Dall’austerità di Berlinguer, al cancello di Arundhati Roy

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Political and social notes

Gennaio 1977: al Teatro Eliseo di Roma si svolge un Convegno di intellettuali – promosso da Enrico Berlinguer e dal suo Pci – su un tema particolarissimo e anche molto scivoloso, quello dell’austerità come via per arrivare, se non ad una società socialista almeno ad una società più giusta. È un rovesciamento radicale delle forme classiche (ottocentesche e novecentesche) del marxismo. Il Convegno fece allora molto discutere, ma verrà anche archiviato/rimosso con grande rapidità.

È stata una grande occasione persa? Forse sì, se rileggiamo quell’evento con gli occhi di oggi – dopo quarant’anni di neoliberalismo e di tecnologie di rete, di disuguaglianze sociali aumentate, di crisi ambientale/climatica che sarebbe già arrivata al ‘punto di non ritorno’ secondo Jonathan Franzen (e molti scienziati), di autocrazia/totalitarismo del sistema industriale/industrialista (o il totalitarismo della società tecnologica avanzata secondo Marcuse, che lo descriveva già settant’anni fa e oggi diventato ipertecnologico[i]), di classe operaia evaporata, di governo del mondo da parte di un oligopolio di imprese private (il Gafam e annessi e connessi). Quel Convegno e il successivo Progetto politico a medio termine, potevano essere analoghi al cancello di cui ha scritto Arundhati Roy a proposito della pandemia? – «un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e i cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo»[ii].

Pochi decenni dopo quel Convegno, le sinistre europee avrebbero accettato supinamente, se non convintamente l’austerità imposta dall’ordo-liberalismo europeo. Non vedendo che anche quell’austerità era imposta in nome dell’ulteriore accrescimento dell’egemonia di quello che definiamo come tecno-capitalismo, cioèil sistema integrato di tecnica e di capitalismo e di cui l’ordo-liberalismo – componente forte del neoliberalismo – è a sua volta parte strutturata e strutturale/funzionale. Tecno-capitalismo – che nasce con la rivoluzione industriale ma che sa ri-declinarsi ogni volta in forme apparentemente diverse, ma sempre più totalitarie – il cui obiettivo deliberato e pianificatorio (attraverso la razionalità strumentale/calcolante-industriale positivista che ne è l’ideologia) è quello di trasformare l’economia di mercato in società di mercato (secondo la sua componente neoliberale) e la società umana in sistema tecnico/fabbrica integrata oggi via rete (secondo la sua componente tecnologica). Ovvero, in società amministrata/automatizzata secondo Horhkeimer e Adorno[iii] e ora secondo noi o Sadin. Per realizzare questo obiettivo occorreva trasformare mercato e tecnica (rovesciandone il rapporto con l’uomo e la società) da mezzi a fini. Portando (ingegnerizzando) poi l’uomo e le società ad adattarsi (come ben sintetizzava già negli anni Trenta del secolo scorso un neoliberale come Walter Lippmann), alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro[iv]. Un sistema rivoluzionario in senso tecnico ed economico e allo stesso tempo contro-rivoluzionario in senso politico, perché a-democratico/anti-democratico per essenza e vocazione[v]. E poiché questa rivoluzione industriale è incessante e sempre mutevole, incessante deve essere anche l’azione per produrre questo continuo adattamento dell’uomo.

Qui proveremo allora a recuperare il senso di quella austerità berlingueriana, diversa dall’austerità dei governi di allora e di ieri, vedendola piuttosto come una grande occasione perduta. Da rileggere e meditare oggi cogliendo l’occasione della pandemia – il cancello di Arundhati Roy – per provare ad uscire da questo tecno-capitalismo che è ontologia, teologia, teleologia e nichilismo insieme; e da quella che Berlinguer chiamava la logica del capitalismo.

L’austerità comunista. Il contesto di allora

Prima di tutto richiamiamo alcuni fatti di quel decennio: pochi, parziali ma essenziali per ricordare quel periodo di cui i giovani d’oggi non sanno nulla. Quindi non faremo ovviamente una storia del Pci (di cui si celebrano i cento anni dalla nascita), tra Gramsci e Togliatti, compromesso storico, eurocomunismo, solidarietà nazionale e Movimento del ‘77, né del sindacato (ricordiamo solo, emblematica, la contestazione che il 17 febbraio 1977 – giusto un mese dopo il Convegno del Pci sull’austerità – il movimento degli studenti, in particolare Indiani metropolitani e militanti di Autonomia Operaia, portò contro Luciano Lama in un comizio che stava tenendo presso La Sapienza di Roma).

