Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Prefazione di Francesco Saraceno al libro di Mauro Gallegati, “Il mercato rende liberi”, LUISS, 2021.
Dove ha sbagliato l’economia “mainstream” nel creare le condizioni per la crisi finanziaria globale del 2007-2008? Per quale motivo le ricette di politica economica che essa ha ispirato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno progressivamente, in nome dell’efficienza dei mercati, dato un peso preponderante alla finanza a scapito dell’economia reale, trascurato l’analisi della distribuzione delle risorse e dei suoi effetti sull’economia, eliminato la politica macroeconomica dalla cassetta degli attrezzi dei decisori, spinto per una deregolamentazione sempre più estrema e, alla fine, reso l’economia mondiale un gigante dai piedi d’argilla, un castello di carte fatto crollare nell’estate del 2007 dal fallimento di due oscuri fondi d’investimento? Soprattutto, è in grado quella stessa teoria di evolvere in modo da poter evitare gli errori del passato? Il dibattito è aperto e, c’è da sperarlo, non si chiuderà molto presto. C’è da sperarlo perché le ragioni del “fallimento degli economisti” sono molto profonde e una revisione radicale del nostro modo di fare economia, di insegnarla, di utilizzarla per consigliare i policy makers, si impone.
Bisogna dire che, contrariamente a quanto è avvenuto in passato, la crisi del 2007 ha avviato un salutare processo di ripensamento. Vista la dimensione della crisi e la manifesta incapacità della teoria dominante di coglierne i meccanismi (la stragrande maggioranza dei modelli utilizzati da banche centrali e ministeri dell’Economia non prevedeva la possibilità di crisi finanziarie!) era difficile fare altrimenti. Alcuni tra i più brillanti economisti che hanno contribuito a costruire l’apparato teorico di riferimento si interrogano fin dal 2009 su come questo apparato debba essere emendato, o addirittura rivoluzionato, per poter trarre insegnamento dalla crisi e poter essere utile come guida per la politica economica in occasione di futuri shock. Personaggi del calibro di Olivier Blanchard, Larry Summers, Roger Farmer, tanto per nominare i più noti, riflettono su come l’idea di un equilibrio di lungo periodo che funge da attrattore per l’economia sia fragile al punto da diventare inutile come guida per la politica di breve periodo, su come le aspettative di agenti diversi e non pienamente razionali o le imperfezioni di mercato possano dare origine a squilibri permanenti, ad esempio situazioni di “stagnazione secolare” caratterizzate da insufficienze di domanda croniche (ben oltre il breve periodo cui è confinata l’analisi keynesiana standard nella sua versione un po’ caricaturale). Mentre i grandi vecchi dell’economia mainstream si interrogano sulle questioni esistenziali, il modello di base del consenso pre-crisi (i modelli detti DSGE, acronimo inglese che sta per equilibrio generale dinamico stocastico) è emendato da legioni di giovani ricercatori che introducono varianti sempre più complesse: agenti eterogenei con vincoli diversi, comportamenti asimmetrici e via di seguito che dovrebbero consentire al modello di catturare processi cumulativi tipici di una crisi finanziaria.
Non si tratta certamente di un dibattito sterile. Si è visto durante la crisi del Covid, quando la stragrande maggioranza degli economisti (con qualche deplorevole eccezione) ha sostenuto le misure eccezionali dei governi e le politiche monetarie espansive delle banche centrali. Non solo, sulla centralità dell’investimento pubblico, sul sostegno delle politiche industriali al sistema delle imprese e all’innovazione, sul ruolo dello Stato per favorire e addirittura orientare la transizione ecologica, fortunatamente le discussioni di oggi non sono nemmeno lontanamente comparabili a quelle cui si sarebbe assistito solo dieci anni fa.
