I limiti dello sviluppo turistico nel Mezzogiorno: il caso della Provincia di Lecce

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In questo articolo è stato trattato il cambiamento strutturale dell’economia della provincia di Lecce negli ultimi decenni e le criticità del settore turistico. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si è messo in evidenza che il turismo non genera crescita e che è semmai lo sviluppo locale a essere un prius rispetto all’aumento degli afflussi. Il settore è anche caratterizzato da stagionalità e retribuzioni molto basse. Il passaggio dalla produzione di tabacco alla monocultura dell’olio al turismo conferma, tuttavia, per questa area la scarsa propensione all’accumulazione di capitale e il suo essere zona periferica nell’ambito dello sviluppo capitalistico globale.

1 – Introduzione

Lecce e la sua provincia hanno accelerato, negli ultimi decenni, una specializzazione produttiva basata sul turismo. Secondo gli ultimi dati rilasciati dal locale Osservatorio Economico Aforisma (2023) si rileva una significativa crescita del numero di imprese nel settore: le attività di alloggio e di ristorazione sono quelle la cui numerosità è maggiormente aumentata: da 4.143 (al 31 dicembre 2009) a 5.838 (al 31 maggio 2023), ovvero 1.695 in più, pari ad un incremento del 41 per cento.

Nel 1870 la provincia di Lecce (il Salento nell’accezione ristretta del termine) era più industrializzata della provincia di Torino con un Pil industriale pari a quello di Milano. Poco meno del 20 per cento delle entrate monetarie italiane provenienti dall’estero erano attribuibili al Grande Salento, che si presentava come una delle aree con la più alta incidenza del settore secondario d’Italia (Istituto Tagliacarne citato in Ragosta, 2013 p.21). Dal periodo postunitario a oggi, la città di Lecce ha vissuto una lunga stagione di deindustrializzazione, con la parziale eccezione del periodo di insediamento e crescita del tessile-abbigliamento-calzature (Tac) nel polo di Casarano. I processi di delocalizzazione che hanno investito quel settore hanno accentuato il profilo della specializzazione agricola e soprattutto turistica dell’area (e, più in generale, del terziario non legato a insediamenti industriali). Incidentalmente, si osserva che questo andamento è in linea con quello nazionale – con un forte ridimensionamento del sistema moda in termini di numero di addetti (più che dimezzato dal 1980 al 2010): un’attività produttiva che continua a basarsi sul saper fare artigianale ritenuto essere una specificità dell’industria italiana (Gallo, 2020, pp.83 ss.). L’incremento dei flussi di arrivo nel Salento sono ormai non recenti e possono essere datati a partire dagli anni Novanta [1].  

Questa nota si propone di (i) dar conto del cambiamento strutturale determinatosi nel Salento a seguito dell’aumento dei flussi turistici (ii) mostrare come il turismo si associ a bassa crescita economica, prevalentemente per le sole occupazioni di bassa qualifica. Questa analisi viene preceduta da considerazioni relative alla c.d. invenzione della tradizione e, dunque, dalla tesi per la quale la crescita del settore turistico, in quanto connessa con l’uso della Storia locale per fini economici, è indotta dalla “classe agiata” locale per gestire il controllo sulla comunicazione nel e del territorio. Questa modalità di comunicazione contribuisce a rafforzare la convinzione della unicità del luogo (soprattutto per quanto attiene alle bellezze paesaggistiche) e a ritardare, sotto il profilo culturale, o finanche a rendere impossibile l’attuazione di strategie alternative di sviluppo: ciò spiega la sostanziale persistenza nel tempo di habits orientati alla conservazione dello status quo e comunque funzionali alla riproduzione della classe agiata locale nell’accezione di Thorstein Veblen[2] (Conelli 2023; Forges Davanzati, 2006).

L’esposizione è organizzata come segue. Il paragrafo 2 dà conto delle trasformazioni dell’economia salentina dal 2008 a oggi; nel paragrafo 3 ci si sofferma sulle tradizioni locali come strumento di attrazione turistica e, nel paragrafo 4, si fornisce un’analisi della relazione fra turismo e sviluppo locale. Vengono poi presentate considerazioni conclusive.

2 – L’economia salentina dalla crisi finanziaria del 2008 a oggi

Dalla grande recessione del biennio 2008-2009 – innescata dallo scoppio della bolla immobiliare americana, che provocò a catena una grave crisi finanziaria, con pesanti ripercussioni sulle economie di tutto il mondo – ad oggi, molto è cambiato per l’economia salentina.

Aumentano le imprese nei settori della ricettività, della ristorazione, del terziario e dei servizi. In costante declino, invece, l’agricoltura e il manifatturiero che ha subìto maggiormente gli effetti dei rincari energetici, nonostante i provvedimenti adottati dal Governo al fine di mitigarne l’impatto sui costi aziendali.

