Il divario tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia si approfondisce sempre più. Infatti, dopo che una residua timida tendenza alla riduzione della forbice tra le due parti del Paese si è arrestata nei primi anni novanta, dal 1995 assistiamo ad un marcato approfondimento del dualismo, resosi ancora più netto con il sopraggiungere e poi l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria. In base alle valutazioni formulate dalla Svimez nel recente rapporto annuale[1], nel 2012 il pil del Mezzogiorno ha subito una flessione (per il quinto anno consecutivo) del 3,2%, oltre un punto percentuale in più rispetto alla contrazione registrata nel Centro-Nord (-2,1%). In termini di divario tra i redditi pro capite, il Paese è così ritornato ai valori degli anni cinquanta, quando un abitante del Sud aveva mediamente un reddito che raggiungeva a malapena il 57% di un connazionale che vivesse nel resto della penisola.
La crisi ha avuto un impatto devastante sul valore degli investimenti, ridottisi mediamente di quasi il 26% tra il 2007 e il 2012, con una contrazione che ha raggiunto addirittura il 47% nel settore industriale (contro un calo del 21,4% nel Centro-Nord). Proprio nel settore industriale il gap tra Sud e Centro-Nord si è particolarmente allargato: come rilevato dalla Banca d’Italia[2], tra il 2007 e il 2011 la riduzione del valore aggiunto nel settore è stata rispettivamente del 16% e del 10%. Inevitabile la differente ripercussione sul mercato del lavoro: il calo degli occupati nel Mezzogiorno è stato più che doppio rispetto a quello registrato nelle regioni centro-settentrionali (tra il 2008 e il 2012, rispettivamente -4,6% e -1,2%)[3]. Ciò spiega in grande misura perché nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione abbia raggiunto nel 2012 il 17%, contro l’8% del Centro-Nord. In questo quadro, non stupisce la ripresa in grande stile dell’emigrazione, che contribuisce a impoverire il Sud e a ostacolarne lo sviluppo.
Ciò che invece sorprende è trovarsi a rileggere pagine sul Mezzogiorno scritte oltre un secolo fa e trovarle attuali. Nel 1901 Francesco Saverio Nitti scriveva che «è supremo interesse nazionale che la trasfomazione [industriale] avvenga [e a tal fine] bisogna cercare mezzi straordinari»[4]. Nitti toccava gli aspetti salienti ancora oggi: “interesse nazionale”; “trasformazione industriale”; “mezzi straordinari”. Ancora oggi, tra rigurgiti di regionalismo e tentativi di occultare il dramma meridionale, tocca ribadire che, per dirla con un altro scrittore d’epoca, «fino a quando esisterà una questione meridionale […] l’unità nazionale non sarà raggiunta completamente»[5]. Così come non si può non osservare che nel Mezzogiorno mancano, ancora oggi, le “condizioni ordinarie per la trasformazione industriale” di cui parlava Nitti: capitali, borghesia di produzione, popolazione “educata” alla produzione industriale, capacità di attrarre capitali nazionali ed esteri[6].
Per certi aspetti, il dibattito di oggi può apparire addirittura più “arretrato” di quello del passato. Ciò almeno quando si pensi alla necessità di una “trasformazione”, una “modernizzazione”, industriale del Mezzogiorno, che oggi sembra essere talvolta negata con la tensione verso “platonici rimedi” (per utilizzare ancora una volta una espressione di Nitti) quali “piccolo è bello” e “decrescita felice” o, ancora, invocazioni a «il cielo, il mare, i forestieri. Ecco l’illusione del grande albergo e del grande Museo, la più pestifera di tutte le illusioni. […] d’altra parte è inutile parlare di rimedi che non sono tali […] il porto più grande o più piccolo, sarà sempre quello che è se la produzione sarà scarsa. Sono soluzioni comiche…»[7]. Non è superfluo allora sottolineare che il settore manifatturiero è il motore della crescita e che le economie che presentano dei vincoli nei saggi di crescita del settore manifatturiero registrano tendenzialmente tassi di crescita più bassi. La realtà è che l’economia meridionale è ancora oggi legata a filo doppio alle produzioni di beni tradizionali, con valore aggiunto modesto, ed è ben scarsamente propensa all’innovazione, registrando perciò modesta redditività, scarsa produttività, bassa capacità competitiva e, conseguentemente, minori esportazioni. Una economia che guarda ben poco alla domanda estera, al traino delle esportazioni, e che continua ad essere essenzialmente orientata alla domanda interna, anzi locale, quella che ha risentito maggiormente della crisi, sia dal lato dei consumi che dal lato degli investimenti[8].
Tutto ciò rende evidente la necessità di intervenire sul modello di specializzazione produttiva meridionale, ancora sostanzialmente rivolto alla domanda interna. Ma come fare? Certo, un utilizzo più oculato e meno dispersivo dei fondi europei e una maggiore vigilanza nell’utilizzo delle risorse rappresentano un aspetto non trascurabile del ritardo nello sviluppo del Mezzogiorno su cui intervenire[9]. Ma servono ben più risorse e una vera politica industriale[10]. Insomma, il vero nodo del problema rimane la necessità di recuperare quella “logica industriale” che ha ispirato le politiche di intervento straordinario per il Mezzogiorno negli anni cinquanta del Novecento. In questo senso, le riflessioni suscitate dal Rapporto Svimez e dagli studi in tema recentemente pubblicati servono a ribadire una volta in più che occorre ripensare la “questione meridionale” per rimetterla fattivamente al centro dell’agenda politica come parte di un progetto organico, sistematico e generale per lo sviluppo e la crescita dell’intero sistema paese.
*L’autrice è ricercatore nell’Università del Sannio