Tuttavia, per quanto emendata, per quanto deideologizzata, la teoria standard sembra intrinsecamente incapace di fornire le risposte che da essa si attende chi ha assistito alla tempesta perfetta della crisi finanziaria globale. La ragione in fondo è semplice: la teoria si fonda sull’idea che l’economia sia popolata da agenti (più o meno razionali, più o meno vincolati nelle loro azioni) che interagiscono esclusivamente sui mercati (dove i prezzi si occupano di rendere i loro comportamenti consistenti tra loro) o attraverso relazioni contrattuali. Un agente di questo tipo (l’homo oeconomicus) interagisce dunque per definizione solo con istituzioni impersonali (un prezzo osservato, un contratto che gli è proposto) e sulla base di tali informazioni cerca di massimizzare una qualche forma di utilità. Non esiste nessuna interazione diretta con altri agenti, e quindi non esiste nessuna proprietà detta emergente: il comportamento del tutto, la società, è completamente riassunto nel comportamento dei suoi componenti, gli individui. Si tratta di un riduzionismo mutuato dalla fisica newtoniana da cui, come nota Gallegati in Il mercato rende liberi, la teoria economica ancora oggi non riesce a liberarsi. E senza interazione tra individui un sistema economico non può essere trattato come un processo, come un corpo vivo che evolve, ma al più come una sequenza di posizioni di equilibrio isolate l’una dall’altra. Una teoria centrata su agenti che interagiscono esclusivamente tramite l’istituzione “mercato” è adatta a determinare come i mercati allochino (più o meno efficientemente) risorse tra i partecipanti allo scambio, ma nulla può dire sull’essenza di qualunque sistema capitalistico: la creazione di nuove risorse. Si tratta insomma di una teoria che fornisce istantanee ma non è in grado di legarle in un film che si svolge nel tempo. Molti tra i lettori che hanno fatto studi di economia avranno probabilmente notato come nonostante il suo ruolo centrale nella crescita dell’economia, l’impresa venga trattata dal punto di vista analitico esattamente come il consumatore; il modo in cui operano nel modello di base è infatti formalmente identico: la massimizzazione di una qualche funzione (di utilità per il consumatore, di profitto per l’impresa) vincolata dal sistema dei prezzi (dei beni per il consumatore, dei fattori di produzione per l’impresa) e da un vincolo esterno (il proprio reddito per il consumatore e la tecnologia, la “funzione di produzione”, per l’impresa). La produzione, momento centrale di qualunque processo capitalistico, è ridotta in questo schema ad una scelta di quantità di fattori da utilizzare per massimizzare il profitto o minimizzare i costi. È per questo che per quanto renda il modello sempre più complesso e intrattabile aggiungendo agenti di tipo diverso, che hanno vincoli diversi e quindi fanno scelte diverse, l’esercito di giovani ricercatori e dottorandi che sta cercando di riplasmare il modello standard per adattarlo al mondo instabile che vorrebbero descrivere non è ancora riuscito (e non riuscirà probabilmente mai) a far quadrare il cerchio. L’eterogenità, la razionalità limitata, i vincoli che impediscono di formulare o eseguire piani ottimali, consentono alla teoria di descrivere equilibri subottimali, in cui il mercato non riesce ad allocare le risorse in maniera efficiente. Sono risultati ovviamente importanti, ma continua a trattarsi di fotografie. Certamente più realistiche di quelle che fino a qualche anno fa mostravano scenari idilliaci in cui i mercati si coordinavano su equilibri naturali non migliorabili; ma pur sempre fotografie. Una teoria della crisi è una teoria di processi cumulativi, di comportamenti di imitazione, di interazioni sociali, di squilibri, di fallimenti di mercato. In quanto tale, è impossibile da conciliare con un modello in cui si introducono eterogeneità a raffica ma si continua a far passare ogni interazione tra gli agenti per un sistema di prezzi (per quanto imperfetto e subottimale).
Mauro Gallegati lavora da sempre per affiancare alle fotografie della teoria standard, che per molti problemi di cui si occupano gli economisti hanno un’indubbia utilità, una teoria che consenta di girare dei film, di descrivere come le interazioni tra agenti diano forma ad un processo che si svolge nel tempo. Si tratta di un cambiamento di metodo, prima ancora che di paradigma, che come Gallegati ricorda più volte in Il mercato rende liberi dovrebbe consentire all’economia di fare un salto equivalente a quello che è avvenuto alla fine del diciannovesimo secolo quando la fisica newtoniana, adatta a descrivere le leggi che regolano i fenomeni macroscopici, è stata affiancata dalla fisica statistica necessaria per dar conto delle dinamiche microscopiche.
