Nel suo ultimo libro – “La Riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela” – l’economista Francesco Saraceno ricostruisce la storia dell’euro e presenta una serie di proposte per riformare l’unione monetaria europea.
There is one thing that all the successful monetary unions have, and that’s a central fiscal capacity (…).
So it’s very important to have something of that nature of an adequate size.
Mario Draghi, 24 ottobre 2019
Dimitri Pisarev, teorico del nichilismo russo, sosteneva che i grandi fanatici sono i bambini e i giovani. Albert Camus chiosava che era vero pure per le nazioni. Il tema è stato meno esplorato nel caso delle “giovani unioni monetarie”. Ma c’è un’immagine che sembra rendere l’accostamento meno spericolato di quanto appaia a prima vista.
È l’ottobre del 2017. Wolfgang Schäuble, fino ad allora potentissimo ministro delle finanze tedesco, lascia il suo incarico per diventare presidente del Bundestag. I dipendenti del ministero lo salutano dal cortile, tutti vestiti di nero e schierati per formare un grande zero: lo Schwarze Null, lo “Zero Nero”, ovvero il simbolo del pareggio di bilancio, l’obiettivo raggiunto da Schäuble nel 2012 e difeso dalla repubblica federale fino allo scoppio della pandemia da coronavirus.
L’aneddoto è raccontato nell’ultimo libro dell’economista Francesco Saraceno: “La Riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela”[1] (Luiss University Press). Il saluto a Schäuble non è che un episodio minore: in fondo, si tratta di una affettuosa e simpatica goliardia. Eppure, trasmette bene l’idea – non del tutto innocente – dell’importanza simbolica che il dogma dei “conti in ordine” ha rivestito per quella che Saraceno definisce la “dottrina di Berlino”. Non un ordinario strumento di politica economica. E nemmeno una condizione punitiva e vessatoria imposta ai cugini poveri del Sud. Nell’apparato filosofico dell’ordoliberalismo tedesco, una tradizione economica tuttora di grande influenza in Germania, il pareggio di bilancio è un imperativo morale, un esempio di virtu’, di devozione al bene comune e di premura per l’avvenire delle future generazioni.
Il problema, e qui si torna alla suggestione un po’ temeraria da cui si è partiti, è che le unioni monetarie non si governano con i feticci ideologici. Soprattutto se nascono azzoppate da un’architettura istituzionale ancora incompiuta e, come tale, bisognosa di creatività, pragmatismo e visione.
Nel libro, Saraceno ripercorre con notevole capacità di sintesi l’avventura dell’euro dalla nascita ai giorni nostri. Quando la moneta unica è venuta alla luce, l’Europa non rappresentava quella che nel gergo degli economisti si suole definire un’“area valutaria ottimale” (secondo la teoria principalmente associata all’economista premio Nobel Robert Mundell[2]). Nonostante l’integrazione commerciale fosse già considerevole, le economie dei paesi membri presentavano caratteristiche sostanzialmente diverse, così da esporle potenzialmente a shock economici asimmetrici. La mobilità della forza lavoro era (e resta) relativamente limitata, a causa soprattutto delle barriere culturali e linguistiche fra un paese e l’altro (un problema che non sussiste, ad esempio, per gli Stati Uniti d’America). Infine, i meccanismi di aggiustamento di mercato – flessibilità di prezzi e salari, mobilità dei capitali – non erano tali da poter compensare l’assenza di trasferimenti fiscali fra paesi in differenti fasi del ciclo economico (anche qui: diversamente da ciò che succedeva e succede nelle unioni federali come gli Stati Uniti).
Dal momento che l’analisi appena tratteggiata era ed è diffusamente accettata, ci si potrebbe chiedere perché si sia deciso di dare vita, comunque, ad una moneta unica.
Le ragioni sono molte, e non tutte di carattere strettamente economico. È vero che l’euro non può essere compreso senza ricostruire la storia del sistema monetario internazionale post-Bretton Woods e i travagli sofferti dal Sistema Monetario Europeo (SME). Ma è anche vero che quella storia deve essere inquadrata in un mondo molto diverso dal nostro, un mondo in cui due Germanie si apprestavano a diventare una e la generazione dei padri fondatori della moneta unica aveva una memoria molto più vivida della nostra delle guerre che hanno insanguinato il vecchio continente nel corso del Novecento.
