1. La capacità di coniugare buona teoria economica, indagini empiriche e sensibilità politica è estremamente preziosa. Ed è anche merce rara soprattutto nel mondo degli economisti.
Il Rapporto sulla competitività italiana curato da Riccardo Realfonzo sfata questo mito e mette a disposizione di chi vorrà leggerlo uno strumento formativo importante che ricorda la saggezza di esperienze passate che furono fondamentali per la costituzione di un sapere economico in grado di parlare ai politici e alla società civile. Ci riferiamo in particolare all’Istao di Ancona e alla Scuola di Portici che, negli anni sessanta e settanta, erano le uniche scuole post laurea in Economia esistenti in Italia. Anche il Rapporto sulla competitività italiana nasce all’interno di un recente tentativo di alta formazione, la Scuola di Governo del Territorio istituita nel 2015 a seguito di una iniziativa delle Università della Campania, del CNR e della Camera di Commercio di Napoli.
Il libro si suddivide in 6 capitoli: il primo rilegge anche criticamente i più recenti studi che WEF, OCSE e Commissione Europea hanno dedicato alla competitività italiana; il secondo si sofferma sugli indici di competitività internazionale; il terzo propone un indice sintetico di competitività territoriale che, nel quarto e quinto capitolo viene rispettivamente contestualizzato a livello metropolitano e confrontato con alcuni indicatori nazionali ed internazionali. Questa parte del Rapporto è il frutto del lavoro di Paola Corbo, Andrea Pacella, Riccardo Realfonzo, Guido Tortorella Esposito, Angelantonio Viscione e Carmen Vita. Il capitolo conclusivo (di Giorgia Marinuzzi e Walter Tortorella) riflette sulla specializzazione produttiva dei comuni italiani e sulla crisi delle imprese nazionali.
Gli indici presentati sembrano delineare un processo di “mezzogiornificazione” a due livelli, nazionale e transnazionale, che renderebbe ancor più complesso l’adeguamento delle strutture produttive interne ai nuovi paradigmi di innovazione hi-tech del nucleo. E il quadro attuale delle regole europee sembra scoraggiare ulteriormente questo quanto mai necessario processo di ristrutturazione tecnologica, che rappresenterebbe un volano di vitale importanza soprattutto per l’area del Paese più colpita dal processo di desertificazione industriale post-crisi, il Mezzogiorno.
2. Prima di entrare nel merito dei contenuti principali dell’opera, è opportuno tener conto della particolare fase storico-politica che il Paese si trova ad affrontare. Un primo sguardo alla dinamica macroeconomica che interessa l’Italia conduce molti economisti ad esprimere ottimismo dinanzi alla ripresa delle esportazioni che sta trainando la crescita economica italiana. Si legge ad esempio nel Rapporto ISTAT sulla competitività dei settori produttivi (edizione 2017): “La quota delle esportazioni nazionali su quelle mondiali è risalita dal 2,7% del 2013 e, sulla base delle informazioni provvisorie disponibili, nei primi tre trimestri del 2016 è prossima al 3,0%. Nel 2016 le esportazioni di prodotti chimici, alimentari e, soprattutto, di automobili sono cresciute più̀ della media dei relativi mercati: in particolare, le vendite di automobili dall’Italia e dalla Spagna sono aumentate più̀ rapidamente di quelle di Francia e Germania. Le vendite di beni strumentali, che rappresentano la principale voce d’esportazione e nell’attivo commerciale del nostro Paese, sono cresciute come in Germania – e come l’export complessivo: +6% nel biennio – e più̀ rapidamente che in Francia e Spagna.”
Eppure, se si considerano i dati relativi ai principali Paesi con cui l’Italia esporta e da cui l’Italia importa, emerge una realtà più complessa: la Germania risulta essere il Paese verso il quale sono maggiormente dirette le esportazioni italiane e al contempo il Paese dal quale l’Italia importa di più. Tra il 2014 e il 2016 le esportazioni italiane verso la Germania sono passare da 50.144 milioni euro a 52.703 milioni di euro; le importazioni italiane dalla Germania sono cresciute ancora di più: da 54.388 milioni di euro a 59.950 milioni di euro (si vedano le tabelle sottostanti, tratte dalle elaborazioni effettuate dall’Osservatorio Economico del Ministero dello Sviluppo Economico su dati ISTAT). Degno di nota è l’incremento delle esportazioni italiane verso gli Stati Uniti: da 29.756 milioni di euro a 36.888 milioni di euro.
