato”), se no vincono gli sraffisti, ci vuole quello che si trova all’archivio di Cambridge, ma per questo vi vedete il mio libro.
Prima, sta il triste episodio che il primo articolo che Preti presentò ad una rivista accademica («Il pensiero economico italiano») in un numero monografico su Sraffa in prima battuta venne accettato (con referaggi e lavoro redazionale per pubblicarlo), poi venne rigettato (senza referaggi!), infine quando la cosa si rivelò intenibile rigettato definitivamente con referaggi commissionati alla bisogna, come solo Richelieu avrebbe saputo fare. Ed io su quella rivista non scrivo più – è noto che ho cattivo carattere, e solo Giorgio può immaginarsi che io mi curi di quello che si pensa di me.
Ed ecco il secondo aneddoto. Giorgio lamenta che io avrei disertato la terna con lui e con Perri proponendo uno Sraffa en marxiste, e mi scappellerei davanti a Milady (i perfidi sraffisti non sraffiani, che negano il Marx del lavoro vivo). I due titoli che ho rubato a Giorgio sono “Quelli del lavoro vivo” e “L’altro Sraffa”. Il secondo, cos’è? È il titolo che detti nel 2010 ad un convegno organizzato assieme a Scott Carter su Sraffa. Sraffisti e sraffiani per lo più se la dettero a gambe. Ma non venne neanche Giorgio che avevo invitato con Gozzi, dicendogli che per me erano un pezzo importante del discorso, ed avrei voluto appunto che dicessero la loro.
Detto tra di noi, comunque e en passant, il Marx di Sraffa va bene solo fino ad un certo punto, in lui c’è troppo Ricardo. E se su quel terreno gli sraffisti dicono cose sensate, perché non dovrei segnalarlo? E se magari ad un certo punto si interrogano su ciò che all’inizio mettevano sotto il tappeto, perché non dovrei dialogare?
Il punto dolente è che mi sono accorto che Giorgio, a partire dall’eguaglianza tra il prodotto netto ai prezzi e il lavoro ormai speso nell’anno, scambia il lavoro vivo (che è un FLUIDO: il lavoro “in divenire”) con il lavoro diretto. Ma quello è lavoro ormai MORTO. È fotografia, non processo. È lo stesso problema della New Interpretation: e qui siamo sullo stesso piano degli sraffisti, si ragiona sempre DOPO IL RACCOLTO. E se resti su quel terreno, caro Giorgio, sei tu ad essere irretito da Milady: è un terreno ricardiano, quello marxiano è la lotta di classe dentro la valorizzazione che costituisce la configurazione produttiva. E lì non ho ceduto di un centimetro. E dagli anni Settanta. (Gli altri sì, basta andarsi a vedere la teoria del salario).
Ho solo capito, a Cambridge, che Sraffa è più [più, non del tutto: non vedo il mondo in bianco e nero] dalla nostra, e ne fui sorpreso. Dalla nostra NON per le due condizioni di normalizzazione del 1960 MA per la nota del 1940 The Use of the Notion of Surplus Value, che costituisce lo sfondo su cui è possibile comprendere lo Sraffa marxiano e non marxista. Nota conservata tra gli Sraffa papers e il cui inizio (in riproduzione fotografica) sta sulla copertina del libro curato con Scott Carter. È grazie a quella Nota che possiamo interpretare la doppia normalizzazione come facciamo: come una implicita adesione alle teoria del valore marxiana.
Comunque, grazie.