Si tratta quindi di costruire una teoria della complessità nella quale le interazioni non avvengono solo nei mercati attraverso il sistema dei prezzi e in cui, quindi, un ruolo fondamentale è giocato non solo dagli individui ma anche da qualunque costruzione sociale che queste interazioni organizza e plasma. In un pezzo pubblicato di recente sul Menabò di Etica ed Economia, Bruna Ingrao perorava l’urgenza del ritorno dello studio della storia dell’economia e del pensiero economico come antidoto all’impoverimento culturale della figura dell’economista. Notava Ingrao: “Qual è il significato della storia economica per l’economista contemporaneo impegnato prioritariamente nella costruzione di modelli matematici e nella verifica econometrica? È l’educazione alla comprensione della complessità nell’economia e specificamente nella rete globale dei mercati: le interazioni con gli aspetti della socialità legati alle istituzioni, alle norme, ai valori; la temporalità irreversibile degli eventi; i processi di cambiamento di medio e lungo periodo. La capacità di vedere la complessità, che è portata dalla conoscenza storica, affina il giudizio dell’economista come teorico, come econometrico, come protagonista delle scelte di politica economica.” (Ingrao, B. “Perché la storia”, Menabò n. 69, 2017). Non è un caso che di fronte alle difficoltà in cui si dibatte la teoria standard negli ultimi anni si sia tornati a cercare risposte in grandi economisti del passato, da Minsky a Keynes, da Kalecki a Wicksell.
Abbandonare la teoria dell’equilibrio in favore di un approccio basato sulla complessità ha implicazioni profonde. In un’economia complessa il concetto di ottimalità ha poco senso. Non esistono equilibri caratterizzati da allocazioni diverse, da confrontare e ordinare secondo criteri più o meno giustificabili di benessere, ma una sequenza di stati dell’economia che non isolabili l’uno dall’altro e in cui alcuni mercati possono essere (anche a lungo) fuori dall’equilibrio. L’equilibrio anzi è l’eccezione piuttosto che la norma, soprattutto nelle fasi di trasformazione strutturale dell’economia. La “virtù”, in un sistema complesso, non è la massimizzazione del benessere ma la stabilità, la viabilità del sentiero di crescita dell’economia. È questa che guida le scelte di imprese e consumatori e orienta la politica economica. Due esempi possono aiutare a comprendere. Il primo riguarda il finanziamento delle imprese. Per anni, prima della crisi del 2007, economisti e policy makers hanno predicato la superiorità dei mercati finanziari rispetto al finanziamento bancario, proprio in virtù della presunta capacità di questi di allocare il capitale in maniera ottimale. La crisi ha rilanciato il dibattito, con molti economisti che oggi riconoscono come il finanziamento bancario consenta di garantire una maggiore stabilità del flusso di risorse disponibili per l’impresa; una stabilità che consente più agevolmente di superare le fasi di crisi e che in ultima istanza è la sola garanzia di sopravvivenza e di prosperità nel lungo periodo. Il secondo esempio riguarda uno degli effetti potenzialmente più dirompenti, e finora non sufficientemente sottolineati della pandemia del Covid-19. Nella primavera del 2020 le imprese sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti o in via di sviluppo si sono scoperte fragili, incapaci di continuare l’attività produttiva anche quando non colpite direttamente dalle restrizioni causate dal virus. Negli anni precedenti le catene globali del valore erano state allungate al massimo e la filosofia del just in time nella gestione delle scorte generalizzata, nella parossistica ricerca della minimizzazione dei costi di produzione. Quando la crisi ha colpito, questo modello organizzativo ha amplificato gli effetti degli shock creando difficoltà di approvvigionamento e riducendo fortemente la capacità delle imprese a adattarsi alle mutate condizioni economiche. La pandemia ha quindi spinto a riorganizzare i processi produttivi evitando di focalizzarsi esclusivamente su costi di produzione e massimizzazione dei profitti. Molte multinazionali stanno cercando di ricompattare le varie fasi della loro attività, al fine di sviluppare e mantenere una rete di produzione più sostenibile e resistente agli shock. La parola “resilienza” si è fatta strada prendendo il posto della parola “ottimizzazione”. Le conseguenze che questa riorganizzazione della produzione mondiale avrà sui flussi commerciali, sulle virtù relative di libero scambio e protezionismo, sulla distribuzione delle risorse a livello mondiale, sono potenzialmente vastissime e ad oggi fondamentalmente inesplorate.