Dunque. Nel 1972 il Club di Roma presenta il suo Rapporto sui limiti della crescita[vi] (erroneamente tradotto con I limiti dello sviluppo, confondendo tra loro due concetti radicalmente diversi). Mettendo al centro dell’attenzione collettiva il concetto di limite: limite fisico della Terra e delle sue risorse, limite all’eccesso di popolazione, limite da porre a un sistema economico (e tecnico) che fa dell’accrescimento infinito e illimitato (crescita quantitativa, invece di uno sviluppo/progresso qualitativo) la propria ragione/razionalità. Qualcosa di scandaloso – il concetto di limite – per il tecno-capitalismo. Che infatti sommerse di critiche quel Rapporto che pure utilizzava i computer del Mit per elaborare le sue analisi e fare le sue previsioni di tendenza.

Secondo fatto. Nel 1973 scoppia la prima crisi petrolifera (la seconda sarà nel 1979): per ragioni soprattutto politiche (mondo arabo vs Israele), ma che in breve tempo si trasforma in un disastro  economico-sociale soprattutto in Occidente – e qualcuno forse ricorderà (era l’austerità necessitata dalla crisi petrolifera e dalla dipendenza delle economie occidentali dal petrolio) le domeniche a piedi, la circolazione a targhe alterne, le code ai distributori di benzina, il Natale senza luminarie e i programmi televisivi che terminavano alle 22.30, per risparmiare energia.

Terzo fatto: la nascita – in quel decennio – dell’ecologismo/ambientalismo, la scoperta che il mondo era inquinato e sovrappopolato e che stavamo sfruttando la Terra oltre ogni ragionevolezza e oltre (oggi diremmo) ogni sostenibilità. Soprattutto, senza responsabilità verso il futuro e le future generazioni. Alfredo Todisco e Antonio Cederna erano giornalisti e intellettuali in prima linea, sui mass media di allora, per sollevare il tappeto sotto il quale, per decenni il sistema aveva nascosto tutte le proprie negatività ambientali e sociali – ma anche criminali. In realtà il fronte intellettuale (e politico e di politica economica) a favore dell’ecologia era ben più ampio e articolato, ricordiamo i nomi di Giorgio Nebbia, Dario Paccino, Carla Ravaioli, Enzo Tiezzi e poi quello di Claudio Napoleoni con il suo cercare ancora[vii].

La grande disruption sociale e ambientale del tecno-capitalismo

E nel 1977 (nelle elezioni del 1976 il Pci aveva raggiunto il 34,37% dei consensi, il suo massimo storico), ecco appunto il Convegno di Roma del Pci sull’austerità. Era il canto del cigno della sinistra? Solo due anni dopo Margaret Thatcher sarebbe diventata premier in GB e nel 1980 Ronald Reagan presidente degli Usa: con loro inizierà lo tsunami neoliberale-tecnocratico-industrialista (la rivoluzione/contro-rivoluzione prima neoliberale e poi tecnologica), che ci sommerge o in cui siamo impaludati ancora oggi, ultima fase, ma la più estremista e nichilista della rivoluzione industriale): e gli anni Ottanta saranno pieni di edonismo reaganiano, di hippies che diventano yuppies, di godimento e divertimento (dopo la tristezza degli anni ’70), di consumismo esasperato e di televisioni commerciali/industria culturale berlusconiana, di narcisismo e di egotismo. Il tecno-capitalismo così facendoci in fretta dimenticare – è stata una perfetta azione di ingegnerizzazione comportamentale eterodiretta in senso neoliberale e tecnologico – la crisi ambientale e quella di sé come sistema: una rimozione che ha permesso al tecno-capitalismo di uscire dalla crisi degli anni ’70 e di tornare rapidamente a massimizzare i propri profitti, massimizzando il pluslavoro fino ad arrivare al lavoro gratuito di oggi nel capitalismo della sorveglianza e di piattaforma ed estrattivista. E di annichilire insieme (è l’ultima fase della grande disruption che il tecno-capitalismo mette in scena da tre secoli) società e biosfera, libertà e democrazia, uguaglianza e responsabilità.

