Con la conversione del D.L. 133/2014, “Sblocca Italia”, entro pochi mesi dovrebbe essere adottato il Piano nazionale della portualità e della logistica che, almeno per ora, sarà l’unico risultato concreto del dibattito per un generale riassetto nella governance dei porti italiani. Riforma invocata da più parti e da diversi anni, che rischia ancora una volta di arenarsi sugli scogli dei veti incrociati, delle rendite di posizione, delle logiche spartitorie ma soprattutto, secondo alcuni osservatori indipendenti, su un’errata visione del ruolo dell’economia portuale italiana: non solo il sistema portuale italiano si caratterizza per la sua frammentazione organizzativa e operativa nel complesso quadro globale dell’economia del trasporto marittimo e della logistica, ma in questo stesso quadro tenta di rincorrere i propri concorrenti sul mercato più saturo, quello del container.
La storia recente della portualità italiana ha il suo punto di svolta nella riforma portuale introdotta con la legge 84 del 1994. Con quel provvedimento la gestione degli spazi demaniali, che fino a quel momento rispondeva a un modello organizzativo di tipo “public service” governato da Enti e Consorzi autonomi, veniva affidata a 24 Autorità Portuali (AP), enti pubblici con funzioni di indirizzo e controllo, teoricamente separate da quelle operative da affidare a soggetti privati. La riforma avveniva in un momento di grandi cambiamenti nel mercato mondiale dello shipping, e provava appunto a rispondere all’esigenza di integrare la portualità italiana nel contesto di progressiva globalizzazione dei mercati, soprattutto attraverso concessioni di lungo termine delle banchine nella tipologia di traffico maggiormente in crescita, quella delle portacontainer. Nel giro di pochi anni ad aggiudicarsi la gestione dei terminal container italiani erano i grandi gruppi stranieri appartenenti alle maggiori compagnie terminaliste o marittime mondiali, mentre dal lato del lavoro si riusciva quasi ovunque a erodere le conquiste sindacali precedenti, trasformando le Compagnie portuali da soggetti pubblici a società di diritto privato e deregolamentando un settore nel quale tutele e sicurezza dei lavoratori dovrebbero essere aspetti imprescindibili.
Le regole della 84/94 non hanno impedito che le AP finissero per fare ognuna storia a sé, sia per quanto riguarda gli agreement sulle concessioni di spazi e l’uso di infrastrutture ai privati – terminalisti, caricatori, spedizionieri, autotrasportatori, operatori della logistica e del terziario marittimo, etc.. –, sia sotto il profilo strategico, che manca completamente nell’individuare gli obiettivi di sistema e cogliere le opportunità di specializzazioni e professionalità che pure non mancherebbero. Le AP italiane – le cui dirigenze sono frutto di una concertazione tra organi politici locali e nazionali, e che vedono rappresentate nei propri organi decisionali (Comitati portuali) anche le rappresentanze dei concessionari privati e quelle sindacali – sono spesso sottoposte a pressioni particolaristiche che agiscono in funzione di rendite di posizione difficilmente contestabili. Uno scenario dal quale è difficile aspettarsi l’emergere di una visione strategica innovativa e globale.
L’interscambio commerciale marittimo dell’Italia nel 2013 era di 230 miliardi di euro. La strategicità del porti relativa a questo dato è maggiormente intuibile osservando i dati relativi alle esportazioni. Un recente studio[1] sottolinea che il settore portuale rappresenta “il principale partner distributivo e di posizionamento della manifattura del Paese”, detenendo nel 2012 il 55% sul totale dell’export italiano extra-UE e il 30% sul totale dell’export italiano mondiale. Oltre a ciò lo studio suggerisce che va considerata anche una percentuale tra il 65 e l’80% sul totale dell’export solo verso USA, Brasile, India e Cina. Dati importanti ma tutto sommato non sorprendenti per un paese che, per storia, cultura e collocazione geografica, ha un rapporto molto stretto con una risorsa come il mare ma che, nell’odierna e complessa economia dei trasporti globali, non può contare su posizioni strategiche tali da configurare naturalmente un vantaggio competitivo.
Su un piano globale, negli stessi anni in cui veniva varata la riforma portuale del 1994, si verificava anche lo spostamento di quote consistenti di traffico dalla Northern Atlantic trade lane alla Pacific trade lane, ovvero l’aumento vertiginoso dei traffici sulla rotta Far East-Europa. Sbilanciamento che, nel periodo cosiddetto del super-cycle (2002–2007), comportava per il Mediterraneo attraversato dalla rotta di Suez una nuova centralità nei traffici marittimi europei e globali. Dal 2000 al 2013 questo significava un +105% di traffici, e una modesta crescita anche negli ultimi anni, malgrado la crisi, da +15% nel 2005 a +19% nel 2013 (dati SRM, Panaro).
