Dani says
Sei anni fa Dani Rodrik ha pubblicato per Oxford University Press un saggio che, in modo responsabile, affronta una serie di riflessioni scomode circa lo stato in cui si trova la teoria economica[1]. Smarcandosi dall’idea che la scienza economica sia un campo di confronto fra scuole diverse, Rodrik prende sul serio le manifestazioni di insoddisfazione provenienti soprattutto dagli studenti. L’economista turco – oggi professore alla John Kennedy School of Governance dell’Università di Harvard – presta attenzione in particolare al Report della Post-Crash Economics Society[2] e alla grave accusa in esso contenuta: l’economia, così come è insegnata agli studenti nei corsi universitari diffonde vedute ristrette e lo fa rigettando il pluralismo e trascurando di fatto l’etica, la storia, la politica. Come se gli studenti fossero stati folgorati dallo spirito di Schumpeter, il quale, come è noto, ormai al termine della sua carriera accademica americana, scrisse all’interno della sua History, pubblicata solo dopo la sua morte: “Essi [i miei studenti americani] mancano del senso storico che nessuno studio pratico può dare. Questa è la ragione per cui è molto più facile farne dei teorici che degli economisti.”[3]
Per Rodrik la rappresentazione che i critici fanno della scienza economica sarebbe viziata proprio dal modo in cui l’economia viene insegnata, ma non risponderebbe a quanto accade all’interno della disciplina, nel mondo della ricerca: “Il problema, dal punto di vista degli studenti, è che molto di ciò che si insegna in un corso propedeutico di economia è un inno al mercato. Questo rende poco il senso della diversità delle conclusioni raggiunte in economia con cui è improbabile che lo studente venga mai in contatto a meno che non segua altri corsi di economia. I professori di economia sono percepiti come gretti e ideologici perché essi sono il proprio peggior nemico quando devono comunicare la propria disciplina all’esterno. Invece di presentare un assaggio del vasto assortimento di prospettive offerte dalla loro disciplina, si concentrano su modelli di riferimento che pongono l’accento su un unico insieme di conclusioni.”[4] E a riprova dell’ottimo stato in cui in realtà si troverebbe la cittadella della scienza economica, Rodrik tira in ballo la famosa vicenda dell’articolo di Reinhardt e Rogoff, Growth in a Time of Debt. Dovrebbe esser ormai risaputo che l’articolo, poi criticato in modo convincente da Thomas Herndon, allora studente di dottorato presso l’Università del Massachussets di Amherst, fu pubblicato sull’American Economic Review: Papers & Proceedings nel 2010[5]. I due prestigiosi economisti avevano sostenuto in quella sede che livelli di debito pubblico superiori al 90 per cento del PIL costituissero impedimenti significativi alla crescita economica, tanto che il loro lavoro – depurato da ogni prudenza nei toni pur riscontrabile nel testo originale – è stato più volte brandito come una spada dai promotori dell’austerità espansiva, soprattutto in Europa[6]. Herndon identificò, non solo un errore di calcolo piuttosto stupido che gli editor dell’America Economic Review avrebbero dovuto rilevare, ma anche alcune scelte metodologiche circa la selezione dei dati sottoposti a stima da Reinhardt e Rogoff che conducevano a risultati non abbastanza robusti, minando così alla base la possibilità di ricavare una legge generale da quello studio.
Secondo Rodrik ci troveremmo di fronte alla prova che la scienza economica è caratterizzata dalla possibilità di critica, giacché la reputazione di un lavoro di ricerca non sarebbe data dall’affiliazione, dallo status, o dalla rete sociale dell’autore, ma da quanto i risultati pubblicati corrispondono ai criteri di ricerca della professione stessa: “L’autorità del lavoro deriva dalle sue proprietà intrinseche – come è costruito, quanto convincente è l’evidenza presentata – non dall’identità, dalle relazioni o dall’ideologia del ricercatore. E poiché questi criteri sono condivisi dalla professione, ognuno può indicare un lavoro scadente e dire che è scadente”[7].
What goes on
Se si guarda al caso studio su menzionato con gli occhi di un attento sociologo della scienza, la narrativa elegante e consolatoria scelta abilmente da Rodrik inizia un po’ a scricchiolare. Nel mondo degli economisti accademici le cose vanno in modo lievemente diverso.