Lo studio prende in esame tutte le imprese attive con sede legale nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto e iscritte nelle rispettive camere di commercio (ad eccezione di quelle inattive e di quelle sottoposte a procedure concorsuali).

Nel lungo arco temporale che va dal 2009 ad oggi, il comparto primario ha il peggiore saldo: meno 5.479 attività, pari a una flessione del 17 per cento (dalle 32.131 imprese del 31 dicembre 2009 alle attuali 26.652 del 31 maggio scorso).

Il manifatturiero ha perso 2.241 unità (dalle 12.270 del 31 dicembre 2009 alle 10.029 del 31 maggio scorso). I rincari dei prodotti energetici e delle altre materie prime hanno fatto crescere a tal punto i costi per le aziende che è a rischio la loro stessa sopravvivenza. Se il manifatturiero non è sparito, lo si deve soprattutto agli scambi commerciali, mentre resta debole la domanda interna. Ma è bene precisare che l’export è cresciuto soprattutto in termini di valore, non in termini di prodotto. L’incremento, infatti, è solo nel valore, perché l’inflazione ha incrementato i prezzi, ma il numero dei prodotti è risultato inferiore a quello dell’anno scorso. La graduale ripresa del Tac (tessile-abbigliamento-calzaturiero) dovrebbe interessare un numero maggiore di aziende per poter competere davvero sui mercati internazionali.

Il commercio all’ingrosso e al dettaglio resta sostanzialmente stabile: le tante chiusure dei negozi di vicinato sono compensate dalle aperture di nuove attività di vendita a distanza e dalla nascita delle piattaforme di e-commerce.

Il turismo si aggiudica la migliore performance nel lungo termine: le attività di alloggio e ristorazione sono aumentate, infatti, di 3.640 unità, pari a una crescita del 44 per cento (dalle 8.272 del 31 dicembre 2009 alle 11.912 del 31 maggio scorso). Seguono le agenzie di viaggio e di noleggio: +1.556, pari a un incremento del 58 per cento (da 2.661 del 31 dicembre 2009 a 4.217 del 31 maggio scorso).

Le attività professionali, scientifiche e tecniche continuano ad orientarsi verso forme imprenditoriali, grazie alla concessione dei vantaggi fiscali ed anche il settore delle costruzioni è stato sostenuto dall’introduzione di crescenti incentivi per le ristrutturazioni edilizie e il risparmio energetico. I bonus edilizi hanno sortito effetti positivi anche sulle compravendite residenziali, aumentando il numero delle transazioni immobiliari. Non solo hanno contribuito a limitare l’impatto negativo della pandemia, ma hanno risvegliato un grande interesse verso i lavori volti all’efficientamento energetico, dando una notevole spinta al mercato, quasi del tutto fermo durante la pandemia. Il superbonus e gli altri bonus edilizi hanno incentivato la nascita di nuove ditte di costruzioni. Già durante la fase espansiva della pandemia gli ingranaggi dell’economia hanno iniziato a procedere a velocità molto diverse: non tutti i settori arretravano e non tutti i territori registravano un saldo negativo delle imprese e degli addetti. Anzi, il Salento che è stato un po’ meno esposto alle conseguenze della pandemia ha visto crescere le attività per una rapida diversificazione e per il ritorno dei flussi turistici. Anche le attività che sembravano più esposte alla crisi innescata dal Covid-19 hanno risentito meno degli effetti rispetto ad altri territori italiani. Sono emerse, tuttavia, rilevanti strozzature dal lato dell’offerta in parte indotte dalla stessa rapidità della ripresa, per la scarsità di alcune materie prime e le note criticità nella logistica e nei trasporti.

Questi i dati delle aziende attive, provincia per provincia. In provincia di Lecce, si contano 20.725 esercizi commerciali all’ingrosso e al dettaglio; 9.897 ditte di costruzioni; 9.283 aziende agricole; 5.838 attività di alloggio e ristorazione; 5.090 attività manifatturiere; 3.441 altre attività di servizi; 1.959 attività di noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese; 1.920 attività professionali in forma imprenditoriale; 1.309 attività finanziarie e assicurative; 1.282 attività immobiliari; 1.152 ditte di trasporto e magazzinaggio; 1.076 servizi di informazione e comunicazione; 1.057 attività artistiche, sportive e divertimento; 749 operano nella sanità e assistenza sociale; 407 nel campo dell’istruzione e 373 non ancora classificate. Per un totale di 65.558 attività al 31 maggio scorso.