Un’economia “della complessità” cambia profondamente anche il ruolo del policy maker. Se si intende accompagnare un processo complesso, la politica economica deve far interagire mutamenti istituzionali, tecnologici, di norme, di idee, di capacità, di incentivi. E quando per una qualunque ragione intende governare e orientare la dinamica dell’economia, la politica non può limitarsi a semplicistiche riforme volte a facilitare il funzionamento di mercati la cui flessibilità garantirebbe una supposta efficienza (che in un sistema complesso è, ripetiamolo, un concetto vuoto). Essa deve piuttosto coordinare attori disparati (corpi intermedi, istituzioni politiche, incentivi individuali e si, anche i mercati!) cercando di governarne le interazioni e orientarle verso i propri fini. Si tratta di una concezione della politica economica molto simile a quella che aveva John Maynard Keynes, che emerge chiaramente dalla lettura della Teoria Generale e che è stata completamente oscurata dalle successive rappresentazioni caricaturali e meccaniciste della sua teoria. È per questo che, sia detto incidentalmente, la politica economica non può essere tecnocratica e non può prescindere dal processo democratico: essa non ha il ruolo tutto sommato limitato che le attribuisce la teoria standard di facilitare la convergenza dei mercati verso un equilibrio ottimale; ma quello molto più complicato di governare un corpo sociale in evoluzione in cui vanno continuamente ricomposti interessi contraddittori se non conflittuali. Solo la legittimazione democratica di chi effettua queste scelte garantisce la loro accettabilità anche per chi da queste scelte è penalizzato
In conclusione, mi sia consentito di citarmi. Recentemente chiudevo un saggio sulla storia della macroeconomia notando che: “Non esistono ricette universali, né politiche sempre e comunque ‘superiori’ alle altre; gli economisti dovrebbero smettere di vendere questa pericolosa illusione alle opinioni pubbliche e ai responsabili politici”. (La Scienza inutile, Luiss University Press, 2018, p. 170). Il mercato rende liberi è l’antidoto perfetto per la tentazione della semplificazione che tanti danni ha fatto e continua a fare nel dibattito pubblico. Il lettore deve tuttavia aspettarsi risposte a tutte le domande. È probabile anzi che la lettura di questo saggio si concluda con più dubbi che certezze. È Gallegati per primo a dire che il cammino è ancora lungo e che gli economisti che lavorano a questo paradigma di ricerca non sono oggi ancora in grado di fornire un quadro concettuale coerente che sia in grado di rivaleggiare con la teoria standard. Tuttavia, i passi avanti sono stati notevoli proprio nei campi che in questi anni si sono dimostrati più rilevanti, dai modelli dell’instabilità finanziaria e delle crisi alle teorie dell’innovazione e del progresso tecnico, per citare solo i più ovvi. Si potrebbe obiettare che questo non è abbastanza, che la teoria non è ancora consolidata, che la sua capacità di sviluppare strumenti di verifica empirica non ancora sufficiente. Tutto almeno in parte vero. Ma ciò non giustifica il persistere di politiche, di metodi di analisi la cui credibilità è stata definitivamente rimessa in causa dagli eventi degli ultimi dieci o quindici anni. L’immaturità del paradigma alternativo non rende in nulla più attraente una teoria standard chiaramente inadatta a dare conto della complessità delle economie capitaliste di oggi. Se no si finisce dritti nell’apologo dell’ubriaco che cerca le chiavi perse altrove sotto il lampione perché lì c’è luce, un apologo non a caso recentemente ripreso da Jean-Paul Fitoussi per criticare le politiche economiche europee attuate durante la crisi del debito sovrano. Proprio pensando a quella sciagurata ostinazione dei policy makers europei a riferirsi a schemi teorici screditati si capisce l’importanza di questo libro: è importante oggi, ma lo sarà ancora di più quando la crisi del Covid sarà dietro di noi e sicuramente riemergerà in alcuni ambienti la tentazione di un ritorno al business as usual.