Nonostante Reinhardt e Rogoff riconobbero prontamente l’errore compiuto, la critica di Herndon – divenuta dopo la discussione della tesi di dottorato un working paper costruito insieme a Michael Ash e Robert Pollin[8] – non venne accettata per la pubblicazione sull’American Economic Review. La critica fu pubblicata solo nel 2014 sul Cambridge Journal of Economics, un’ ottima rivista scientifica attenta al pluralismo e al pensiero critico che tuttavia, forse proprio per questi motivi, non è considerata alla stessa stregua dell’American Economic Review in troppe università (soprattutto europee)[9].
Ci troviamo dunque dinanzi alla costruzione di mura difensive ben riconoscibili erette attorno ad un nucleo fatto di interessi consolidati. E ciò non avviene per la volontà di Reinhardt e Rogoff, cioè dei singoli studiosi contro cui è rivolta la critica. Non sono infatti loro a vietare la pubblicazione sull’American Economic Review. I due eminenti economisti hanno già raggiunto una soglia della loro carriera che non ne mette a repentaglio la credibilità. Ciò che accade dipende da una consuetudine vigente nelle scienze sociali che gli economisti spesso dimenticano o fanno finta di dimenticare, ma che aveva ben chiaro Joseph Alois Schumpeter. Conviene riportare a tal proposito un passo piuttosto lungo, ma estremamente significativo tratto da un suo scritto del 1914, Passato e futuro delle scienze sociali, tradotto per la prima volta in italiano un secolo dopo grazie alla caparbietà di Adelino Zanini: “Siamo quindi a fronte di una situazione di fatto, notevole per più di un aspetto, e che merita di essere esaminata in più di una direzione: considerata da un lato, essa mostra come non si dia uno sviluppo uniforme e continuativo delle scienze sociali, se si prescinde da una singola ‘scuola’. Al contrario, anche chi solo di sfuggita presti ascolto ai programmi e alle discussioni delle scuole che si combattono e si succedono l’un l’altra, deve registrare immediatamente le più forti dissonanze e soprattutto, l’impressione che non ci sia una volontà unitaria, un modo d’agire sistematico, che non ci possa essere una logica od ordine, ma solo una completa arbitrarietà. Considerata da un altro lato, la stessa situazione dà luogo esattamente ad un’impressione opposta: vediamo non solo come siano inutili tutti i canti di vittoria dei partiti metodologici e semplicemente insuperabili le diverse direzioni di ricerca – seppur le si voglia soffocare con tutte le energie e tutti i mezzi – , ma anche che, in generale, ogni cosa, pure ciò che sembra incompatibile, è alla fine collocata in un grande tutto, che dall’esterno – a dispetto di tutte le proteste, i conflitti e le stonature interne – appare come se fosse stato attentamente progettato, e come se, alla fine, gli individui e le direzioni di ricerca dovessero servire determinati grandi tendenze, senza volerlo e a loro insaputa; tendenze ineluttabili, quasi che fossero stabilite da una forza onnipotente”.[10]
La “forza onnipotente” che regola i conflitti fra scuole diverse nell’ambito delle scienze sociali è sempre l’esito di una distruzione creatrice. Su essa, tuttavia, incidono anche – continua Schumpeter – le visioni metafisiche e i programmi politici che contribuiscono ad erigere le barriere attorno al nucleo analitico di volta in volta dominante. Dietro a queste barriere – fatte non solo di tecnicismima di relazioni di potere – si proteggono i gruppi di studiosi che reggono gli equilibri nei luoghi più nobili dell’Accademia e, soprattutto (mi sia consentito aggiungere), in quella zona grigia in cui gli scienziati sociali soddisfano i committenti che rappresentano gli interessi consolidati nella società. Certamente c’è sempre spazio per idee e metodi innovativi che per lo più si formano in cerchie ristrette, ma “altre cerchie assorbono dapprima solo le parole d’ordine, rimanendo comunque tranquillamente sulle vecchie strade. Qualora ci si debba spingere oltre, tali parole d’ordine sollevano i centri sensibili, come si trattasse di una faccenda seria, salvo poi mostrare quanto poco del nuovo sia stato assorbito, tanto che ha luogo una situazione del tutto analoga ad una crisi economica.”[11] Ma da queste crisi non necessariamente scaturiscono paradigmi scientifici nuovi, spesso si assiste piuttosto a vere e proprie restaurazioni.