L’austerità comunista: la proposta di Berlinguer

Nel suo discorso conclusivo al Convegno, Berlinguer aveva espresso in primo luogo grande soddisfazione per la qualità della partecipazione degli intellettuali intervenuti, non solo comunisti o vicini al Pci, ma anche di area cattolica – tra cui Thomas Maldonado, Giulio Einaudi, Giorgio Nebbia, Marcello Carapezza, Saverio Tutino, Alberto Asor Rosa, Maurizio Ferrara, Giulio Carlo Argan, Achille Occhetto, Massimiliano Fuksas.

La seconda riflessione era per come era stato accolto positivamente l’obiettivo del Convegno, quello di iniziare a «mettersi al lavoroper un progetto di rinnovamento della società italiana», Berlinguer marcando subito una differenza di metodo, perché: «Il metodo di lavoro dei comunisti non è quello del centro-sinistra», bensì quello appunto di impostare/immaginare un progetto di rinnovamento per la società italiana[viii], chiedendosi «quale può essere l’intervento della cultura nell’elaborazione di un simile progetto». Poiché «per trasformare la nostra società si tratta … non di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile, ed è naturale che il primo momento di questo nostro lavoro sia stato e debba essere l’incontro con le forze che sono o dovrebbero essere creative per definizione, con le forze degli intellettuali, della cultura», per poi passare a un lavoro politico tra la gente e con la gente.

E continuava: «Per noi l’austerità è il mezzo per contra­stare alle radici e porre le basi del superamento di un siste­ma che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non con­giunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’in­dividualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora». Quindi, una austerità capace di produrre il superamento del sistema (Berlinguer usa indifferentemente superamento del e uscita dal sistema, in realtà possono essere due obiettivi diversi). E ancora: «L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il da­to esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. (…) l’austerità può essere una scelta che ha un avanza­to e concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle con­dizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficace­mente per una società superiore, senza muovere dalla neces­sità imprescindibile dell’austerità. Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica [come poi anche l’austerità europea post-crisi del 2008], di repressione politica [come l’austerità europea post-crisi del 2008], di perpetuazione delle ingiustizie sociali [come l’austerità europea post-crisi 2008]; oppure co­me occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate. (…) Una politica di austerità deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento ope­raio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, ag­giungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, an­che se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) cer­te rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significa­to rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così riceve­re consensi crescenti diventa un ampio moto democratico al servizio di un’opera di trasformazione sociale».

Richiamando il Manifesto di Marx ed Engels, Berlinguer affermava poi che «viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali per alcuni paesi e in ogni caso per il nostro, o si avvia “una trasformazione rivoluzionaria della società” [ancora il concetto/processo di rivoluzione] o si può andare incontro “alla rovina comune delle classi in lotta”[in realtà, quarant’anni di neoliberalismo e di tecnologie di rete hanno dimostrato – in assenza di quella trasformazione rivoluzionaria – che non vi è stata nessuna rovina comune delle classi in lotta, ma la vittoria facile facile di quella dei ricchi sempre più ricchi[ix]].

Ma una trasformazione rivoluzionaria» – continuava Berlinguer – «può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare anche i problemi nuovi posti all’Occidente dal moto di liberazione dei popoli del terzo mondo». E da qui traeva due conseguenze: 1) l’esigenza di comprendere le ragioni di questi paesie di instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; 2) «abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di crescita fondata su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi e di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base».

L’austerità anti-riformista del governo, continuava Berlinguer per distinguerla da quella proposta dal Pci nell’occasione, era viziata da carenze di vigore, di coraggio e di respiro, «ad esempio non ha saputo ancora suscitare il necessario movimento di opinione di massa contro gli sprechi [ma era ingenuo solo pensare che il sistema (e i governi politici ad esso funzionali), basato sul consumismo e sullo spreco, sul pluslavoro per il plusvalore e sull’accrescimento illimitato di se stesso, potessero attivare un movimento di massa di opinione contraria – sarebbe stato come segare il ramo su cui si è seduti e il tecno-capitalismo è tutto meno che sprovveduto]; contro gli sprechi in senso diretto, che sono ancora enormi (…) e contro gli sprechi in senso indiretto come quelli (…) qui denunciati con particolare vigore dai professori Carapezza, Nebbia, Maldonado e da altri, derivanti da imprevidenze di cui avvertiamo oggi tutto il peso e da errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell’ambiente o dalla trascuratezza nel campo della ricerca».