In provincia di Brindisi, si contano 9.711 esercizi commerciali all’ingrosso e al dettaglio; 7.165 aziende agricole; 4.424 ditte di costruzioni; 2.725 attività di alloggio e ristorazione; 2.116 attività manifatturiere; 1.510 altre attività di servizi; 1.007 attività di noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese; 882 attività professionali in forma imprenditoriale; 771 ditte di trasporto e magazzinaggio; 569 attività finanziarie e assicurative; 510 attività immobiliari; 453 servizi di informazione e comunicazione; 346 attività artistiche, sportive e divertimento; 304 operano nella sanità e assistenza sociale; 151 nel campo dell’istruzione e 149 non ancora classificate. non ancora classificate. Per un totale di 32.793 attività al 31 maggio scorso.

In provincia di Taranto, si contano 12.709 esercizi commerciali all’ingrosso e al dettaglio; 10.204 aziende agricole; 4.964 ditte di costruzioni; 3.349 attività di alloggio e ristorazione; 2.823 attività manifatturiere; 1.858 altre attività di servizi; 1.318 attività professionali in forma imprenditoriale; 1.251 attività di noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese; 947 ditte di trasporto e magazzinaggio; 898 attività finanziarie e assicurative; 724 servizi di informazione e comunicazione; 701 attività immobiliari; 542 attività artistiche, sportive e divertimento; 401 operano nella sanità e assistenza sociale; 229 nel campo dell’istruzione e 246 non ancora classificate. Per un totale di 43.164 attività al 31 maggio scorso. L’economia salentina, dunque, si sta trasformando con il passare del tempo: ha perso la vocazione agricola e manifatturiera industriale ed artigianale, mentre si è ritagliato maggiore spazio il turismo, composto prevalentemente dalle attività di alloggio e di ristorazione (Stasi, La Gazzetta del Mezzogiorno, 11 giugno 2023) [3].

Negli anni più recenti, come documentato negli ultimi Rapporti di Banca d’Italia (2022; 2023), il Salento – come, del resto, l’intero Mezzogiorno – è stato dentro una dinamica di doppia divergenza: una divergenza fra Sud e Nord del Paese e una divergenza interna al Mezzogiorno, fra aree urbane e aree non urbane. Trattandosi di un territorio con poca urbanizzazione (la città di Lecce conta circa 95mila abitanti), ha vissuto la crescente marginalizzazione delle “aree interne”, che pare caratterizzare l’intero continente europeo [4].

Figura 1 – Reddito pro capite comunale in Italia – Fonte MEF (2022)

La figura 1 illustra la situazione italiana in termini di Pil pro capite su base comunale, con gli ultimi dati disponibili post crisi sanitaria del Ministero dell’Economia al 2022. Si evidenzia il fatto che pressoché tutti i comuni italiani con basso reddito sono localizzati nel Mezzogiorno. Le aree interne del Paese – tradizionalmente povere – sono comunque più ricche della quasi totalità dei comuni meridionali.

La Figura 2 dà conto dell’incidenza dei vari settori produttivi nella provincia di Lecce.

Figura 2: settori produttivi nella provincia di Lecce

3 – L’invenzione della tradizione

Lo storico Erik J.Hobsbawm, in un celebre volume scritto con T. Ranger, ha rilevato che “le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta” (Hobsbawm e Ranger 1983). La tesi di Hobsbawm è stata discussa dalla rivista scientifica “Past and Present”, dando luogo a un interessante filone di ricerca storico-sociologica sulle “tradizioni inventate”. Si tratta di un approccio promettente anche per l’analisi propriamente economica di Lecce e del Salento, dove – si assume qui come prima ipotesi di lavoro – l’invenzione della tradizione appare riuscita ad opera delle èlites locali, in considerazione soprattutto dei suoi effetti istituzionali sugli habits of thought. A Lecce e provincia la tradizione trova la sua ratio nella convenienza delle èlite locali ad appropriarsi della gran parte delle risorse derivanti in primis dai flussi turistici – si pensi, a titolo esemplificativo, agli alberghi, alla ristorazione, ai bed and breakfast creati nel centro storico da parte di famiglie borghesi del capoluogo – che, però, vengono generati e preservati anche con il lavoro regolare di un ampio esercito di riserva costituito da giovani disponibili a offrire i loro servizi negli stabilimenti balneari, spesso in modo totalmente irregolare. L’operazione consiste nel trasmettere l’idea estetizzante e ovattata dell’unicità del luogo (idea che non sembra avere un riscontro fattuale) in termini di tradizione storica e di bellezze naturali e di prodotti artigianali e della cucina locale. Un dato essenziale, su questa questione, riguarda la circostanza che il turismo locale non è legato (come, del resto, non lo è il terziario) a processi di industrializzazione (v. infra, par.4). Non si tratta, dunque, di una domanda di lavoro aggiuntiva. L’ampia disponibilità in loco di forza-lavoro giovane dipende dall’elevata disoccupazione, a sua volta causata da una bassa domanda (sia interna, sia estera), molto dipendente dal sostanziale venir meno degli sbocchi occupazionali del pubblico impiego [5].

