“We can only hope that the measures taken by other countries … will help our export economy.” (Michael Glos, ministro tedesco dell’economia, citato dal Financial Times, 30 nov. 2008)
1. “The sick man of Europe” titolava tempo fa The Economist con riferimento al nostro paese. La corrente crisi sta tuttavia mettendo in luce, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che l’Europa soffre di una malattia ben più grave e che riguarda il suo paese più importante: la Germania. La corrente crisi finanziaria, ormai trasmessa all’economia reale, ha evidenziato la debolezza del coordinamento europeo sui temi di politica economica, debolezza che vede al centro il rifiuto della Germania, la potenza regionale più forte, a svolgere il ruolo di paese leader con i relativi onori e oneri. Gli organi di stampa dell’establishment economico, il citato The Economist, Financial Times, Sole-24 Ore, sono tutti allineati nel denunciare questo atteggiamento tedesco sì che quasi appare strano che un sito di economisti alternativi si allinei a questo coro. Eppure la questione è rilevante perché il tema della politica economica europea è tanto importante quanto trascurato dalla sinistra radicale italiana (ed europea), se non nella vizza denuncia dei “dogmi liberisti” come nella riunione della sinistra europea tenuta a Berlino i giorni scorsi (come si evince dall’altrettanto stantio resoconto de il manifesto, 30 nov.). A tal proposito la sinistra italiana (ed europea) dovrebbe apprendere che in queste faccende non esiste una “solidarietà di classe internazionale” a cui rifarsi, ma solo i crudi interessi nazionali (e non v’è dubbio che la Linke tedesca farebbe giustamente i propri se chiamata a scegliere); se questi sono conciliabili tanto meglio, sennò meglio attrezzarsi per tempo perché “il forte fa ciò che ha il potere di fare e il debole accetta ciò che deve accettare”, come insegnava Tucidide, il capostipite del realismo politico. Ma la sinistra radicale ha sempre preferito crogiolarsi nelle utopie o nelle chiacchiere.
2. Il piano di rilancio approvato dall’Unione Europea – 200 miliardi di € – è per opinione condivisa poco più di una mera sommatoria di piani nazionali. Si è contrabbandata per novità l’attenuazione del Patto di stabilità e crescita (i famigerati vincoli di Maastricht), ma questa era già stata prevista da accordi stipulati nel 2005. Il piano tedesco è particolarmente piccino per la quarta economia mondiale, 12 miliardi, in due anni, da confrontarsi con i quasi 600 della Cina, pure in due anni, e i 275 del Giappone, la terza e seconda economia mondiale, rispettivamente (per paragone, il piano italiano è di 6 miliardi di € tutti sottratti ad altre spese già previste, per cui vale sostanzialmente zero, v. Sole-24Ore, 30 nov.). La Germania ha chiaramente rallentato, e continua a rallentare, la diminuzione del tasso di interesse da parte della BCE. Tali diminuzioni sono di scarso impatto in una situazione di razionamento del credito e di sfiducia, ma possono rendere meno costose per i governi le necessarie politiche fiscali espansive. Il surplus commerciale della Germania negli ultimi 12 mesi (ultimo dato: settembre), ci offre una dimensione della potenza economica tedesca e delle possibilità di quella economia da fare da locomotiva del rilancio globale: esso è stato di 288 miliardi di € contro i 265 della Cina e i 65 del Giappone. Nel 2007 il 63% di quel surplus è stato con i paesi europei (27 miliardi circa con Francia, Spagna e RU, e 19,6 con l’Italia).
3. La crisi in corso aveva dato anche occasione all’iperattivo presidente francese Sarkosy di proporre di rafforzare la governance economica europea. L’opposizione tedesca non si è fatta attendere temendo “che la Francia minacci così l’indipendenza della Bce o comunque voglia imporre le sue politiche economiche ai partner sfidando così la consolidata supremazia tedesca su questo fronte” (A.Cerretelli, Sole-24Ore, 24 ott.). Se l’attivismo francese ha sinora sortito solo accordi di facciata chiunque può immaginare il vuoto di governo quando nel prossimo semestre la guida europea sarà affidata a un nano geopolitico, per giunta anti-europeista, come la Repubblica Ceca.
A tal riguardo, in un utile lavoro recentemente presentato presso il Centro Sraffa di Roma, Carlo Panico ha ricostruito i meccanismi della governance europea mettendone in luce limiti e incongruenze[1]. In particolare, a fronte di ben delineati poteri e obiettivi attribuiti alla BCE a cui i trattati attribuiscono una indipendenza formale, è assente un contraltare istituzionale che coordini in maniera più ampia la politica economica. Questo non può essere costituito dall’ECOFIN, il consiglio dei ministri economici, che ha poteri formali, ma in quanto raccoglie tutti e 27 i paesi dell’Unione è un interlocutore non omogeneo alla BCE. L’Eurogruppo creato nel 1997 raccoglie i soli ministri dei paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea e si riunisce prima dell’ECOFIN (a entrambi i gruppi partecipa anche il presidente della BCE), ma non ha poteri formali, e pour cause. E’ che alla Germania la governance europea com’è va benissimo, in particolare proprio per l’assenza di quell’autorità politica che interloquisca con la BCE che Sarkosy voleva rafforzare dando più autorità all’Eurogruppo.