Austerità come via al socialismo? Il nostro progetto, aveva continuato «non deve essereio credo – un programma di transizione a una società socialista: più modestamente e concretamente deve proporsi di delineare uno sviluppo dell’economia e della società (…) che possano raccogliere l’adesione e il consenso di quegli italiani che, pur non essendo di idee comuniste o socialiste, avvertono acutamente la necessità di liberare se stessi e la nazione dalle ingiustizie, dalle storture, dalle assurdità, dalle lacerazioni a cui ci porta ormai l’attuale assetto della società».

Aggiungendo però: «Ma chi sente questo assillo e ha questa aspirazione sincera, non può non riconoscere che per uscire sicuramente dalle sabbie mobili in cui rischia di essere inghiottita l’odierna società, è indispensabile introdurre in essa alcuni elementi, valori, criteri propri dell’ideale socialista». Per uscire dalla logica del capitalismo.

Ma come uscire da questa logica? «Quando poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati a un esasperato individualismo; quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte (…); quando poniamo l’obiettivo della piena uguaglianza e dell’effettiva liberazione della donna (…); quando poniamo l’obiettivo di una partecipazione dei lavoratori e dei cittadini al controllo delle aziende, dell’economia, dello Stato; quando poniamo l’obiettivo di una solidarietà e di una cooperazione internazionale che porti a una redistribuzione della ricchezza su scala mondiale; quando poniamo obiettivi di tal genere cos’altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra gli Stati, più solidali, più sociali, più umani e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?»

Un ragionamento astratto e puramente teorico? Forse sì. Eppure, Max Horkheimer aveva ricordato già molti anni prima, e saggiamente (e proprio criticando la ragione strumentale/calcolante-industriale della modernità), che «non il pensiero teoretico bensì la sua decadenza favorisce l’obbedienza ai poteri costituiti, siano questi rappresentati dai gruppi che controllano il capitale o da quelli che controllano il lavoro»[x].

La (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale

Ma cosa dobbiamo intendere – oltre Berlinguer, che sembra identificarla appunto solo nella ricerca del profitto – con logica del capitalismo? Intanto, non è del solo capitalismo, ma di tecnica & capitalismo. E poi, se la tecnica è l’insieme delle tecnologie e, a monte, è la razionalità strumentale/calcolante-industriale che predetermina e insieme incessantemente riproduce i processi di innovazione, di integrazione e di sfruttamento (e di alienazione), il capitalismo è invece l’insieme dei mercati ma, sempre a monte, è la razionalità strumentale/calcolante-industriale che predetermina e insieme incessantemente riproduce i processi di mercificazione e di sfruttamento (e di alienazione) della vita. Ovvero, la logica del tecno-capitalismo è la razionalità strumentale/calcolante-industriale, premessa necessaria per massimizzare anche il profitto.