Figura 1
Figura 2
Quali sono i principali beni che l’Italia importa dalla Germania? Nel 2016, i settori maggiormente in crescita rispetto al 2015 sono stati: autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (+18,5%), macchinari e apparecchiature (+7,4%), computer e prodotti di elettronica e ottica (+7,3%), articoli di abbigliamento (+7,3%) e apparecchiature elettriche e per uso domestico (+3,5%).
Sembrerebbe pertanto trovare legittimità il punto di vista più cauto di chi sostiene che l’Italia presenta un vincolo estero di natura tecnologica nei confronti della Germania[1].
Il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro favorito dal quantitative easing già a partire dall’Aprile 2014, ha rinforzato in particolare le esportazioni italiane nei confronti degli Stati Uniti, ma ha anche incrementato la dipendenza italiana dai beni strumentali ad alto contenuto tecnologico acquistati dalla Germania proprio per sostenere l’incremento della domanda estera di merci italiane.
Ciò ha delle conseguenze importanti per ciò che concerne la dinamica economica strutturale del nostro Paese.
3. Il Rapporto ISTAT sulla competitività dei settori produttivi (edizione 2017) offre anche una descrizione estremamente precisa dell’evoluzione recente del tessuto produttivo italiano. La crisi economica è tecnicamente terminata nel 2014. Tuttavia, i dati macroeconomici non danno immediatamente conto delle sostanziali alterazioni del tessuto produttivo. Alcune indicazioni significative emergono guardando al numero delle imprese che si è ridotto tra il 2011 e il 2014 del 4,6%, (oltre 190mila unità). A ciò corrisponde una riduzione del 5% degli addetti (circa 800 mila unità). Il settore delle costruzioni ha perso quasi un terzo del valore aggiunto. Le perdite nella manifattura sono evidenti se si considera il calo del 7,2% delle imprese del settore e del 6,8 degli addetti. I servizi di mercato sono caratterizzati da perdite meno significative (-4,7% di imprese, -3,3% di addetti), mentre i servizi alla persona sono l’unico comparto che ha aumentato unità (+5,3%) e addetti (+5,0%).
La gravità della situazione viene confermata dalle analisi condotte sui nuovi registri statistici delle imprese: tra il 2011 e il 2014 in tutti i settori manifatturieri, e in quasi tutto il terziario, un’impresa su due ha perso valore aggiunto, e le imprese più colpite dalla crisi sono state quelle che vendevano solo sul mercato interno.
Di fronte a questa situazione non è pensabile che il sostegno alla crescita determinato da una particolarissima congiuntura rappresenti una soluzione sistematica. Il consolidamento della domanda estera italiana passa anche per scelte strategiche rilevanti relative alla struttura produttiva del Paese e alla possibilità che emerga una politica economica capace di costruire e consolidare settori economici innovativi, la cui competitività non dipenda unicamente dal ricorso al deprezzamento valutario. Tutto ciò significa tornare a rivendicare la possibilità di ricorrere alla politica fiscale espansiva.
Ci pare che il lavoro curato da Realfonzo, non solo confermi questa chiave di lettura ma la arricchisca e la approfondisca calandosi nelle differenze territoriali più profonde del nostro Paese. Difatti, l’indice sintetico di competitività elaborato per le circoscrizioni italiane lascia trasparire la possibilità di traslare il dualismo europeo anche su scala nazionale.