Beginning to see the light
Anche dopo la crisi del 2007/2008 ci siamo trovati dinanzi ad una diffusione significativa di idee innovative, che, a ben vedere, si radicavano in una tradizione di pensiero sviluppatasi al di fuori del così detto approccio dominante alla teoria economica. Tuttavia, dopo più di dieci anni, possiamo affermare che le difese attorno al nucleo analitico dominante stiano resistendo e ciò non sta avvenendo perché le scuole eterodosse siano poco in grado di ottenere risultati robusti, sia sul piano della pars destruens che sul piano della pars construens. Le innovazioni che emergono nelle cerchie di scienziati che si trovano fuori dal nucleo, proprio come suggerisce Schumpeter, sono state al momento per lo più assorbite e neutralizzate[12]. D’altro canto, la resistenza della teoria economica dominante si vede chiaramente nella determinazione delle carriere accademiche e nelle relazioni fra i rappresentanti degli interessi più consolidati nella società e gli economisti più rappresentativi. Su questi temi ha posto implicitamente l’attenzione Emiliano Brancaccio nelle varie edizioni del suo Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia[13]. Di questo testo si possono dire tante cose, anche in dissonanza in alcuni casi con l’autore, ma va anzitutto detto che si tratta di un’operazione culturale di alto livello, di cui si sentiva la mancanza in anni in cui i manuali dei maestri delle varie scuole d’economia italiane[14] sono stati soppiantanti da testi di introduzione all’economia, che rischiano di formare idiot savants, salvo rare eccezioni. È ormai nota la strategia adottata da Brancaccio che apportando semplici modifiche alle ipotesi di partenza del modello macroeconomico dominante proposto nel noto manuale di Olivier Blanchard, perviene a un modello alternativo caratterizzato da un rovesciamento delle relazioni logiche tra le variabili principali da cui dipende l’analisi macroeconomica. In questo modo, egli tiene viva l’idea che la scienza economica sia un terreno di confronto fra punti di vista diversi sulla società. Inoltre, egli mostra che approcci che si vorrebbero espellere dalla dismal science – relegandoli a curiosità eccezionali da insegnare in corsi facoltativi di storia del pensiero economico[15] – siano legittimi sul piano logico, rilevanti sul piano politico e meritevoli di costituire una base per le analisi empiriche. Nel libro di Brancaccio – come anche nel recente volume dai toni più divulgativi e scanzonati di Sergio Cesaratto[16] – la categoria del sovrappiù e l’immagine del processo economico come processo circolare ritornano in gioco. Ciò consente di guardare ai prezzi non più come indici di scarsità relativa, ma come prezzi di ri-produzione, e al tasso di interesse come una variabile istituzionale in grado di incidere direttamente sulla distribuzione fra salari e profitti. In questo modo si riesce, come fa Brancaccio, a dare una spiegazione teorica robusta ad un’affermazione che lo stesso Blanchard considera legittima sul piano della politica economica nel contesto della grande crisi, ma che non troverebbe legittimazione nei modelli standard: la deflazione non rappresenta una soluzione alla stagnazione. Nel libro di Cesaratto questo problema è illustrato in un modo deciso e ruvido, quasi fossimo di fronte ai dialoghi dei muratori in sciopero nel Metello di Vasco Pratolini: “La deflazione è un male, il peggiore dei mali, soprattutto perché inguaia i debitori, l’anello più fragile della catena. … Se prezzi e salari cominciano a diminuire, il fatturato delle imprese e i redditi delle famiglie crollano mentre il debito da pagare rimane quello. Molte famiglie e imprese non saranno in grado di onorare le scadenze del debito, accrescendo le sofferenze bancarie e la resistenza delle banche a concedere crediti ad altri soggetti; molti reagiranno tagliando le loro spese, o le posticiperanno nell’attesa di una caduta ulteriore dei prezzi, sicché l’economia si avvita in una spirale deflazionistica senza fine”[17].
