Alcuni fatti e un po’ di storia
È da alcuni decenni ormai che molti settori dell’economia sono caratterizzati da intense dinamiche aggregative: le piccole imprese si uniscono per crearne nuove, di dimensioni sempre maggiori, mentre le grandi imprese si espandono ulteriormente acquistandone altre. I frutti di queste fusioni e acquisizioni hanno raggiunto dimensioni tali che anche il settimanale britannico The Economist, di orientamento esplicitamente liberale, ha dedicato alle imprese giganti un inserto speciale manifestando alcune perplessità sul loro ruolo all’interno del sistema economico [1]. Uno dei dati più impressionanti riportati dal settimanale mostra che le cento più grandi compagnie americane producevano “solo” il 33% del PIL nominale nel 1994 mentre nel 2013 sono arrivate a produrne il 46%. In altri termini, nel 2013 quasi la metà del valore della produzione americana era prodotto dalle cento imprese americane con ricavi più elevati. Questo significa che settori sempre più ampi dell’economia americana sono controllati da un numero ristretto di grandi imprese. Nemmeno l’economia digitale, che sta lentamente sostituendo la classica produzione industriale, è al riparo da questi sviluppi. Questo settore relativamente nuovo dell’economia è già dominato da colossi come Amazon, Facebook, e Google, impegnati regolarmente nella conquista di società più piccole che detengono innovazioni di successo. Un esempio fra tutti è l’acquisizione di Instagram e Whatsapp da parte di Facebook per un miliardo e diciannove miliardi di dollari rispettivamente.
Casi concreti di tali fenomeni non mancano nemmeno in Italia. Nel settore dell’editoria, per esempio, abbiamo assistito l’anno scorso a due grandi acquisizioni: dalla cessione di RCS Libri a Mondadori è nata “Mondazzoli”, che controllerà quasi il 40% della quota del mercato librario; i quotidiani la Stampa e il Secolo XIX sono invece confluiti nel Gruppo Editoriale L’Espresso, che arriverà così a gestire circa il 20% del mercato della stampa cartacea. Nel settore bancario, inoltre, possiamo già osservare i risultati delle fusioni avvenute negli ultimi vent’anni. Unicredit e Intesa San Paolo, le due principali banche italiane attive a livello europeo e mondiale, sono infatti nate dall’unione di banche locali nel 1998 e nel 2007 rispettivamente. Più recentemente, la riforma del credito cooperativo voluta dal governo Renzi ha rilanciato le unioni in questo settore, obbligando gli istituti di credito cooperativo a confluire in grandi gruppi bancari.
Il ruolo delle grandi imprese come protagoniste della scena economica nei paesi occidentali non è una novità se osserviamo con attenzione gli sviluppi economici nello scorso secolo. L’inizio del Novecento, un periodo storico per certi aspetti simile a quello attuale, aveva già visto il loro affermarsi in America. Ad esempio, la Standard Oil all’apice della sua espansione, prima di essere separata in trentaquattro piccole società dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, gestiva il 91% della produzione di petrolio statunitense. La storica economica Naomi Lamoreaux, in una delle sue ricerche, mostra che l’ondata di fusioni d’imprese americane a cavallo tra il XIX secolo e il XX secolo avevano dato vita a oligopolisti come la General Electric e l’American Tobacco Company che controllavano oltre il 90% dei rispettivi mercati [2]. È molto interessante sottolineare che le fusioni e le acquisizioni di quegli anni furono precedute da un periodo d’intensa competizione perché lo sviluppo dei trasporti ferroviari e del commercio internazionale aveva messo in comunicazione mercati che prima erano separati geograficamente.