La tesi che Saraceno avanza nel suo libro è che l’euro non sia nato nonostante l’Europa non fosse un’area valutaria ottimale. Ma proprio perché non lo era. L’euro, insomma, sarebbe nato per cambiare l’Europa. Saraceno scrive di una l’“innaturale” convergenza politica fra sostenitori del “progetto federale europeo” e “partigiani del libero mercato”: “i primi vedevano nella non ottimalita’ [nel senso di Mundell, ndr] della moneta unica un incentivo per procedere verso una struttura di tipo federale” con un vero bilancio comune affiancato alla politica monetaria gestita dalla Banca Centrale Europea (BCE). Per i secondi la “gabbia dell’euro” avrebbe reso ineluttabili le riforme strutturali necessarie a rendere funzionanti gli aggiustamenti di mercato.
Si sa chi ha prevalso nei decenni successivi. Ma si conoscono anche i risultati delle politiche economiche che sono state intraprese. Nel 2010, l’anno dello scoppio della crisi del debito sovrano, l’economia della Grecia rappresentava circa il 2% del Pil dell’intera zona euro. Che un paese di queste dimensioni possa aver messo praticamente in ginocchio l’economia sotto molti aspetti più prospera del pianeta è il segno più inequivocabile di un fallimento storico. E che l’euro sia stato salvato da quattro provvidenziali paroline – what ever it takes – pronunciate dall’allora presidente della BCE, è un’ulteriore dimostrazione della fragilità dell’intera costruzione iniziale.
Da allora molto è cambiato, a cominciare dal mutamento genetico subito proprio dalla BCE sotto la guida di Mario Draghi. Lo abbiamo visto anche in occasione della devastante crisi scatenata dal coronavirus. Nonostante le gaffe della nuova presidente Christine Lagarde, la Banca Centrale Europea è intervenuta tempestivamente per “chiudere gli spread” e sostenere le misure di sostegno ai redditi e alle imprese varate dai governi europei. Le regole del patto di stabilità e sugli aiuti di stato sono state sospese per affrontare l’emergenza, e con il Next Generation EU si è anche visto un abbozzo – pur provvisorio, limitato e incompleto – di un bilancio europeo finanziato da debito comune.
Secondo Saraceno tutte queste sono novità da non sottovalutare, ma che non possono eliminare i problemi strutturali di una unione monetaria ancora incompiuta. Nella seconda parte del libro viene dunque delineata una serie di riforme possibili, partendo da una considerazione tutta politica: “Dal punto di vista dell’efficacia macroeconomica, e dalla capacità di neutralizzare le naturali tendenze centrifughe di un’Unione monetaria per forza di cose non ottimale, la soluzione di gran lunga migliore sarebbe dotarla di un bilancio federale. Ma il bilancio federale non può esistere senza uno Stato federale ed è ovvio che gli Stati Uniti d’Europa sono oggi poco più di una chimera”. Da qui le proposte presentate come “surrogati di un federalismo impossibile”. Fra queste il sussidio di disoccupazione europeo (già oggetto di una proposta della Commissione Europea) finanziato da risorse reperite a livello comunitario, con debito comune o tasse europee. Il sussidio dovrebbe affiancare gli strumenti nazionali già esistenti in caso di scostamenti significativi da un valore di riferimento stabilito per ogni paese. Questo e altri strumenti descritti da Saraceno potrebbero aiutare ad affrontare shock asimmetrici all’interno dell’unione monetaria attraverso meccanismi di trasferimento fiscale fra livello comunitario e quello nazionale. Ma tutto ciò – è lo stesso autore a sottolinearlo – non farebbe comunque venire meno la necessità di un recupero di un ruolo autonomo dei governi nazionali nell’attuare politiche economiche funzionali alle enormi sfide che abbiamo di fronte, prima fra tutte la transizione ecologica dei nostri sistemi produttivi. Vanno in questa direzione le proposte di golden rules per inquadrare gli investimenti pubblici dentro regole di bilancio diverse da quelle applicate alle spese correnti (un precedente di successo in tal senso è fornito dalla “regola d’ora delle finanze pubbliche” adottata dal Regno Unito durante i governi del New Labour, fra il 1997 e il 2009).