After Hours
Ma quanto è robusto il sistema teorico che caratterizza l’economics, quello stesso sistema teorico che Brancaccio cerca di trattare come uno ‘stereogramma’, cioè un disegno che offre immagini diverse dello stesso oggetto a seconda del punto dal quale lo si osservi? Secondo l’analisi condotta nell’ultimo libro di Mauro Gallegati la robustezza non rientra tra le caratteristiche dell’attuale sistema teorico dominante nell’ambito della scienza economica, la quale ha innanzitutto bisogno di riconciliare la teoria con la realtà. Il punto d’attacco sono i modelli DSGE, i modelli dinamici stocastici di equilibrio generale che impazzano in molte Banche Centrali, in cui è prevista un’analisi del modo in cui le variabili evolvono nel tempo, ma il tempo collassa all’istante iniziale. In questi modelli, se avvengono piccoli disturbi nelle traiettorie di crescita, questi sono sempre dovuti a shock esogeni e verranno riassorbiti senza intaccare il sentiero di crescita di equilibrio. Secondo l’economista anconetano formatosi alla scuola di Giorgio Fuà e a quella di Hyman Minsky, il modo in cui le variabili economiche cambiano nel tempo è completamente diverso dall’illusione pericolosa diffusa a causa dei DSGE nelle menti di troppi uomini che rivestono ruoli di responsabilità nelle istituzioni. L’idea che il riequilibrio sia garantito senza mutamenti profondi nella struttura economica è infatti ben presente anche nelle versioni dei DSGE che hanno incorporato le indicazioni su cui hanno insistito, soprattutto dopo il 2007/2008, gli studiosi New Keynesian attenti alle frizioni di breve periodo[18]. Una prova della tendenza alla restaurazione nel pieno della crisi ricordata da Schumpeter. Occorrono nuovi strumenti per riportare in auge l’insieme dei problemi che costituiscono a ben vedere il cuore analitico dei così detti economisti Classici. Al centro della cassetta degli attrezzi proposta da Gallegati si sono i così detti modelli agent based, strumenti molto diversi da quelli che si apprendono nei corsi universitari di base e che si ramificano in ogni angolo della mente di chi si forma come economista. Gli agent based sono in grado di cogliere la generazione spontanea di strutture complesse. Questo libretto, dal titolo accattivante ma anche traditore, rappresenta soprattutto il primo tentativo di divulgazione delle ricerche ormai ventennali condotte da Mauro Gallegati, spesso coadiuvato da Domenico Delli Gatti, Alan Kirman e più recentemente anche da Joseph Stiglitz, senza dimenticare un numero davvero significativo di economisti più o meno giovani che si sono formati soprattutto con lo stesso Gallegati[19]. Si tratta di ricerche finalizzate a descrivere e comprendere il funzionamento dell’economia monetaria di produzione nella quale viviamo. E qui sta in effetti una convergenza con l’operazione proposta da Brancaccio: l’immagine dell’economia come processo circolare del tipo D-M-D’ caratterizzato da un’instabilità endogena tutta da governare. Tuttavia il ragionamento di Gallegati – a differenza dell’approccio comparato che caratterizza l’Anti-Blanchard – costringe ad affrontare la sfida di una microfondazione della macroeconomia in un contesto dinamico: nulla a che vedere con la teoria del consumatore rappresentativo di stampo neoclassico o con il problema dell’allocazione intertemporale delle risorse che – nonostante le bocciature sul piano empirico – resiste al centro dei programmi di Advanced Macroeconomics in ogni programma di Ph.D. che si “rispetti”. Ma anche qualcosa di difficilmente conciliabile con una lettura degli economisti Classici che si rifà alle teorie del sovrappiù, almeno nell’accezione proposta da Pierangelo Garegnani che fa capolino sia dalle pagine scritte da Brancaccio che da quelle scritte da Cesaratto[20].
