Marco d’Eramo ha dato alle stampe in questi giorni il suo ultimo libro, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi” (Feltrinelli, 2020).
Questa la tesi di fondo: negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a una guerra dei ricchi contro i poveri che è partita e si è svolta principalmente all’interno degli Stati Uniti d’America centro del capitalismo occidentale. I ricchi hanno stravinto, mentre i poveri non si sono neanche difesi e i cosiddetti progressisti o liberal non se ne sono accorti o hanno fatto finta di non accorgersene, affascinati com’erano dal denaro dei ricchi.
La guerra è partita dalle famiglie ‘storiche’ di miliardari conservatori e benpensanti degli Stati Uniti i quali hanno dato vita, nel corso degli anni, a una grande campagna per l’egemonia culturale iniziata in sordina durante il periodo del Welfare State dominante nel secondo dopoguerra e divenuta poi main stream negli ultimi trent’anni. Questa campagna si proponeva di contrastare qualsiasi idea di giustizia sociale, di redistribuzione della ricchezza da parte dello Stato o soltanto di assistenza ai più deboli che non fosse quella voluta e organizzata attraverso le organizzazioni benefiche e le fondazioni private. D’Eramo non manca di fare i nomi dei principali animatori di questa campagna: si tratta delle famiglie Walton (quelli della Walmart), dei DeVos del Michigan, dei Koch, degli Olin, dei Mellon, dei Coors ma anche di Bill Gates, il gotha del capitalismo americano vecchio e nuovo che ha preso saldamente nelle proprie mani le redini delle principali politiche pubbliche e sociali degli Stati Uniti.
Ne hanno fatto le spese i servizi pubblici, la sanità pubblica, la scuola pubblica messa nell’angolo con il sistema dei vaucher e poi l’ambiente e la giustizia. In particolare il diritto, soprattutto quello giurisprudenziale che era stato l’artefice delle più importanti conquiste sociali negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è divenuto l’infrastruttura principale della nuova ideologia conservatrice attraverso la progressiva affermazione della teoria denominata Law and Economics. L’analisi economica del diritto è riuscita a divenire teoria dominante e a schiacciare le ragioni della giustizia su quelle dell’efficienza economica.
Chi ci ha rimesso le penne in questa guerra ideologica, oltre naturalmente ai poveri costretti a lavorare di più con salari più bassi, è stato lo Stato – mi si perdoni il gioco di parole – cioè l’idea che vi fosse un’istituzione capace di rappresentare gli interessi di tutti e che, raccogliendo le tasse dai suoi associati, potesse poi redistribuire la ricchezza fornendo servizi pubblici essenziali come l’istruzione, la sanità, la ricerca, le infrastrutture. La guerra ideologica dei conservatori e delle loro fondazioni ha ridotto lo Stato, prima di tutto quello federale degli Stati Uniti, ad uno Stato minimo nei servizi sociali e forte per le sue velleità sovraniste che limita le sue funzioni a quelle di assicurare l’ordine pubblico interno e di rafforzare la potenza militare per supportare le ambizioni – e il tenore di vita – della più ricca democrazia del pianeta.
Come mai è potuto accadere tutto ciò? Marco d’Eramo lo spiega con le parole di Trasimaco tratte dalla Repubblica di Platone: «La giustizia non è altro che l’utile del più forte […] ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con le leggi democratiche, la tirannide con le leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgressore sia della legge che della giustizia. In ciò dunque consiste […] quello che, identico in tutti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza: così […] in ogni caso il giusto è sempre l’utile del più forte» (p. 56). Insomma avrebbero vinto le idee del sofista Trasimaco, a nulla valendo la confutazione di quelle tesi che Platone fa pronunciare al suo maestro Socrate.
Se un appunto si può fare al libro di Marco d’Eramo è quello di suggerire un rimedio debole a tutto ciò: mettersi all’opera per ricostruire una nuova egemonia progressista che oggi è fatta di poche voci ma che in futuro potrà diventare main stream se saprà agire proprio come hanno fatto i conservatori con la loro rivoluzione al contrario. È vero che d’Eramo cita anche Machiavelli e la sua idea: a volte è necessario che i poveri si ribellino alle ingiustizie perché è l’unico modo per fare buone leggi. E ricorda anche le tesi di Mandeville per sostenere che l’economia pubblica ha una logica opposta a quella dell’economia privata. Ma sembra che d’Eramo dia per scontato che lo Stato sia perduto alla causa dei dominati perché rappresenta solamente lo strumento attraverso cui i capitalisti perseguono i propri interessi. Tesi fondata su una lettura ortodossa del pensiero di Marx.
Tuttavia se siamo arrivati a queste condizioni, se il welfare è stato smantellato, se i servizi essenziali sono stati lasciati al mercato, è proprio perché gliel’abbiamo lasciato fare; perché è andata sempre più accentuandosi una profonda ‘diffidenza’ verso lo Stato in ogni ambiente, anche progressista. Questa insofferenza era alimentata soprattutto dall’idea che lo Stato fosse troppo ingombrante, opprimesse la libertà dei cittadini, perché era come il carro del Dio indiano che stritolava gli individui al proprio passaggio. Salvo poi a rimpiangere i bei tempi in cui lo Stato offriva servizi e tassava i ricchi e i loro patrimoni. Insomma delle due l’una: o ripensiamo allo Stato, facciamo autocritica e decidiamo di riprendercelo oppure le pur condivisili critiche alle perversioni del neocapitalismo resteranno prive di uno sbocco politico in attesa dell’avvento di un’amministrazione delle cose che non verrà mai.