La tecnica inoltre presuppone e insieme impone (e nella sua razionalità) che non possano più esistere macchine singole ma solo macchine integrate in macchine sempre più grandi secondo un principio di convergenza delle macchine e degli uomini che porta a un totalitarismo degli apparecchi o ad un sistema tecnico che prescinde sempre più dall’umano (la mega-macchina di Anders o di Ellul[xi]). Perché come scriveva Jacques Ellul, il progresso tecnico è un incessante meccanismo di integrazione dell’uomo, ma lo stesso vale per il capitalismo, con l’integrazione/convergenza dei mercati tra loro e degli uomini con il mercato. E ogni meccanismo di integrazione – massimamente il tecno-capitalismo – esclude ovviamente la libertà (anche se la produce industrialmente, illudendo che sia vera libertà), esclude il pensiero dissidente, divergente, il pensiero libero e critico. Mentre il dovere di adattarsi al tecno-capitalismo significa negare all’uomo ogni possibilità di autonomia e ogni capacità di individuazione e di libero arbitrio, di consapevolezze e di progettualità, di eticità dei comportamenti. E oggi dobbiamo purtroppo ammettere che adattarsi è diventata la forma e la norma sociale imposta dalla forma e dalla norma tecno-capitalista, producendo un uomo – dopo che anche la classe operaia ha ripudiato l’austerità come modello di trasformazione sociale, ha smesso la sua coscienza di classe e dagli anni ’80 ha iniziato a lasciarsi sedurre dal Drive in (e succedanei e successori, tra industria culturale e società dello spettacolo e serie televisive, introiettando un infantile feticismo soprattutto per le merci tecnologiche ma soprattutto per il sistema che le produce, credendo che questa sia l’utopia finalmente raggiunta del post-capitalismo) – un uomo ancora più unidimensionale di quello descritto da Marcuse (e quindi ancora più funzionale al sistema). Ma soprattutto – e peggio – è ancora più sussunto nel sistema e nella logica del (tecno)capitalismo. Una sussunzione prodotta appunto dalla convergenza di uomini e macchine in macchine sempre più grandi e sempre più automatiche, producendo infine anche l’automazione del pensiero – che è ben oltre la società amministrata/automatizzata secondo Horkheimer[xii]. Perché come ha scritto ne La libertà e le occasioni il filosofo Aldo Masullo[xiii], la tecnica non accresce più la libertà dell’uomo, ma è piuttosto una incessante sfida alla sua libertà. Per cui occorre salvare l’umano dalla sua sempre più stretta calcolabilità, cioè dalla logica anti-umanistica della tecnica e del capitalismo.

Quindi è ingenuo credere – e cieche sono le sinistre e i marxismi che lo credono (compreso Marx, con la sua illusione di un general intellect) – che la tecnica in sé e per sé possa liberare l’uomo dal lavoro e dal suo sfruttamento. Se viene infatti lasciata libera e se non è controllata democraticamente e consapevolmente[xiv] – e quindi valutata criticamente ex ante secondo un principio di precauzione e di responsabilità per gli effetti domani delle azioni di oggi – e quindi se non è finalizzata all’uomo, la tecnica, con il capitalismo sempre accresceranno lo sfruttamento del tempo, del lavoro e delle risorse, quindi della natura e dell’uomo, perché la loro razionalità solo strumentale/calcolante-industriale non tollera tempi morti e pause di riflessione; sempre produrranno l’accelerazione dei ritmi e dei tempi ciclo grazie all’automatizzazione non solo delle macchine ma della vita e appunto del pensiero (oggi: app/machine-learning/IA); sempre ricercheranno l’integrazione/sussunzione crescente degli uomini nell’apparato (e qui sta soprattutto la tendenza totalitaria del tecno-capitalismo), muovendosi verso un post-umano da intendere come quella realtà che prescinde dall’umano; sempre produrranno l’alienazione degli uomini da se stessi, dal loro lavoro e dalla consapevolezza della valutazione e della decisione e soprattutto dalla responsabilità per gli effetti delle azioni compiute.

Razionalità strumentale/calcolante-industriale – è questa appunto la logica che determina il tecno-capitalismo. Strumentale perché finalizzata all’accrescimento della produttività (che presuppone una intensificazione dei tempi-ciclo e della sussunzione, l’estensione della giornata lavorativa e l’aumento del pluslavoro) e quindi del profitto (privato); calcolante, perché basata solo sul calcolo e sulla valutazione capitalistica (costi/benefici capitalistici) di tutto, anche dell’uomo, prescindendo da ogni pensiero meditante/riflessivo; e industriale, perché oggi tutto è industria e tutto è organizzato industrialmente: la rete, i social, l’Internet delle cose e degli uomini, la famiglia, la felicità, la cultura, la scuola e l’università e le relazioni umane, il divertimento. Una razionalità tutta diversa, ovviamente, dalla ragione dell’illuminismo.