Alla radice del super-cycle vi era, oltre all’aumento della domanda da nord America ed Europa dalla Cina, un elemento tecnico di primaria importanza: la nave portacontainer. La cantieristica navale veniva infatti investita da una valanga di ordinativi da parte delle compagnie di navigazione impegnate in una rincorsa a costruire navi sempre più capaci e veloci di quelle dei concorrenti. Il fenomeno del gigantismo navale si giustificava con le economie di scala e produceva un abbassamento costante e importante dei costi di spedizione della merce via container. Nell’arco di appena quindici anni la capacità di carico delle portacontainer transoceaniche era pressoché raddoppiata, passando da navi capaci di trasportare circa 8.000 TEU[2], agli attuali 18.000. Il gigantismo avrebbe però anche prodotto distorsioni notevoli nel rapporto tra domanda e offerta, soprattutto nel momento in cui i consumi sarebbero crollati per effetto della crisi, oltre ad avere implicazioni di carattere finanziario notevoli considerando i costi di costruzione di una nave[3]. Ciò che ci interessa maggiormente è che non tutti i porti sarebbero stati in grado di consentire operazioni di ormeggio, di carico e di scarico a navi di queste dimensioni. E che anche quando lo fossero stati, avrebbero dovuto fronteggiare problemi di congestione, logistici e distributivi a volte irrisolvibili.
I porti italiani movimentano circa 10 milioni di TEU/anno, ovvero quanto il solo porto olandese di Rotterdam, primo scalo europeo. Un quarto di questi sono trasbordi, contenitori sbarcati da una grande portacontainer in un porto cosiddetto hub per essere subito reimbarcati su una nave più piccola, detta feeder e inviati ad altre destinazioni. Il rapporto tra il fatturato di un container in transito e uno lavorato è quasi 1 a 8[4]. Ai fini statistici il container viene conteggiato due volte, e molto spesso il trasbordo configura un’operazione estero su estero, elemento quest’ultimo che ha tratto spesso in inganno, facendo illudere molti sulla reale consistenza e potenzialità del settore in questo paese.
Un porto la cui quota di trasbordi superi il 50% del totale movimentato è detto di transhipment. Nella classifica mondiale dei primi cento porti per traffico container relativa a dati del 2011, troviamo solo tre porti italiani: Gioia Tauro (53°), Genova (70°) e La Spezia (87°). Gioia Tauro con il 97% di trasbordi è un porto di transhipment puro e sta scontando negli ultimi anni la rapida ascesa dei porti della sponda meridionale del Mediterraneo, a dimostrazione del fatto che, nel contesto globale di questo mercato, non esistono collocazioni geografiche privilegiate e rendite sicure. La percentuale di trasbordi a Genova, si aggira intorno al 15%, lo scalo pertanto si configura come porto gateway che, a differenza di Gioia Tauro, alle spalle ha un hinterland reale che abbraccia un mercato potenziale formato da pianura padana, sudest della Francia, Svizzera e sud della Germania. Il problema però, lasciando da parte la questione dei fondali non sufficientemente profondi, sta in ciò che manca o è inadeguato alle spalle del primo porto italiano in termini di collegamenti ferroviari, strutture, operatori e sistemi logistici. Tale situazione, generalizzata pressoché in tutti i porti italiani, implica che sarebbero quasi 500.000 i TEU – quanto il totale di quelli movimentati in un solo anno dal porto di Napoli – con origine o destinazione l’Italia che, anziché approdare nei porti del Paese, passerebbero attraverso quelli del nord Europa[5]. Tali carenze, che appunto accomunano la maggior parte degli scali italiani, sono un limite che determina l’impossibilità a incrementare le quote di traffico, ma molti osservatori notano anche che l’Italia non ha, e probabilmente non avrà mai, una domanda sufficiente per attirare servizi di linea regolari, stabili e bilanciati con grandi navi portacontainer[6].
Eppure l’impressione è che questa tipologia di trasporto sia l’unica presa seriamente in considerazione ogni qualvolta si apre la discussione sulla necessità di riformare in termini di sistema la portualità italiana e, soprattutto, al momento di discutere di investimenti in infrastrutture. Scorrendo un recente studio sulla programmazione infrastrutturale dei porti italiani[7] una delle voci più ricorrenti riguarda dragaggi ed escavazioni destinati, guarda caso, ad accogliere portacontainer medio-grandi, fino ad arrivare a progetti faraonici come quello dell’AP di Venezia, porto che notoriamente è penalizzato da fondali bassissimi, che intenderebbe costruire un megaterminal off-shore che, in fase di progettazione della sola infrastruttura, costerebbe circa 2,5 miliardi di euro.
È evidente che di fronte a questo scenario, quale che sia il giudizio sul governo in carica, l’annunciata riforma dei porti rischia di non partorire nemmeno il classico topolino. Molto poco si sa infatti del Piano nazionale della portualità e della logistica previsto nello Sblocca Italia, salvo che lo stesso dovrebbe agire su due leve: sul lato della governance riducendo da 24 a 15 le Autorità Portuali esistenti, da quello degli investimenti intervenendo sull’attuale meccanismo di finanziamenti a pioggia alle AP, per individuare invece alcune opere infrastrutturali “più urgenti per migliorare la competitività del sistema portuale e logistico e agevolare la crescita dei traffici”. Sul primo aspetto è noto che la riduzione del numero delle AP è già stata cassata dai veti incrociati e persino interni alla principale forza politica del governo. Sul secondo c’è da augurarsi che l’individuazione delle priorità sia capace, come non è stata finora, di non arrendersi alla monocultura del container, tentando invece di individuare competenze e specializzazioni che in questo settore non mancherebbero.
*Dottorato Università della Calabria