A Lecce e provincia, il tasso di disoccupazione per la fascia d’età 15-64 anni si attesta al 10,7 per cento per gli uomini e al 16,5 per cento per le donne, traducendosi in una media provinciale del 13,1 per cento.

Se invece prediamo a riferimento la fascia d’età 25-34 anni, il tasso di disoccupazione si attesta al 16,5 per cento per gli uomini e al 29,5 per cento per le donne, traducendosi in una media provinciale del 22,1 per cento (valori medi riferiti all’anno 2022).

La tradizione salentina è stata prodotta da una straordinaria operazione di marketing che si è realizzata nella seconda metà degli anni Novanta, favorita da un’eccezionale sinergia istituzionale fra Comune e Provincia di Lecce.

4 – Le criticità del turismo nel Salento

Quasi tutti i Paesi industrializzati – con alcune eccezioni (Germania e Cina, in primo luogo) – stanno vivendo una fase di de-industrializzazione. Non è, dunque, una sorpresa il fatto che le aree periferiche dello sviluppo globale vivano una stagione di aumento dell’incidenza dei servizi sul Pil: e il turismo è uno dei servizi più diffusi, se non altro per le crescenti diseguaglianze distributive che caratterizzano questa fase storica nei Paesi OCSE.

Negli ultimi venti anni, la Puglia – e ancora più il Salento – ha accresciuto la sua dipendenza dal settore turistico più del resto del Paese: l’incidenza del turismo nella regione, nel periodo compreso fra il 1995 e il 2017, è raddoppiata, raggiungendo il 4.2 per cento, a fronte di ciò che è accaduto nel resto d’Italia, dove la crescita del settore è stata di due terzi più bassa. Su fonte Unioncamere, l’offerta turistica della regione Puglia è caratterizzata da una base imprenditoriale che conta 35.501 imprese registrate al IV trimestre 2021; valore pari al 5,6 per cento della filiera turistica nazionale e che conferma l’incidenza rispetto agli anni passati. In termini di addetti il settore turistico regionale conta poco più di 142 mila unità, pari al 5,4 per cento del totale nazionale. Ciò nonostante, per numerosità di presenze, la nostra regione non è fra le prime in Italia, superata di gran lunga da destinazioni storiche, rispetto alle quali vi è ampia distanza (per esempio, la riviera romagnola).

La crescita del settore turistico è avvenuta di pari passo con la riduzione dell’incidenza dell’industria manifatturiera nella regione, che comunque resta la regione più industrializzata del Mezzogiorno e con l’aumento delle diseguaglianze della distribuzione del reddito. Nel periodo considerato, la quota di valore aggiunto dell’industria manifatturiera si è ridotta del 2 per cento circa (in linea con la tendenza nazionale), raggiungendo il 10.2 per cento. Il valore aggiunto, in particolare, è diminuito nei settori del tessile, dell’abbigliamento, della metallurgia – quest’ultima per effetto della crisi dell’Ilva – della fabbricazione di materie plastiche e dei mobili. Si è registrata la tenuta del settore alimentare. Il turismo contribuisce ad accrescere le diseguaglianze distributive – molto accentuate in Puglia e nel Salento e più elevate rispetto al Nord – soprattutto per il tramite della gestione dei flussi in arrivo da parte di B&B, di proprietari di strutture di accoglienza, di svago e di ristorazione di proprietà di famiglie ricche, che di turismo si arricchiscono.

In un recente convegno internazionale, Colacchio et al. (2023) hanno presentato i risultati preliminari di una ricerca che si focalizza sul nesso fra turismo e sviluppo locale nella provincia di Lecce, prendendo in considerazione, a livello comunale (91 comuni della provincia), i dati (su fonte Istat ed elaborati dall’Osservatorio Economico Aforisma) relativi al PIL procapite, agli arrivi e alle presenze turistiche, su un periodo di tempo che va dal 2011 al 2021. La metodologia utilizzata dagli autori è un Panel Var, che è una combinazione di un’analisi panel dinamica con un modello autoregressivo vettoriale, sulle linee di quanto fatto – con riferimento però all’intero Paese e ad alcuni cluster subnazionali — da Colacchio e Vergori (2022, 2023). Le principali conclusioni dell’analisi di Colacchio et al. (2023) si possono riassumere nell’evidenza che per la provincia di Lecce sembrerebbe essere confermata la cosiddetta Economic-Driven Tourism Growth (EDTG) ipotesi, che prevede la presenza di un nesso di causalità unidirezionale che va dal tasso di crescita del PIL all’espansione del settore turistico, mentre gli autori non hanno trovato alcuna evidenza dell’esistenza di un nesso di causalità opposto, che vada cioè dall’espansione del settore turistico alla crescita economica tout court (quest’ultimo nesso di causalità è conosciuto in letteratura come la Tourism-Led Economic Growth —  TLEG — ipotesi). In particolare, gli autori hanno trovato delle stime significative – positive e di magnitudine rilevante – soltanto per i parametri che legano i passati valori del tasso di crescita del PIL pro-capite ai valori correnti dei tassi di crescita degli arrivi e delle presenze turistiche, risultanza che implica che un aumento del PIL pro-capite sembra essere una precondizione, per i comuni della provincia di Lecce, per un’espansione del settore turistico. Al contrario, come dicevamo, stando alle stime trovate dagli autori, variazioni nella crescita del settore turistico non paiono influenzare in alcun modo i futuri valore del tasso di crescita del PIL pro-capite[6].

