Stando alle ultime stime OCSE, esistono, nei Paesi industrializzati, quasi cinquanta milioni di disoccupati, un livello mai raggiunto dagli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra. Sarebbe davvero arduo sostenere che ciò sia imputabile a eccessive ‘rigidità’ del mercato del lavoro, essendo ben noto – e certificato dagli ultimi rapporti OCSE – che un ventennio di politiche di ‘flessibilità del lavoro’ non ha generato altro se non una consistente riduzione della quota dei salari sul PIL in tutti i Paesi industrializzati e comunque non ha accresciuto l’occupazione. Dopo la brevissima stagione, lo scorso anno, nella quale alcuni Governi (USA in primis) hanno messo in atto politiche di rilancio della domanda aggregata mediante aumenti della spesa pubblica, prevale oggi una linea di ‘austerità’, stando alla quale si ritiene che – ferma restando la ‘flessibilità’ del lavoro – la disoccupazione sia imputabile al modesto tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, e che, per far fronte al problema, siano necessarie politiche di riduzione della spesa pubblica[1]. La crescita economica, a sua volta, sarebbe trainata da politiche volte a favorire la ‘libertà d’impresa’, riducendo i vincoli che le imprese fronteggiano per quanto attiene ai diritti dei lavoratori, alla tutela dell’ambiente, agli oneri burocratici, alla tassazione. Si tratta, in sostanza, della riproposizione, sotto altro nome, della supply-side economics dei primi anni ottanta[2], declinata in un (apparente) puzzle logico che vede i principali Paesi industrializzati mettere in atto manovre fiscali restrittive in regime di crisi.
Si può rilevare che le politiche di austerità sono, al tempo stesso, dannose e inevitabili. Sono dannose per almeno due ragioni. In primo luogo, la contrazione della spesa pubblica, riducendo la domanda aggregata, riduce l’occupazione; e, a sua volta, la riduzione dell’occupazione, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari e, dunque, i consumi. In secondo luogo, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo – per le imprese nel loro complesso – i margini di profitto e gli investimenti. Le politiche di ‘austerità’ accentuano in tal modo la crisi perché contribuiscono ad accelerare la caduta della domanda aggregata[3]. Vi è di più. Se, come la visione dominante sostiene, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e dunque a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il nesso causale è precisamente l’opposto: il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL; la riduzione dei redditi riduce la base imponibile[4] e può accrescere il debito pubblico. In altri termini, le politiche di austerità rischiano di generare esattamente gli effetti che si propongono di non produrre, aumentando l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, per effetto della contrazione del tasso di crescita.
Un dato appare, a riguardo, particolarmente significativo: la crescita economica è stata sensibilmente più elevata nel periodo del cosiddetto consenso keynesiano e con elevata conflittualità sociale rispetto al ventennio successivo. Su Fonte AMECO[5], si rileva che il PIL reale italiano è cresciuto del 3.6% nel periodo 1971-1980 (con un tasso di crescita superiore a quello statunitense, pari in quel periodo al 2.3%), a fronte del 2.3% del decennio successivo.
A un esame più attento, la linea dell’austerità trova la sua legittimazione nella sostanziale impossibilità di praticare politiche fiscali espansive in regime di piena mobilità internazionale dei capitali. L’architettura istituzionale nella quale si muove il ‘nuovo’ capitalismo è, infatti, basata sulla costante ‘minaccia’ di disinvestimento da parte delle imprese che hanno maggiore possibilità di dislocare la propria produzione all’estero. Va chiarito che, mentre sul piano macroeconomico, l’aumento della spesa pubblica accresce la domanda a beneficio della collettività delle imprese, questo effetto non è visto dalla singola impresa che percepisce soltanto il costo associato a queste politiche, ovvero l’aumento dei salari derivante dall’aumento dell’occupazione, e dunque dalla crescita del potere contrattuale dei lavoratori[6]. E poiché a nessun Governo conviene veder ridotti gli investimenti interni, e dunque il reddito pro-capite che questi generano (o che ci si aspetta generino), la ‘trappola’ dello ‘sciopero del capitale’ diventa pienamente operante[7]. Le recenti vicende di Pomigliano testimoniano come questa trappola condizioni pesantemente le relazioni industriali, fino al punto da rendere la grande impresa sovrana rispetto al dettato costituzionale[8]. Ed è sulla base di questa logica che il Governo intende promuovere la massima ‘libertà d’impresa’: cercare di trattenere investimenti in Italia, o, nella migliore delle ipotesi, cercare di attrarli, riducendo nella massima misura possibile i vincoli che le imprese fronteggiano, indipendentemente dal fatto che tali vincoli – come da dettato costituzionale – siano stati posti per conferire ”utilità sociale” all’iniziativa privata.
In tal senso, si stabilisce una correlazione inversa fra mobilità internazionale dei capitali e quota dei salari sul PIL. In questa sede, può essere sufficiente far riferimento a stime del Fondo Monetario Internazionale, dalle quali si deduce che la quota dei salari sul PIL, nei Paesi OCSE, si è significativamente ridotta a partire dagli inizi degli anni ottanta (v. fig.1)[9], proprio a partire dalla stagione che, convenzionalmente, si definisce di ‘globalizzazione’.
Si osservi che, in questo schema, non è necessariamente l’effettiva delocalizzazione a produrre questo esito: può essere sufficiente la sola minaccia di farlo. Si può aggiungere che la necessità delle imprese di condizionare a loro vantaggio le politiche nazionali è tanto più rilevante in una fase di crisi, nella quale i conflitti intercapitalistici si accentuano. E ciò avviene mediante la concorrenza fra Stati, soprattutto sulla riduzione delle imposte sui profitti e sulla riduzione dei salari diretti e indiretti e dei diritti dei lavoratori[10]. Evidentemente, ed è questo un processo già in atto, l’esito non può che essere crescente concentrazione industriale, dando luogo a una spirale perversa in base alla quale aumenta la produttività del lavoro – il che è reso possibile dalle economie di scala in imprese di grandi dimensioni – e si riducono (o non aumentano) i salari, per effetto dell’elevato potere contrattuale nel mercato del lavoro di imprese di grandi dimensioni e mobili su scala internazionale. Ciò, da un lato, rende sempre più difficile – per le imprese nel loro complesso – la realizzazione monetaria dei profitti; dall’altro, genera inevitabilmente la progressiva desertificazione produttiva delle aree periferiche dello sviluppo capitalistico[11]. Da qui riemerge una contraddizione tipica della riproduzione capitalistica: le politiche di austerità assecondano gli interessi delle grandi imprese, ma, al tempo stesso, incidono negativamente sulla coesione sociale e, dunque, sulla legittimazione del sistema e di chi assume responsabilità politiche. Si è in presenza di un conflitto di obiettivi fra accumulazione e legittimazione, che delinea una caratteristica essenziale di un modello di sviluppo capitalistico il cui ingrediente essenziale è la piena mobilità internazionale dei capitali[12].