Nel contesto agent based cui Gallegati si riferisce, le caratteristiche del sistema nel suo complesso determinano il comportamento del singolo. E il comportamento dell’aggregato è spesso diverso dal comportamento dei singoli. Ecco un esempio che può essere facilmente esteso a diverse situazioni che caratterizzano la dinamica economica, perché non esistono sistemi economici strutturalmente stabili in perpetuo:
“Il concetto di generazione spontanea di strutture complesse o critiche … è stato recentemente analizzato in modo approfondito nei modelli di tipo mucchio di sabbia. … L’aggiunta casuale di granelli di sabbia porta il sistema verso uno stato stazionario … e alla formazione di valanghe, con una distribuzione invariante di scala. La criticalità o invarianza di scala (cioè la competizione critica fra ordine e disordine) emerge spontaneamente. … [In questi modelli] la dinamica è irreversibile, ossia non-ergodica. Senza ergodicità dovremmo conoscere la storia completa della crescita perché la dinamica temporale irreversibile è cruciale.”[21]
L’esigenza raccolta da Gallegati sembra essere la stessa che aveva animato le ricerche di Luigi Lodovico Pasinetti sulla dinamica economica strutturale[22]: guardare al sistema economico come un film che si svolge in un tempo storico, dove avvengono mutamenti significativi della struttura economica. Consapevole del rischio di cadere nel così detto vizio ricardiano (cioè nella “mancanza di penetrazione nelle forze motrici del processo sociale” che Schumpeter imputava anche a Keynes), Gallegati ricorre ad una mossa keynesiana e relega in modo ampiamente convincente i DSGE a caso particolare di una teoria generale. Dopo aver verificato che le equazioni contabili e le equazioni individuali che descrivono le leggi di moto del sistema soddisfino delle condizioni di coerenza fra fondi e flussi per l’intero arco temporale della simulazione, si procede ad una validazione empirica dei risultati di base, confrontando le proprietà delle simulazioni con dei fatti empirici stilizzati provenienti da altri studi. Uno dei risultati più robusti ottenuti da queste ricerche vale la pena di essere riportato in questa sede, anche alla luce della sua attualità per il caso italiano: “un cambiamento coordinato tra tutti i paesi della zona euro di crescita dei salari non influisce solo sulle dinamiche della domanda, ma produce anche effetti non banali sul lato dell’offerta dell’economia. La moderazione salariale in un singolo paese consente di ridurre la disoccupazione, e migliorare la posizione netta sull’estero del paese e la posizione fiscale del governo, ma [genera] anche un rallentamento delle dinamiche della produttività del lavoro che tende a indebolire la crescita del PIL reale a lungo termine. Al contrario, quando l’aumento dei salari si verifica in modo simultaneo e coordinato in tutti i paesi membri, lasciando così la loro posizione [in termini di concorrenza relativa] inalterata, una strategia [di incremento] salariale coordinata è in grado di aumentare la crescita del PIL reale, la dinamica dell’innovazione e della produttività del lavoro, abbassare il rapporto debito pubblico/PIL, quasi senza intaccare i livelli di disoccupazione. … Aumentare la domanda, dunque, e abbandonare l’idea di esportare il modello tedesco”[23] [il modello di crescita trainato dalle esportazioni criticato in modo argomentato anche nel libro di Cesaratto].
Sembrerebbe dunque che i tempi siano maturi affinché si possa davvero prendere sul serio la richiesta avanzata fra gli altri dalla Post-Crash Economics Society: insegnateci davvero l’economia, fateci confrontare sin da subito con ciò che emerge dalle ricerche di chi ha avuto il coraggio in questi anni di continuare a fare ricerca nella factory degli economisti underground. Dinanzi al nuovo paradigma tecno-economico che ci attende sarebbe un errore restare ingessati alle vecchie idee, soprattutto quando queste si sono rivelate sbagliate.
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[1] Rodrik D., Economic Rules, Oxford University Press, Oxford 2015 (traduzione italiana Ragioni e torti dell’economia, UBE, Milano 2016).
[2] Post-Crash Economics Society, Economics, Education and Unlearning, Manchester April 2014, http://www.post-crasheconomics.com/economics-education-and-unlearning/
[3] Schumpeter J. A., Storia dell’analisi economica, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
[4] Rodrik D., cit., edizione italiana, p. 212.
[5] Reinhardt C. and Rogoff K., Growth in a Time of Debt, American Economic Review: Papers & Proceedings, 2010, 100: 2, 1-9. Sulla vicenda si può vedere ad esempio Daniele V., L’austerità espansiva e i numeri sbagliati di Reinhart e Rogoff, Economia e Politica, Giugno 2013, https://www.economiaepolitica.it/primo-piano/austerita-espansiva-e-i-numeri-sbagliati-di-reinhart-e-rogoff/ .
[6] Olli Rehn, il Commissario UE per l’Economia affermò con sobria arroganza: “È ampiamente riconosciuto, sulla base di seria ricerca scientifica, che quando i livelli del debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni.” Cfr. https://keynesblog.com/2013/04/18/il-debito-pubblico-deprime-la-crescita-il-clamoroso-errore-di-carmen-reinhart-e-kenneth-rogoff/ .
[7] Rodrik D., cit., edizione italiana, p. 89.