Tra le possibili spiegazioni di questi risultati, ci limitiamo ed elencare i seguenti punti:

1) In presenza di un marcato processo di deindustrializzazione, la specializzazione nel settore turistico – che è un settore ancora notoriamente caratterizzato da una bassa produttività del lavoro e che soffre inoltre di un’elevata stagionalità – può provocare una diminuzione della domanda di skilled labor, accentuando i flussi migratori di forza lavoro maggiormente specializzata e quindi riducendo in generale la produttività del lavoro. Nel confronto fra la dinamica del valore aggiunto per unità di lavoro fra settori produttivi emerge che la produttività del lavoro nel turismo pugliese è sostanzialmente stagnante e che è notevolmente più bassa di quella del settore manifatturiero. In più, la differenza fra gli andamenti del valore aggiunto per lavoratore nei due settori è crescente negli anni.

2) Legato a quanto detto sopra, la crescita continua che si è registrata nel settore turistico negli ultimi 15 anni può aver provocato una sorta di Dutch Disease, con un trasferimento di fattori produttivi da settori a più alta produttività del lavoro verso l’offerta di servizi turistici, caratterizzati da una produttività del lavoro, come abbiamo detto, più contenuta. Queste dinamiche sono state accentuate dalla stagnazione economica — a partire almeno dal 2009 – che ha visto il settore turistico giocare il ruolo di “cuscinetto” per il reimpiego di lavoratori espulsi dal settore primario e secondario dell’economia (cfr. Colacchio e Vergori, 2022). Ad esempio, nella provincia di Lecce questo è avvenuto anche come conseguenza dell’espulsione dei contadini dalla terra devastata dalla Xylella (una sorta di accumulazione originaria turistica)[7] nella conduzione di lidi balneari e di ristorazione con bassa qualità dell’offerta.

3) La crescita dell’incidenza di flussi turistici non registrati — nella forma di case e appartamenti non censiti dagli enti di controllo —  con il connesso aumento dell’occupazione irregolare, delle attività sommerse e del lavoro nero,  ecc. — fenomeni questi che hanno accompagnato l’espansione del settore turistico – ha sicuramente contribuito ad impedire lo sviluppo di un’offerta di servizi a più alto valore aggiunto, contribuendo quindi ad abbassare ulteriormente la produttività del lavoro nel settore turistico 

Conviene inoltre aggiungere che è stato statisticamente rilevato che gli afflussi turistici in loco costituiscono un afflusso di liquidità di breve periodo e stagionale e creano una forte dipendenza dai mercati esteri o nazionali. Ciò sia con riferimento alla volatilità dei redditi dei potenziali turisti, sia con riferimento alla mutevolezza delle preferenze. Inoltre, espongono Lecce e provincia a una forte concorrenza con altri paesi periferici, con particolare riguardo (negli anni più recenti) a Grecia e Albania. In più, si tratta prevalentemente di un turismo povero, che solo in rare occasioni intercetta visitatori con redditi elevati. Nella provincia di Lecce, al 2022, esistono solo 12 strutture alberghiere a 5 stelle (su un totale di 3.122 hotel), con complessivi 706 posti, a fronte di 137 alberghi a 3 stelle e di ben 10.021 stanze per questa fascia.

Uno dei canali attraverso i quali è la crescita economica un prius rispetto all’attrazione dei turisti è il potenziamento del sistema dei trasporti. Ciò per la ovvia considerazione per la quale un sistema di trasporti efficiente consente maggiore mobilità e, coeteris paribus, incentivano gli arrivi. I territori più ricchi – o su un sentiero di modernizzazione – sono quelli nei quali la logistica funziona meglio. In più, maggiore crescita implica maggiore attrattività del territorio, soprattutto sotto forma di esercizi commerciali, di ristorazione e lidi con elevata qualità dell’offerta.