L’austerità (e la progettualità) dimenticata

Cosa è rimasto della proposta berlingueriana? Nulla. Diceva Giorgio Nebbia – ecologista vicino al Pci, presente al Convegno del 1977, ma soprattutto intellettuale e docente di quella scienza oggi dimenticata che è la merceologia – nel suo intervento al Congresso del Pci del 1983: «Il compagno Berlinguer su “Rinascita”, un paio d’anni fa, scriveva che è tempo di chiedersi che cosa occorre produrre e come e dove nel territorio. Ebbene (…) anche il movimento ecologico italiano chiede un’alternativa: essa, come proponeva nella sua breve primavera il Progetto a medio termine del Partito comunista italiano, è il nucleo centrale della proposta di una politica cosiddetta di austerità, avanzata dal compagno Berlinguer. Questo progetto deve permettere uno sviluppo economico che, per forza, deve esser diverso dall’attuale, in grado di soddisfare i bisogni umani tenendo conto del valore, che è economico in quanto umano, della salvaguardia dell’ambiente, dell’uso parsimonioso ed efficiente delle risorse naturali del nostro Paese e dell’intero pianeta. (…) Da qui la ridicolizzazione del movimento ecologico, l’accusa di essere contro il progresso. E invece, un cambiamento nella programmazione e nel controllo della produzione e del consumo, nell’uso della natura e delle sue risorse, è indispensabile proprio per il progresso civile e democratico del Paese, per ridare fiducia tanto ai lavoratori quanto ai giovani (…). È questa l’alternativa che chiede il movimento ecologico, il movimento verde. Non è simile a quella che cercano i comunisti italiani?»[xv]

Programmazione e controllo della produzione e del consumo – parole di cui oggi non percepiamo più neppure il senso, sono diventate parole aliene.

Anni dopo (nel 2002), ricordando quegli eventi, sempre Nebbia avrebbe scritto: «Tornano in mente e appaiono del tutto attuali, le parole di Enrico Berlinguer scritte su “Rinascita” del 24 agosto 1979, e tante volte ripetute, ma rimaste inattuate nell’operare politico ed economico: “Oggi, da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato, il senso stesso dello sviluppo o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre”. L’articolo continuava auspicando una “politica economica nuova nella quale i problemi della quantità dello sviluppo e della sua qualità, della sua espansione e delle sue finalità si saldino, si esprimano… anche sulla forma e la qualità dei consumi e quindi sul processo stesso di accumulazione”. (…) La proposta di Progetto a medio termine, elaborato da una Commissione del Comitato centrale del Partito comunista fu esaminata dallo stesso Comitato centrale il 13 maggio 1977 e avrebbe dovuto dare luogo a una discussione nel Paese; una certa discussione c’è stata, ma nessuna delle idee esposte è stata attuata, neanche nelle zone in cui le sinistre sono state al governo (…). Il dibattito, le proposte di cambiamento di un quarto di secolo fa sono stati dimenticati, ma le proposte sono ancora sensate, anzi sono le uniche che possono costituire la base di un programma di lavoro politico. Se si ricominciasse a fare politica da questo punto?»[xvi] – si chiedeva Nebbia.

Ma chi si impegnerebbe a fare oggi lavoro politico, dov’è il pensare a medio termine, dov’è il progettare un cambiamento? Dov’è il programmare produzione e consumo? Certo, questo lavoro lo hanno fatto e lo stanno facendo i giovani dei Fridays for Future, ma dov’è la sinistra, dove sono gli intellettuali, dove sono i Todisco e i Cederna e i Peccei e i Nebbia di oggi? Oggi si parla di green economy e di economia circolare, di sostenibilità e però sembrano (o meglio: sono) forme tecno-capitaliste funzionali al sistema (come lo sono i processi di digitalizzazione/taylorismo digitale) – cioè di green-washing – per la prosecuzione del tecno-capitalismo – e per la continuazione dell’accumulazione capitalistica – con altri mezzi (si legga, per una conferma The Great Reset del World Economic Forum e il libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, appunto: resettare, non modificare, il tecno-capitalismo[xvii]): facendoci credere che la digitalizzazione e l’AI, aggiungendo una spolverata di green o di circolarità, possano risolvere il problema ambientale (e quello sociale, strettamente connesso). Tecno-capitalismo che infatti continua a vedere ogni forma di programmazione della produzione e del consumo – oggi semmai più necessarie di allora, posto che una vera sostenibilità oggi fa rima (non può che fare rima) con austerità ma soprattutto, e meglio ancora con sobrietà (infra), perché appunto non basta un po’ di green economy se a monte non si esce dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale, se non si spezza il legame necrofilo/tanato-politico tra produzione e consumo (è il principio di riproduzione del sistema, come evidenziato da Anders) – come incompatibili con il proprio accrescimento infinito e con l’accrescimento infinito dell’apparato tecnico (lo dimostrano la finanza internazionale, che sta investendo cifre enormi nell’economia verde o il nuovo governo Draghi che ha come ministro alla Transizione ecologica un fisico che si è occupato prevalentemente di nanoparticelle – chissà se ha mai letto Il principio responsabilità, di Hans Jonas[xviii] – e di innovazione tecnologica per Leonardo, fabbrica anche di macchine belliche che fa grandi affari con l’Arabia Saudita – ovvero: tutto meno che una sensibilità ambientale e morale/etica, facendoci facilmente prevedere che la transizione ecologica del governo sarà finalizzata solo a resettare il tecno-capitalismo).