Problemi economici
Tutte queste dinamiche aggregative, tuttavia, non sono solo il frutto di scelte imprenditoriali volte a consolidare le posizioni aziendali nel medio-lungo termine, ma affondano le loro radici anche nei modelli analitici dell’economia industriale. A livello teorico, infatti, molte ricerche mostrano che le imprese di dimensioni maggiori sono più efficienti di quelle piccole e medie in quanto possono ridurre i costi medi unitari aumentando la produzione (economie di scala), producendo congiuntamente diversi prodotti (economie di scopo), oppure controllando un maggior numero di processi intermedi necessari alla realizzazione del prodotto finito (integrazione verticale). Inoltre, alcuni studi nel settore finanziario illustrano come le grandi banche nazionali siano in grado di gestire i rischi in maniera più efficiente rispetto a quelle locali. In quest’ottica, i vantaggi provenienti dalla maggiore efficienza produttiva dovrebbero poi raggiungere i consumatori sotto forma di prezzi più bassi, ma la realtà potrebbe essere ben diversa. Purtroppo si tende spesso a dimenticare che le grandi imprese possono acquisire delle posizioni dominanti che permettono loro di aumentare i prezzi, ad esempio restringendo l’offerta di prodotti, al fine di massimizzare i loro profitti. Su questo punto, però, le opinioni degli economisti non sono unanimi e le conferme empiriche sono ben lontane dall’essere conclusive. Per esempio, Harold Demsetz, esponente della Scuola di Chicago, ritiene che i profitti più elevati ottenuti nelle situazioni di oligopolio, caratterizzate dalla presenza di poche e grandi imprese, non siano conseguenza dell’esercizio del potere di mercato, ma che derivino piuttosto dalla maggiore efficienza produttiva [3]. Diversamente, lo storico economico Anthony O’Brien, in un articolo del 1988 in cui studia le fusioni e acquisizioni avvenute alla fine del XIX secolo, argomenta abilmente che questi processi aggregativi trovano spesso la loro raison d’être nel desiderio di ridurre la competizione di prezzo piuttosto che in quello di sfruttare le economie di scala generate dalle maggiori dimensioni [4].
In ogni caso è cruciale sottolineare che se le grandi imprese influenzano i prezzi, allora i meccanismi del mercato non sono più necessariamente un valido strumento per distribuire le risorse e i prodotti fra gli agenti che operano nell’economia. L’efficienza degli scambi commerciali, spesso descritta dalla metafora della mano invisibile di Adam Smith, si fonda infatti sul comportamento concorrenziale delle imprese. Diversamente, quando i prezzi possono essere manipolati, si può dimostrare che il mercato dà luogo a transazioni inefficienti che danneggiano il benessere dei consumatori.
Problemi politici
Associato alla presenza di oligopoli è anche un altro problema, troppo spesso dimenticato. Le grandi imprese, infatti, dispongono solitamente d’ingenti risorse finanziarie che possono essere investite in attività di lobbying per condurre la classe politica a difendere i propri interessi anziché quelli degli elettori. Una delle primissime personalità ad accorgersi di tale pericolo va riconosciuta nel giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Louis Brandeis (1856 – 1941), che vedeva nella concentrazione delle compagnie americane una seria minaccia ai valori democratici e sperava di ritornare a una economia popolata da una moltitudine di piccoli produttori indipendenti. Più recentemente, il sociologo Colin Crouch ha sottolineato ne Il potere dei giganti che: “la strategia di deregulation degli anni Novanta, che ha condotto all’irresponsabile sviluppo dei mercati finanziari, è stata a sua volta il prodotto di un’imponente attività di lobbying delle banche nei confronti del Congresso dell’amministrazione statunitense” [5]. Sempre Crouch scrive: “Torniamo così al dilemma di fondo della strategia neoliberista: nell’intento di ridurre certi tipi d’intervento pubblico nell’economia, essa favorisce o lascia spazio a molte interferenze reciproche tra governi e imprese private, interferenze che creano spesso notevoli problemi sia per la libertà di mercato sia per l’onestà delle istituzioni pubbliche”. Infine, anche economisti ortodossi come Daron Acemoglu rimarcano che il potere economico spesso si trasforma in potere politico nonostante il sistema istituzionale sia organizzato su basi democratiche e pluralistiche [6]. Sfogliando i resoconti pubblicati dalle banche d’investimento americane, veri e propri oligopolisti del settore finanziario, si possono trovare esempi concreti di come esse cerchino, anche esplicitamente, d’influenzare le scelte dei governi. In un documento pubblicato da J.P. Morgan nel 2013 vengono individuati i fattori di natura politica che ostacolano la crescita economica: “debole potere esecutivo, debole potere statale rispetto agli enti locali, diritti dei lavoratori protetti dalla costituzione, meccanismi decisionali basati sul consenso che favoriscono il clientelismo e diritto di protesta se riforme sgradite vengono introdotte per cambiare lo status quo” (tda) [7].