Le indicazioni di policy riguardano due tipologie di intervento. In primo luogo, occorrerebbe incentivare la nascita sul territorio di una più robusta struttura industriale, dal momento che – pur in una fase mondiale di de-industrializzazione – si conferma empiricamente vero che è l’industria il motore della crescita. In secondo luogo, occorre incentivare l’assunzione di personale qualificato e i corsi di formazione: le strategie delle imprese esistenti sono per lo più focalizzate sul risparmio dei costi e su una politica di prezzo predatoria (l’aumento anche notevole dei prezzi non sconta la riduzione della domanda futura), con pochissimi investimenti sulla formazione dei dipendenti.

Fig. 3. – Arrivi nella provincia di Lecce, 2011-2021
Fig. 4. – Presenze nella provincia di Lecce, 2011-2021

4.1 – Si può evidenziare un ulteriore problema, che attiene al nanismo imprenditoriale dell’economia salentina e del settore turistico in generale. Su fonte Puglia Promozione (2022) e Provincia di Lecce (2022), si registra che nella provincia di Lecce esistono 339 esercizi alberghieri per complessivi 37.563 posti letto, 29 campeggi e villaggi turistici, 301 agriturismi, 812 alloggi in affitto gestiti in forma imprenditoriale; 1.628 Bed & Breakfast, 13 strutture classificate come altri servizi ricettivi. La consistenza del comparto alberghiero nella provincia di Lecce manifesta la presenza maggioritaria degli alberghi a 3 stelle (137), seguita dagli alberghi a 4 stelle (129), residenze turistico-alberghiere (37), alberghi a 2 stelle (20), a 1 stella (4) e solo 12 alberghi a 5 stelle e 5 stelle lusso. Appare importante superare l’individualismo imprenditoriale, fonte di generalizzate diseconomie, e cercare ogni utile sinergia nel comparto turistico sviluppando il sistema delle Reti d’Imprese. È una questione nota in letteratura quella per la quale al crescere delle dimensioni aziendali, per l’operare di economie di scala, i costi unitari decrescono. A tal fine, si ricorda l’esistenza di buone prassi che rinviano alle reti d’impresa. L’importanza di questo strumento giuridico-economico può essere desunta da alcuni dati – su fonte Osservatorio Nazionale Reti d’Impresa del 2020: 36.326 imprese impegnate in 6.211 contratti di rete, mentre la distribuzione geografica-regionale delle imprese in rete vede il Lazio essere la regione con il più alto numero di imprese in rete (9.202), seguita da Lombardia (3.704), Veneto (2.868), Campania (2.719), Toscana (2.472), Emilia Romagna (2.239) e Puglia (2.122), osservando che con riguardo alla distribuzione settoriale delle imprese in rete il comparto turistico è al 9 per cento, preceduto da quello agroalimentare  (22,3 per cento), commercio (15 per cento) e da quello inerente al settore delle costruzioni (11,1 per cento).

Considerazioni conclusive

In questo articolo è stato trattato il cambiamento strutturale dell’economia della provincia di Lecce negli ultimi decenni e le criticità del settore turistico. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, si è messo in evidenza che il turismo non genera crescita e che è semmai lo sviluppo locale a essere un prius rispetto all’aumento degli afflussi. Il settore è anche caratterizzato da stagionalità e retribuzioni molto basse. Il passaggio dalla produzione di tabacco alla monocultura dell’olio al turismo conferma, tuttavia, per questa area la scarsa propensione all’accumulazione di capitale e il suo essere zona periferica nell’ambito dello sviluppo capitalistico globale.

Riferimenti bibliografici

Aimone Gigio, L, et. Al. (2022), N. 677 – Il personale degli enti territoriali. Il Mezzogiorno nel confronto con il Centro Nord, Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza.

Colacchio, G., Suppa, D. e Forges Davanzati, G. (2023), Cumulative circular causation and Italy’s north-south divide: an empirical analysis of Salento’s economic specialization, paper presentato alla STOREP 2023 Annual Conference, Bari, June 15-17.

Colacchio, G. e Vergori, S. (2022). GDP growth rate, tourism expansion and labor market dynamics: Applied research focused on the Italian economy, National Accounting Review, 4 (3), pp.310-328.

Colacchio, G. e Vergori, S. (2023). Tourism Development and Italian Economic Growth: The Weight of the Regional Economies, “Journal of Risk and Financial Management”, 16: 245.

Conelli, C (2023). Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno. Tamu edizioni.

Cristante, S. a cura di (2008). Enciclopedia di Smallville. Lecce: descrizione di una campagna elettorale, Salento books.

Forges Davanzati, G. (2006). Ethical codes and income distribution: A study of John Bates and Thorstein Veblen. London-New York: Routledge.

