Fra gli economisti di orientamento critico vi è ormai un certo consenso sulle dinamiche che hanno caratterizzato il capitalismo mondiale in anni recenti e che hanno condotto alla crisi in corso[1]. In questa nota si riassume per sommi capi tale interpretazione e si indicano alcune prospettive future.
1. Siamo tutti keynesiani, ma qualcuno di più
Oggi tutti invocano Keynes (o Minsky), ma da sempre gli economisti meno conformisti utilizzano Keynes (e Kalecki) per spiegare le dinamiche del capitalismo. Al centro di questa interpretazione vi è l’idea che l’economia di mercato cresca, nel breve come nel lungo periodo, guidata dalla crescita della domanda aggregata per beni e servizi. Questa consiste di domanda per beni di consumo, investimenti e spesa pubblica. Per un singolo paese essa consiste anche di esportazioni (mentre le importazioni sono una sottrazione alla domanda per i propri beni). Finché non esporteremo su Marte, l’economia-mondo è come se fosse un singolo paese per cui domanda e crescita sono guidate dalle sole prime tre voci. Siccome gli investimenti dipendono a loro volta dalla domanda attesa (gli imprenditori investono sulla base di quanto si attendono di vendere), le fonti ultime della domanda sono consumi e spesa pubblica. Il capitalismo gira se li foraggia dotando di liquidità consumatori e stati[2].
Negli anni più recenti gli Stati Uniti hanno costituito il motore ultimo che ha generato domanda e crescita globale. I consumi degli americani sono stati, in particolare, il motore di questo processo. I consumi dei lavoratori americani (incluso il ceto medio) hanno però sofferto, come altrove, dei mutamenti a loro sfavorevoli nella distribuzione del reddito. Ciò è stato tuttavia più che compensato dall’azzeramento della propensione al risparmio (cioè dalla quota di reddito che viene risparmiata invece che spesa per consumi) e dall’ampio foraggiamento ai consumi che è provenuto dal credito al consumo, inclusi i mutui immobiliari, oltre che dall’”effetto ricchezza”[3] dovuto all’aumento dei valori mobiliari, prima, e immobiliari, poi. In ambedue i modi i lavoratori americani hanno cercato di mantenere o migliorare gli standard di vita acquisiti[4]. Il capitalismo americano ha dal suo punto di vista potuto compensare in tal modo la caduta dei consumi conseguenza della peggiorata distribuzione del reddito e assicurare la piena occupazione in una società priva di ammortizzatori sociali. La memoria degli elevati tassi di disoccupazione sperimentati negli anni ’80, oltre che i cospicui flussi migratori dal Messico, hanno tenuto a bada il conflitto distributivo. Bellofiore e Halevi hanno efficacemente sintetizzato il modello come quello del lavoratore terrorizzato e indebitato[5].
La stabile crescita dell’economia americana, in anni noti ora come quelli della “grande moderazione”, ha determinato un crescente disavanzo commerciale soprattutto con i paesi del sud-est asiatico. Le importazioni di prodotti di largo consumo a basso prezzo dall’Asia (modello Wall Mart) hanno contribuito a loro volta, assieme al credito al consumo, a mantenere tollerabile il peggioramento della distribuzione del reddito negli Usa.
2. Le “global imbalances”
Molti paesi asiatici, Cina in testa, hanno dunque visto crescere i loro avanzi commerciali con gli Usa. Per impedire un rivalutazione del proprio cambio che avrebbe nuociuto alle loro esportazioni, base della loro crescita, essi hanno volentieri reinvestito i crediti accumulati in buoni del Tesoro americani finanziando in tal modo il disavanzo estero americano. Europa e Giappone non hanno partecipato se non marginalmente al festino in seguito alla depressa domanda interna, per scelta e disgrazia, rispettivamente[6]. Se ne è avvantaggiata però la Germania (ma pure il Giappone) che esporta beni capitali in Asia conseguendo forti attivi commerciali. Questo modello è stato suggestivamente, se non del tutto appropriatamente, denominato Bretton Woods II[7]. Esso si basa sul patto scellerato fra paesi dell’est asiatico e Usa: i primi pronti a sostenere il debito estero americano purché questi continuino ad acquistare le loro merci e consentano loro un cambio competitivo.
Si vede dunque come il modello di crescita Usa basato sull’indebitamento delle famiglie di lavoratori americani sia diventato la base del funzionamento dell’intera economia mondiale. E’ la creazione di potere d’acquisto da parte del sistema finanziario Usa la fonte ultima della domanda mondiale, mentre l’”esorbitante privilegio” di emettere la principale moneta di riserva internazionale fa in modo che la liquidità creata sia tranquillamente accettata in pagamento anche all’estero. E’ questo modello che è ora entrato in crisi. Dei suoi due aspetti, l’indebitamento interno delle famiglie Usa e quello esterno, l’indebitamento verso i paesi asiatici, è saltato il primo, e piuttosto inaspettatamente in quanto le più rinomate cassandre internazionali, come il famoso Roubini, pronosticavano che sarebbe stato il secondo a saltare col crollo verticale del dollaro[8].