L’antitrust
Date tutte le criticità sollevate dalla presenza di grandi imprese, o oligopolisti, nei sistemi economici e politici, quasi tutti i paesi si sono dotati di leggi e autorità indipendenti a tutela della concorrenza (in Italia abbiamo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Sfortunatamente però la legislazione antitrust e la sua applicazione non sono stabili nel tempo ma seguono, almeno in parte, i cicli economici e politici. Per esempio, la normativa antitrust si è dimostrata molto severa agli inizi del Novecento, quando lo Sherman Act portò alla dissoluzione della Standard Oil e dell’American Tobacco Company, mentre si è rivelata più indulgente dagli anni Ottanta del secolo scorso quando le grandi imprese cominciarono a essere percepite più come come un’opportunità che una problema per la società. L’emblematico cambio di tendenza avvenne durante la cosiddetta “rivoluzione neoliberale” o “rivoluzione conservatrice”, pro mercato, portata avanti da Ronald Regan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna. In quegli anni gli economisti appartenenti alla Scuola di Chicago cominciarono ad usare gli strumenti analitici della microeconomia, di per sé neutrali, per enfatizzare i vantaggi produttivi e d’efficienza degli oligopoli minimizzando invece i rischi che essi rappresentano per i meccanismi del libero mercato. Quest’approccio, tuttavia, sembra stia lentamente cambiando. Dopo la monumentale opera di Thomas Piketty sul capitale nel XXI secolo, in cui si sottolinea con vigore che le disuguaglianze dei redditi sono esponenzialmente cresciute negli ultimi anni, alcuni economisti hanno cominciato a sospettare che uno dei fattori che si nasconde dietro questo problema sia il potere di mercato delle grandi imprese [8]. In due articoli apparsi su internet gli economisti e premi nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz hanno sottolineato che l’economia mondiale è ormai dominata da oligopolisti e che gran parte dei profitti ottenuti da essi non deriva dagli investimenti produttivi, rimasti strutturalmente bassi dopo la crisi economica del 2008, ma dallo sfruttamento del potere di mercato [9]. Entrambi interpretano questo fenomeno relativamente nuovo come un fattore determinante che ha influenzato negativamente sia le distribuzioni dei redditi sia la crescita economica degli ultimi anni.
Qualche idea per il futuro
Dall’analisi delineata risulta chiaramente che le grandi imprese possono avere profondi effetti sul sistema economico e sociale nel suo insieme. Per questo motivo è cruciale valutare sempre con grande attenzione tutte le possibili conseguenze che le dinamiche aggregative tra imprese possono generare sulla società. Analisi basate solo sull’efficienza produttiva, che non tengano conto delle possibili distorsioni create dagli oligopoli nell’economia e soprattutto sul sistema politico, possono portare l’autorità antitrust a prendere decisioni fuorvianti, inadeguate a migliorare il benessere complessivo della società. Anche le politiche neoliberali, nel ridisegnare e ridimensionare il ruolo del settore pubblico, hanno lasciato mano libera alle situazioni di oligopolio invece che ai meccanismi di mercato basati sulla concorrenza. Queste politiche, che sono state molto in voga negli ultimi decenni e che hanno sorprendentemente passato indenni la crisi economica del 2008, devono essere ampiamente ripensate e, più probabilmente, superate. È possibile che porre dei limiti alle dimensioni delle imprese e ai processi di fusione e acquisizione, rinunciando così agli aumenti d’efficienza da essi generati, sia il prezzo che dovremo pagare in futuro non solo per rafforzare la concorrenza nei mercati ma anche per vivere in società più libere e democratiche.
* University of Durham, Regno Unito.
Bibliografia
[1] “The rise of the superstars”. Special report, The Economist, 17 settembre 2016.
[2] Lamoreaux N., “The great merger movement in American business, 1895-1904”. Cambridge University Press, 1985.
[3] Demsetz H., “Industry structure, market rivalry, and public policy”. Journal of Law and Economics 16, 1973.
[4] O’Brien A.P., “Factory size, economies of scale, and the great merger wave of 1898-1902”. The Journal of Economic History 639, 1988.
[5] Crouch C., “Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberalismo”. Editori Laterza, 2011.
[6] Acemoglu D., “Economic power begets political power”. www.economist.com, 23 gennaio 2011.
[7] “weak executives; weak central states relative to regions; constitutional protection of labor rights; consensus building systems which foster political clientelism; and the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo”. Barr M., Mackie D. “The Euro area adjustment: about halfway there”. J.P. Morgan Global Issues, 28 maggio 2013.
[8] Piketty T., “Il capitale nel XXI secolo”. Bompiani, 2014.
[9] Stiglitz J., “Are markets efficient, or do they tend towards monopoly? The verdict is in”. www.weforum.org, World Economic Forum, 18 maggio 2016. Krugman P., “Robber baron recessions”. www.nytimes.com, 18 aprile 2016.