L’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco

Dopo 40 anni persi rincorrendo la realtà virtuale, a ricordarci la drammaticità del problema ambientale – e la cosa dovrebbe essere vissuta come inquietante per le sinistre del mondo e per il pensiero marxista in particolare – è arrivato Papa Francesco con la sua Enciclica Laudato si’, del 2015[xix] – ma è da ricordare anche la Populorum progressio di Paolo VI, del 1967, testo controverso ma dove si ricordava che il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti, né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; e che non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; posto che economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire.

Ha scritto Papa Francesco: «La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in spagnolo alcuni chiamano rapidación. Benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la sua velocità contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di questo cambiamento veloce e costante non necessariamente sono orientati al bene comune e allo sviluppo umano, sostenibile e integrale. Il cambiamento è qualcosa di auspicabile, ma diventa preoccupante quando si muta in deterioramento del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità». Che è appunto ciò che sta accadendo. E quindi: «I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. (…) [Eppure] molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi dei cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo».Ovviamente, scrive Francesco, «un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità»; ma è altrettanto evidente che dobbiamo «porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato». Legato al mito della tecnica, perché l’uomo moderno, scrive Francesco citando Romano Guardini, «non è stato educato al retto uso» della potenza della tecnica, e «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza».

Ovvero, continua l’Enciclica, il problema fondamentale è che «l’umanità ha assunto la tecnica e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale (…) che fa della tecnica e del metodo scientifico un sistema di possesso, dominio e trasformazione incessante (…) Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò determina la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite». Francesco infine proponendo il concetto di sobrietà: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita. (…) La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario». E soprattutto è diversa e oltre l’austerità.

Ma c’è un punto sul quale Francesco si dimostra molto più avanti delle sinistre positiviste/pragmatiste/industrialiste e del marxismo, là dove cioè scrive di tecnica: «Occorre [cioè] riconoscere che la tecnica non è neutra [come invece continua appunto a credere la sinistra e il sindacato], perché crea una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orienta le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere. Certe scelte, che sembrano puramente strumentali, in realtà sono attinenti al tipo di vita sociale che si intende sviluppare» (noi abbiamo usato il termine di ingegnerizzazione dei comportamenti). Oggi diventa quindi difficile – ma anche sempre più urgente e necessario – attuare «un diverso paradigma culturale (…), [perché] il paradigma tecnocratico è diventato così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse e ancora più difficile è utilizzarle senza essere dominati dalla sua logica [e anche su questo fattore, di nuovo, le sinistre e il marxismo – e il sindacato – avrebbero molto da imparare; ma rimandiamo anche a una nostra riflessione su Raniero Panzieri e al rapporto tra capitalismo e tecnica[xx]] (…) Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ‘ferrea logica’ [la logica a cui pensava Berlinguer, che non è però la logica del solo capitalismo, ma del tecno-capitalismo – ancora Panzieri]. (…). Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più autentica e lo spazio per una creatività alternativa degli individui. (…) La vita diventa un mero abbandonarsi [cioè adattarsi supra] alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come principale risorsa per interpretare l’esistenza». Invece, deve essere «ancora possibile ampliare lo sguardo e limitare e orientare la tecnica e metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più umano, più sociale e più integrale». Perché – continua Francesco – non si tratta di ‘fermare il progresso’, «ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo». Ovvero: «Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso».  

E, per la sinistra, di immaginare anche una sobrietà laica.

Per farlo non basta uscire dalla logica del capitalismo, ma occorre uscire anche da quella – identica e integrata alla prima – della tecnica.