Siccome fa tuttavia comodo dare la colpa agli altri, con una acrobatica inversione di cause ed effetti l’interpretazione dominate dovuta al presidente della Fed Bernanke, e prontamente sottoscritta da Alesina e Giavazzi, addebita la responsabilità degli squilibri all’eccesso di risparmio dei paesi asiatici (il “saving glut”)[9]: tale risparmio avrebbe trovato utilizzazione nei prestiti alle famiglie americane, certo andati un po’ oltre la normale prudenza. Questa interpretazione di chiaro stampo neoclassico trascura che i risparmi asiatici si sono formati come conseguenza dell’aumento di reddito in quei paesi dovuta al trascinamento della domanda Usa. La capacità di credito alle famiglie del sistema finanziario americano è infatti del tutto indipendente dai risparmi asiatici, come insegna la teoria della moneta endogena condivisa nei suoi tratti più generali dagli economisti meno conformisti.
3. Cosa è andato storto
I fatti recenti sono ormai a tutti noti nei loro tratti salienti: è saltato l’anello più debole del debito delle famiglie americane, i mutui immobiliari concessi nella totale assenza di garanzie di restituzione e di consapevolezza dei mutuatari di ciò che sottoscrivevano. Questi mutui venivano rimpacchettati e venduti ad altri istituti finanziari con l’idea che, in tal modo, il rischio si spargesse su una pluralità di soggetti diventando così inoffensivo. Finché il prezzo delle case cresceva tutti erano soddisfatti. Se per esempio i mutuatari non erano in grado di pagare il sistema gli riaccendeva un altro mutuo di più alto valore, sì da restituire il vecchio con tanto di interessi. Con l’aumento progressivo dei tassi di interesse da parete della Fed a cominciare dal 2004 e l’inizio del calo del prezzo delle case il sistema ha cominciato a scricchiolare con un effetto domino che, attraverso lunghi mesi, si è prima trasmesso all’insieme dell’economia finanziaria e successivamente all’economia reale.
E’ così entrato in difficoltà anche l’altro pezzo del modello, il modello export-led della Cina che vede le proprie aspettative di crescita scemare, il che non è proprio salutare per un paese in cui si affacciano ogni anno nel mercato del lavoro decine di milioni di giovani, di cui molti laureati, per non pensare alle centinaia di milioni di contadini non ancora beneficiati dalla crescita. Non è tuttavia ancora crollata la fiducia cinese nel dollaro, che in questa tempesta ha visto addirittura accresciuto il proprio valore mentre le autorità cinesi non hanno certo intenzione alcuna, ora, di proseguire nella lenta rivalutazione dello Yuan. Questo potrebbe tuttavia non continuare a essere ben visto dagli Usa come dimostrano le prime prese di posizione dello staff di Obama. Dove abbia condotto la logica delle svalutazioni competitive ben sappiamo dalla crisi degli anni trenta.
4. Cosa si può raddrizzare
L’esperienza recente nei paesi avanzati, in particolare negli Usa, mostra come il sostegno alla domanda aggregata che deriva dall’indebitamento privato sia assai più fragile di quella basata sull’indebitamento pubblico[10]. Diffuso appare ora il ricorso a misure keynesiane di spesa pubblica, in genere ritenute più efficaci dei tagli fiscali. A destra si paventa da parte di molti il pericolo che finita la crisi il debito pubblico accumulato faccia aumentare i tassi di interesse diventando esso stesso un fattore di recessione. A sinistra ci si domanda se la crisi corrente dimostri che il capitalismo è profondamente irriformabile tagliando l’erba sotto ogni ipotesi riformista. Al primo problema si può rispondere che il livello dei tassi di interesse è in buona misura condizionato dalle banche centrali che lo utilizzano per tenere sotto controllo le dinamiche salariali, mentre il rapporto debito/Pil dipende non solo dall’ammontare del debito, che aumenta lentamente se i tassi di interesse si mantengono bassi, ma anche dalla crescita del Pil. Allora la prima questione ci rimanda alla seconda: è possibile disegnare un capitalismo che coniughi crescita e controllato conflitto sociale? In via di principio ci si potrebbe avvicinare a ciò attraverso un contratto sociale che assicuri una distribuzione diretta e indiretta (attraverso la spesa sociale) del reddito a favore delle classi lavoratrici e sostenga per questa via la domanda aggregata[11]. Diversa la questione della realizzabilità politica di tale assetto, difficilissima. Ciò non vuol dire però che la realizzabilità teorica non possa essere brandita come arma di lotta politica in particolare a fronte delle difficoltà che il capitalismo potrebbe avere a trovare altre vie d’uscita agli elevati tassi di disoccupazione prodotti dalla crisi.