4. Tale governance riflette lo statuto della politica economica europea quale è venuto a formarsi nel corso dei vari trattati. Tale statuto ha tre elementi La politica monetaria è affidata alla BCE, formalmente indipendente dal potere politico, la quale l’amministra avendo come mandato il solo controllo del tasso di inflazione che, tradotto in soldoni, significa controllo del tasso di variazione dei salari nominali in Europa e in particolare in Germania. Il ritardo della BCE a diminuire i tassi di interesse, addirittura aumentandoli in luglio a tempesta cominciata, è stato dovuto alla necessità tedesca di tenere sotto frusta le cospicue richieste salariali della IG Metal (la Fiom locale) giudicate troppo elevate, poi infatti frettolosamente ritirate quest’autunno. Tenuti così sotto controllo i salari, la politica fiscale è tenuta a bada dai noti paletti di Maastricht e dei Patti di stabilità: della politica fiscale si occupano i vincoli e non è oggetto di coordinamento politico. Dal marzo 2005 questi vincoli sono stati formalmente ammorbiditi nella fiducia che, in assenza di controlli sui movimenti di capitale, i mercati finanziari provvederanno comunque a limitare le politiche fiscali dei paesi più deboli sotto la frusta dell’aumento del costo del loro indebitamento, tanto più che le difficoltà di finanza pubblica si accentuano in una fase di crisi, a maggior ragione se chi potrebbe rifiuta di espandere la propria spesa pubblica. Il terzo e ultimo tassello della politica europea è costituito dalle politiche nazionali di flessibilità dei mercati, in particolare quello del lavoro, a cui viene assegnato l’obiettivo della crescita. Nell’epoca keynesiana gli obiettivi della crescita e del pieno impiego erano visti come obiettivi sopranazionali da realizzarsi attraverso comuni politiche espansive, monetarie e fiscali mentre sarebbe stata considerata distruttiva una strategia di deflazione salariale competitiva. I risultati penosi per l’economia europea degli ultimi 15 anni confermano tale interpretazione.
5. Ma, come diceva Alfred Marshall, “bygones are bygones in Economics” (il passato è passato in economia), e allora perché in un momento in cui “tutti sono keynesiani” i tedeschi sono perniciosamente attaccati alle loro politiche? I commentatori hanno suggerito varie spiegazioni. I tedeschi danno grande valore alla sobrietà nei consumi differenziandosi dalle smodatezza dei consumatori anglosassoni al punto che le carte di credito hanno accettazione assai limitata persino nei supermarket e il credito al consumo è poco diffuso (Financial Times 28 nov.). Al riguardo i bassi tassi di interesse sono ancor oggi guardati con sospetto come la fonte di tutti i guai del capitalismo anglosassone. Così la Merkel, reagendo alle critiche mosse alla timidezza del suo governo, ha affermato l’altro giorno: “La moneta troppo a buon prezzo negli US è stata una causa della crisi odierna. Sono profondamente preoccupata che noi si stia rafforzando questo trend attraverso le misure adottate negli US e altrove trovandoci fra 5 anni ad affrontare precisamente la medesima crisi” (Financial Times 27 nov.). Ma la ragione fondamentale è probabilmente da ricercarsi altrove, e in particolare nelle scelte neomercantiliste di quel paese, il perseguimento dunque del surplus commerciale come fine ultimo della politica economica. Per gli scopi della realizzazione di tale surplus lo stato di persistente deflazione competitiva in cui la Germania si trova da anni va benissimo, anzi ne è componente essenziale tenendo bassi i costi del lavoro. Tenuti bassi i salari reali (ma il marco/euro sopravvalutati danno una mano ai consumi reali dei lavoratori tenendo basso il prezzo dei beni importati) la tecnologia tedesca fa la differenza, di prezzo e di qualità, cogli altri paesi europei. L’imponente ristrutturazione industriale tedesca degli ultimi anni e la connivenza sindacale a tale modello sono stati ben illustrati da De Cecco e Carlin & Soskice[2]. Naturalmente si dovrebbe andar oltre e cercare di comprendere i motivi storici dietro la scelta di questo modello di sviluppo che, certo, impone disciplina alla propria forza lavoro ed è stato selezionato dalla classe dirigente tedesca forse anche per questo motivo. Sarà importante sollecitare qui il contributo di qualche amico storico.
6. Il “chief eurozone economist” di Unicredit, ha opportunamente dichiarato al Financial Times (30 nov.) che la Germania dovrebbe mostrarsi responsabile a fronte dell’eurozona “piuttosto che trasformarsi in una versione occidentale della Cina” (peraltro assai meno mercantilista della Germania). Si osservi che tali politiche tedesche non sono solo perniciose in Europa, ma una delle cause dei disequilibri globali dell’economia mondiale (le cosiddette “global imbalances” su cui torneremo in un successivo articolo). Che fare dunque? A me sembra che obiettivo primo di una sinistra concreta sia fare chiarezza di dove siano i problemi politico-economici – in questo caso il problema tedesco – difficili da attaccare che siano. Quello che colpisce della passata esperienza di governo della sinistra è stata l’assenza di uno straccio di analisi fatta per tempo del contesto della politica economica europea e globale (che non fossero slogan triti e ritriti contro il neoliberismo). Non si tratta qui di stendere, si badi, illuministici progetto tardo-keynesiani (come qualcuno vorrà frettolosamente attribuirci), ma di imparare a leggere la dura realtà geopolitica globale in cui ci si muove. L’analisi è poi base per la battaglia politica, con il ben noto pessimismo della ragione ecc., a meno di volersi arroccare a gufare nella propria torre d’avorio.
[1] “Policy Coordination in the Euro Area”, disponibile all’indirizzo: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1265677.
[2] M.De Cecco, Germania, cosa c’è dietro il boom, Affari e Finanza,