Hobsbawm, E., Ranger, T. (1985). Invention of Tradition, Cambridge University Press.

Ragosta, M. (2013). Capire l’economia della provincia di Lecce, Salento d’Esportazione.

Scorca, L. e Armenise (2020). Il Mezzogiorno tra turismo e manufatturiero, “Etica economica”, 17 settembre 2020.


N.B.: Sebbene frutto di un lavoro congiunto, questo testo è stato elaborato da Guglielmo Forges Davanzati per il paragrafo 1, da Davide Stasi per il paragrafo 2, da Gianmarco Igino Scardino per il paragrafo 3, da Giorgio Colacchio per il paragrafo 4, da Luigino Sergio per la sezione sulle reti d’impresa e da Domenico Suppa per le conclusioni. Gli autori desiderano ringraziare i discussant del convegno annuale 2023 STOREP di Bari e Maddalena Mongiò per la revisione del testo.

[1] Per una trattazione più estesa, riferita alla regione Puglia, si rinvia a Scorca e Armenise (2020).

[2] La classe agiata locale è qui identificata con i percettori di rendita: proprietari terrieri, costruttori, ereditieri. Ciò sia in linea con Veblen (coloro che hanno il “taboo on labor” e che ostentano consumi di lusso), sia in linea con il contesto locale, nel quale è sostanzialmente assente una struttura industriale autoctona ed è del tutto assente il sistema finanziario. Un’analisi sociologica della città di Lecce è contenuta in Cristante et al. (2010).

[3] L’Osservatorio Economico Aforisma ha recentemente diffuso i dati sull’andamento della bilancia commerciale che risulta negativa per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani, Brindisi e Taranto. Positiva, invece, solo per quelle di Lecce e Foggia. Da gennaio a marzo di quest’anno, in Puglia, sono stati importati beni per un valore complessivo di 2.914 milioni di euro, mentre sono stati esportati per un valore di 2.486 milioni di euro. La bilancia commerciale regionale resta ancora negativa per 428 milioni di euro. La lieve crescita delle vendite oltre confine della Puglia continua ad essere sopravanzata dagli acquisti di carbone e prodotti alimentari. Diminuiscono, intanto, le importazioni per effetto dell’inflazione elevata e del clima di incertezza che influenzano i consumi dei pugliesi. Dopo i 3.043 milioni di euro di prodotti importati nel primo trimestre del 2022, nei primi tre mesi di quest’anno le importazioni si sono fermate a 2.914 milioni di euro. Le esportazioni, invece, sono rimaste quasi invariate: dai 2.453 milioni di euro del primo trimestre 2022 ai 2.486 di quest’anno. L’Italia meridionale ha un bilancio positivo 624 milioni di euro, come differenza tra gli 11.085 milioni di euro di esportazioni e i 10.461 milioni di euro di importazioni.

[4] Il principale fattore che traina le divergenze è costituito dalle migrazioni, in particolare, intellettuali (v. Almalaurea 2023). Con particolare riferimento al Salento, le emigrazioni intellettuali sono anche trainate da una variabile che attiene alla reputazione percepita delle sedi universitarie. Sul tema, si rinvia a https://www.roars.it/la-fuga-dal-sud-verso-le-universita-di-eccellenza/.

[5] Ci si riferisce al blocco del turnover, stabilito nel 2012, e alla notevole riduzione dei posti disponibili nel settore pubblico, che resta – nel Mezzogiorno – il più sottodimensionato d’Europa (con la sola eccezione della Calabria) e quello nel quale i lavoratori dipendenti hanno il più basso titolo di studio. cfr. Aimone Gigio et al. 2022).

[6] Può essere interessante notare che Colacchio e Vergori (2022) giungono ad una conclusione simile, con riferimento però all’intera Italia per il periodo 1999-2019, mentre in Colacchio e Vergori (2023) – ove gli autori procedono ad una clusterizzazione dei dati su base regionale, individuando 5 cluster – la EDTG ipotesi è confermata solo per il cluster che include le regioni italiane “più ricche” e solo per il sottoperiodo 2009-2019. È interessante notare che per il cluster che include tutte le regioni del Sud, gli autori non trovano alcuna validazione né della EDTG né tantomeno della TLG ipotesi (si sarebbe quindi in presenza, per l’intero Sud, di quella che viene comunemente definita in letteratura neutrality hypothesis). Questo punto sicuramente merita una più approfondita disamina, implicando che la provincia di Lecce presenta delle peculiarità – per quanto riguarda il nesso tra turismo e crescita economica – rispetto al resto del meridione.    