Al netto del fatto che non tutte le proposte contenute nel libro possono risultare convincenti allo stesso modo, il quadro delineato da Saraceno è molto concreto e dettagliato.
Il grande limite di questo “federalismo surrogato” rimane quello della sua praticabilità politica, a dispetto delle buone intenzioni di realismo da cui nasce. La sua forza potrebbe consistere nel fatto che praticamente tutte le altre proposte alternative, singolarmente prese, rischiano di risultare ancora più irrealistiche. Inclusa l’opzione che parte sempre con un certo vantaggio “naturale” in contesti politico-istituzionali altamente complessi: la conservazione dello status quo.
Negli scorsi decenni la Germania ha saputo integrare le economie dei giovani stati dell’Est per costruire un modello economico dall’indubbio successo, fondato sulla sua capacità di export e dunque su ingenti surplus della bilancia commerciale. E se questo modello poteva essere destabilizzante all’interno dell’Unione Europea, si inseriva in modo molto più “armonico” in un contesto internazionale di fatto fondato sul precario equilibrio degli squilibri fra paesi creditori e paesi debitori (gli Stati Uniti non sono Grecia). Questo quadro è in via di radicale trasformazione, e non da ieri. La Cina – un paese che ha anch’esso costruito la sua travolgente crescita economica su enormi surplus commerciali con l’estero – sta preparando ormai da qualche tempo la propria transizione.
Non sappiamo come sarà il mondo dopo la pandemia. Non si può certo escludere che la Germania si renda conto che la propria prosperità sia dipendete molto più che in passato dalla prosperità del resto dei suoi vicini europei.
Un’ultima nota, che esula dal contenuto del libro di Saraceno, vorremmo riservarla all’Italia, chiamata ora alla grande sfida dell’utilizzo dei fondi del Recovery Fund. Negli anni Sessanta del secolo scorso, i primi governi di centrosinistra tentarono di dare vita alla cosiddetta “programmazione economica”. Qualche anno dopo Antonio Giolitti, che da ministro e dirigente del Partito Socialista Italiano fu fra i protagonisti della stagione della programmazione, tentò di riflettere sulle ragioni del fallimento di quell’esperienza politica: “non si possono volere simultaneamente una politica economica programmata e un governo debole”[3], scriveva Giolitti. Gli ostacoli che oggi si frappongono all’attuazione di buone politiche pubbliche in Italia non sono diversi da quelli di cinquant’anni fa: dalla inadeguatezza dell’architettura istituzionale, alle carenze organizzative e di competenze di diversi settori della pubblica amministrazione, fino ai limiti culturali delle stesse formazioni politiche del campo progressista. In questi ambiti, purtroppo, la forza dello status quo potrebbe essere addirittura maggiore che nel caso delle regole di bilancio europee.
Il libro di Francesco Saraceno sarà presentato nell’ambito dei seminari dell’Italian Post-Keynesian Network il prossimo 12 Febbraio alle ore 17. Oltre all’autore, parteciperanno Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo) ed Emilio Carnevali (Nothumbria University).
Il 22 Gennaio alle ore 17 sarà invece presentato il libro di Antonella Stirati “Lavoro e Salari”. Oltre all’autrice, parteciperanno Gennaro Zezza (Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale) e Davide Romaniello (Università Cattolica del Sacro Cuore).
Tutte le informazioni possono essere trovate sulla pagina Facebook della Italian Post-Kynesian Network: www.facebook.com/IPKNetwork
[1] F. Saraceno, 2020. “La Riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela”. Roma: Luiss University Press. (pp. 224, euro 16)
[2] R. A. Mundell, 1961. “A Theory of Optimum Currency Areas”. American Economic Review. 51 (4), pp. 657–665.
[3] A. Giolitti, 1967. “Un socialismo possibile”. Torino: Einaudi.