[8] Herndon T., Ash M. and Pollin R., Does Hight Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhardt and Rogoff, Amherst, University of Massachussets at Amherst, Political Economy Research Institute 2013, https://www.peri.umass.edu/fileadmin/pdf/working_papers/working_papers_301-350/WP322.pdf
[9] Herndon T., Ash M. and Pollin R., Does Hight Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhardt and Rogoff, Cambridge Journal of Economics, 2014, 38:2, 257-279.
[10] Schumpeter J.A., Passato e futuro delle scienze sociali, liberilibri Macerata 2011, a cura di Adelino Zanini, p. 71. Sul significato di questo saggio all’interno dell’intera opera schumpeteriana si veda Lucarelli S., Baron H. and Giuliani A., The past and future of the social sciences. A Schumpeterian theory of scientific development? Cambridge Journal of Economics, 2019, 43:6, 1701-1722. Si veda anche Buscema C., Lucarelli S. and Ferlito C., Schumpeter beyond Schumpeter, Scholars’ Press, Riga 2019, capitolo 2.
[11] Schumpeter J.A., cit., pp. 53-54.
[12] Ne sono un esempio i così detti New Keynesian DSGE su cui ci soffermeremo a breve. Cfr. Christiano L., Eichenbaum M.S., Trabandt M., On DSGE Models,Journal of Economic Perspectives, 2018, 32:3, 113-140.
[13] Brancaccio E., Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia. Quinta Edizione, Franco Angeli, Roma 2021. L’edizione inglese, con la collaborazione di Andrea Califano è edita da Edward Elgar nel 2019.
[14] Penso innanzitutto ai seguenti manuali dove si sono formate generazioni di economisti: Graziani A., Teoria Economica. Macroeconomia. Quinta Edizione, ESI, Napoli 2001; Graziani A., Teoria Economica. Prezzi e distribuzione. Quinta Edizione, ESI, Napoli 2001; Sylos Labini P., Elementi di dinamica economica, Laterza, Roma-Bari 1992; Zamagni S., Economia Politica. Teoria dei prezzi, dei mercati e della distribuzione, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1984.
[15] Tema sollevato anche da Lunghini riferendosi innanzitutto alle teorie economiche che guardano alle lezioni di Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa, cfr. Lunghini G., Conflitto Crisi Incertezza, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[16] Cesaratto S., Heterodox Challenges in Economics: theoretical issues and the crisis of Eurozone, Springer, Berlin 2020. La prima edizione italiana è Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Imprimatur, Reggio Emilia 2017.
[17] Cesaratto S., cit., p. 288 dell’edizione italiana.
[18] Tant’è che Christiano, Eichenbaum e Trabandt, cit., scrivono a riguardo: “Questi modelli sono spesso descritti come New Keynesian DSGE models, ma sarebbe più appropriato riferirsi ad essi con l’appellativo di Friedmanite DSGE models.” (p. 115, traduzione mia).
[19] Vanno ricordati almeno i seguenti lavori: Caiani A., Godin A., Caverzasi E., Gallegati M., Kinsella S. and Stiglitz J.E., Agent Based-Stock Flow Consistent Macroeconomics: Towards a Benchmark Model, Journal of Economic Dynamics and Control, 2016, 69, 375-408; Gallegati M., Palestrini A. and Russo A. (eds.) Introduction to Agent-Based Economics, Academic Press, London 2017; Delli Gatti D., Gaffeo E., Gallegati M., Giulioni G. and Palestrini A., Emerging macroeconomics: an agent-based approach to business fluctuations, Springer, Berlin 2008; Gaffeo E., Delli Gatti D., Desiderio S., Gallegati M., Adaptive microfoundations for emergent macroeconomics, Eastern Economic Journal, 2008, 34:4, 441-463; Gallegati M. and Kirman A., 20 years if WEHIA: A journey in search of a safer road, Journal of Economic Beahvior & Organization, 2019, 157, 5-14.
[20] Si veda soprattutto Garegnani P., “Surplus Approach to Value and Distribution”, in J. Eatwell, M. Milgate and P. Newman (eds) The New Palgrave Dictionary of Economics, Vol.4, Macmillan, London 1987.
[21] Gallegati M., Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo, LUISS, Roma 2021, p. 84.
[22] Pasinetti L.L., Dinamica strutturale e sviluppo economico, UTET, Torino 1984.
[23] Gallegati M., cit., p. 105-106