[7] È convenzionalmente fissato al 2013 l’arrivo di Xylella in Puglia ed è tempo, a dieci anni di distanza, per tracciare un bilancio. Va innanzitutto ricordato che, in quel periodo, la produzione locale di olio era in calo, a seguito dell’ingresso nel mercato mondiale dei produttori africani e della concorrenza esercitata da questi. Nel 2011 si producevano 542.000 tonnellate di olio d’oliva ogni anno in Italia, a fronte di un volume di 506.000 tonnellate nel 2012 e di 462.000 nel 2013, per poi ridursi ulteriormente. La Puglia produceva, in quegli anni, il 37 per cento della produzione nazionale e l’85 per cento della produzione nazionale era interamente generata nel Mezzogiorno. Si osservava un ridimensionamento del comparto in quel periodo, con una contrazione – pre-Xylella – di 9 quintali per ettaro. Xylella combinata con la siccità e l’aumento dei costi delle materie prime ha contribuito al crollo della produzione nell’ultimo anno. Sul tema si è ampiamente dibattuto e la posizione dominante (che si somma a quelle del complotto, ampiamente diffuse purtroppo dalle nostre parti) fa propria la convinzione che si tratti di una vera e propria sciagura, considerando la perdita di produzione agricola che ne è seguita e la devastazione del paesaggio. È poi ampiamente condivisibile la tesi di molti agronomi, per la quale Xylella si è abbattuta su un’agricoltura caratterizzata da forte incuria per gli alberi e per il territorio. A ben vedere, si può sostenere una posizione apparentemente provocatoria, secondo la quale – come per tutte le crisi, del resto – anche quella dell’agricoltura pugliese è da considerarsi un’opportunità. L’ulivo secolare, da tempo, svolgeva sempre più la funzione di valorizzazione del paesaggio, più per fini turistici che realmente produttivi. Xylella era ed è da leggere come opportunità per due ragioni. In primo luogo, la produzione di ulivo, per molti decenni, è stata una monocultura locale, con tutti i problemi che la scommessa su una sola produzione può dare, in primis l’elevato rischio connesso alla modifica della domanda internazionale. In secondo luogo, l’esistenza di un’ampia dotazione di uliveti da coltivare ha tenuto per molti anni queste terre in condizioni di povertà, favorendo una distribuzione del reddito fortemente sperequata a favore della rendita fondiaria. Una forte vocazione agricola tiene, infatti, bassi i margini di profitto e, soprattutto, connota un assetto sociale basato sul parassitismo dei proprietari o sulla piccola proprietà fondiaria. A ciò si aggiunge che le condizioni di vita dei contadini pugliesi sono state sempre ai limiti della sussistenza con profonda e diffusa violazione dei diritti, impedendo, di fatto, lo sviluppo di una forma mentis moderna, orientata alla crescita della produttività e all’innovazione nei settori trainanti dello sviluppo capitalistico, tipicamente l’industria e la finanza. La crisi Xylella avrebbe obbligato – e tuttora obbliga – a una riconversione produttiva. Sperabilmente superando la vocazione esclusivamente o prevalentemente agricola del Salento e del resto della Puglia. È ben noto infatti che, negli ultimi decenni, l’incidenza dell’agricoltura sul Pil, nelle economie mature, si è drasticamente ridotta, soprattutto a seguito della rimozione delle barriere tariffarie e non tariffarie. Ed è ben noto che, negli scambi internazionali, una forte specializzazione agricola danneggia chi la persegue. Ciò per un meccanismo che si chiama lo scambio ineguale. Le periferie dello sviluppo capitalistico, infatti, sono normalmente caratterizzate (come lo era la Puglia pre-2013) da vocazione all’agricoltura con appezzamenti di terra molto piccoli, ad alta intensità di lavoro e a bassissimo contenuto innovativo. Si registra anche il problema del ricambio generazionale, laddove i giovani tendono a non accettare lavori faticosi nelle campagne. Lo scambio internazionale prevede l’acquisto, in quei territori, di prodotti manufatti, costruiti in forme di mercato oligopolistiche, dunque con prezzi di vendita elevati e l’esportazione di beni (tipicamente quelli agricoli e, nel nostro caso, olio, da tavola o da lampada, come accadeva nell’Ottocento) agricoli, derivanti da mercati prossimi alla concorrenza, dunque con prezzi di vendita molto bassi. In più, i bassi salari in agricoltura si traducono anche in prezzi relativi bassi, dal momento che i beni importati sono prodotti in condizioni di più elevata sindacalizzazione dei lavoratori e, dunque, in salari più alti nelle aree centrali. Dunque, il commercio internazionale impoverisce i Paesi con produzioni tradizionali e, in questa lettura, ha contribuito a mantenere relativamente poveri il Salento rispetto ad altre opzioni possibili. Ciò appunto per un meccanismo che prevede l’importazione di beni industriali a prezzi elevati e le esportazioni di olio e prodotti agricoli a prezzi bassi.

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