Lelio Demichelis insegna Sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria. Gli ultimi volumi pubblicati sono: Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene, FrancoAngeli, Milano, 2020; e La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano, 2018 (di prossima pubblicazione in inglese, con il titolo: Marx, Alienation and Techno-capitalism, per i tipi di Palgrave Macmillan).

Note bibliografiche


[i] Un libro su tutti: H. Marcuse [1964], L’uomo a una dimensione (2019), trad. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino

[ii] Articolo ripreso da Internazionale, nr. 1353

[iii] M. Horkheimer – T. W. Adorno [1947], Dialettica dell’illuminismo (2016), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino; M. Horkheimer [1947], Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (2003), Einaudi, Torino; Id. [1972], La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale (1979), trad. di G. Backhaus, Einaudi, Torino; L. Demichelis (2008), Bio-Tecnica. La società nella sua ‘forma’ tecnica, Liguori, Napoli; L. Demichelis (2015), La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis, S.S. Giovanni-Udine; Id. (2018), La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano; Id. (2020), Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene, FrancoAngeli, Milano; É. Sadin (2019), Critica della ragione artificiale, trad. di F. Bononi, Luiss, Roma

[iv] Cfr., P. Dardot – Ch. Laval, (nuova edizione 2019), La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, trad. di R. Antoniucci e M. Lapenna, DeriveApprodi, Roma, in particolare il Cap. 6

[v] L. Demichelis (2020), Tecnologia, capitalismo e/o democrazia: la lezione di Luciano Gallino

[vi] D. H. Meadows – D.L. Meadows – J. Randers – W.W. Behrens III (1972), Prefazione di A. Peccei, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group – MIT, per il Progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Est Mondadori, Miano

[vii] C. Napoleoni (1990), Cercate ancora (Introduzione e cura di Raniero La Valle), Editori Riuniti, Roma; L. Demichelis, Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni – https://www.economiaepolitica.it/l-analisi/claudio-napoleoni-attualita-capitalismo-tecnica-ecologia-ricostruire-la-sinistra-scomparsa/

[viii] E. Berlinguer (1977), Austerità, occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma; Partito comunista italiano, Proposta di progetto a medio termine, Editori Riuniti, Roma; E. Berlinguer (2010), La via dell’austerità. Per un nuovo modello di sviluppo, Edizioni dell’Asino, Roma; http://www.iskrae.eu/wp-content/uploads/2015/10/0055-1977-Berlinguer-Eliseo-discorso-sullausterita%CC%80.pdf

[ix] Si veda: L. Gallino (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari

[x] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., pag. 125

[xi] G. Anders [1956], L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. I (2003), trad. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino; Id [1980], L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II (1992-2003), trad. di M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino; J. Ellul [2004], Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee (2009), trad. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano

[xii] M. Horkheimer, La società di transizione, cit., pag.168 e 174

[xiii] A. Masullo (2011), La libertà e le occasioni, Jaca Book, Milano

[xiv] Rimando ancora a: L. Demichelis (2020), Tecnologia, capitalismo e/o democrazia: la lezione di Luciano Gallino

[xv] G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, pag. 36

[xvi] Ivi, pag. 64

[xvii] https://www.weforum.org/great-reset/- Ha commentato Geminello Preterossi: «Per certi aspetti, è un’operazione ideologica preventiva, volta cioè a evitare che dalla pandemia sorgano ricette e sensibilità che recuperino sul serio la centralità dello Stato e della politica nella loro autonomia, rimettendo in campo il conflitto sociale e politiche di programmazione in grado non solo di redistribuire, limando i profitti, ma anche di orientare a fini pubblici, collettivi, l’economia, all’insegna ad esempio dei principi del costituzionalismo sociale e democratico» – https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/19711-geminello-preterossi-the-great-reset-una-nuova-rivoluzione-passiva.html

[xviii] H. Jonas [1979] Il principio responsabilità (1990), trad. di P. Rinaudo, Einaudi, Torino

[xix] Papa Francesco (2015), Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)

[xx] L. Demichelis (2020), Noi, forza-lavoro del padrone Gafam. Da Raniero Panzieri alla rete-fabbrica-integrata – https://www.economiaepolitica.it/il-pensiero-economico/forza-lavoro-del-padrone-gafam-raniero-panzieri-rete-fabbrica-integrata/

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