4. In particolare il quarto capitolo – attraverso l’analisi comparata fra le città metropolitane delle regioni a statuto ordinario – mostra chiaramente come le macro-aree urbane del Mezzogiorno occupino costantemente le posizioni di coda della graduatoria. A titolo di mero esempio, le città metropolitane di Napoli e Reggio Calabria presentano rispettivamente un valore dell’indice di competitività di 2,50 e 2,71, mentre Milano e Bologna – che occupano le posizioni di testa della classifica – fanno registrare valori rispettivamente di 5,08 e 4,74. Quindi, il livello di competitività della città metropolitana più virtuosa è più che doppio di quello della città metropolitana meno competitiva. Nelle posizioni intermedie troviamo, invece, Roma Capitale (3,63) e Genova (3,54), che segnalano come anche alcune macro-aree urbane del Centro-Nord soffrano di carenze infrastrutturali e di competitività produttiva. Una divergenza che sarebbe soprattutto concentrata nel primo pilastro dell’indice (relativo allo sviluppo delle attività produttive) dove si registra un campo di variazione pari a 3,52; mentre, con riferimento al secondo pilastro – l’indice di contesto territoriale – il campo di variazione si riduce del 53,4%, raggiungendo un valore di 1,64. In questo senso, le performance negative riferibili a Napoli e Reggio Calabria sembrano spiegabili soprattutto guardando alla dimensione media delle imprese, alla produttività del lavoro e alla quota di dipendenti laureati. L’analisi suggerisce quindi di prestare maggiore attenzione alle caratteristiche quali-quantitative dei mercati, del lavoro e del tessuto imprenditoriale.
Quando si considerano tutte le popolazioni provinciali, si ha una sostanziale conferma dei risultati precedenti, anche se con alcune significative irregolarità sia nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno. Ad esempio, la Liguria si caratterizza per valori costantemente più piccoli della media nazionale e molto prossimi a quelli del Mezzogiorno, con la provincia di Savona che rientra addirittura nella fascia bassa della graduatoria. Una situazione analoga è presente anche nella provincia di Venezia e in quelle di Livorno e Grosseto, la cui competitività totale è caratterizzata da livelli medio-bassi e quindi piuttosto lontani dalla media italiana. Ancor peggio fa la provincia di Latina, il cui livello di competitività rientra nella fascia meno virtuosa della classifica; un valore poco più basso delle rimanenti circoscrizioni del Lazio che fanno registrare livelli medio-bassi.
Le performance più elevate nell’area centro-settentrionale sono appannaggio di Lombardia, Emilia Romagna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Marche, che presentano tutte valori complessivamente medio-alti. In media, le regioni centrali si contraddistinguono per output più bassi di quelle settentrionali.
Le province più virtuose, sia in termini di competitività territoriale che di sviluppo delle attività produttive, sono distribuite eterogeneamente e quasi esclusivamente nel Nord del Paese: Brescia, Monza, Cuneo, Trento, Vicenza, Treviso, Udine, Piacenza, Reggio Emilia, Cesena, Arezzo e Siena.
Con riferimento al Mezzogiorno, nonostante una generale condizione di bassa competitività, si registrano alcune interessanti realtà. In particolare, le province più dinamiche sono Teramo, Chieti, Olbia-Tempio, e in misura parziale Matera e Potenza. Nel caso specifico, le prime tre aree urbane elencate presentano valori superiori alla media, rientrando nella fascia medio-alta della distribuzione.
Le rimanenti province del Mezzogiorno sono invece caratterizzate da un livello di competitività medio-basso o basso, e quindi al di sotto della media nazionale. Se si considerano i due indici sub-categoriali (l’indice sullo sviluppo delle attività produttive e l’indice di contesto territoriale), una parte preponderante dei ritardi di competitività delle circoscrizioni del Mezzogiorno può essere ascritta alla componente territoriale, ovvero ai fattori ambientali e strutturali di contesto. Difatti, con poche eccezioni (Potenza, Olbia-Tempio, Nuoro, Oristano e Ogliastra) le province meridionali si contraddistinguono per livelli di competitività territoriale complessivamente insufficienti. In particolare, la maglia nera è detenuta dalle province campane e pugliesi.
5. Il Rapporto sulla competitività italiana è in sintesi ricco di interessanti informazioni non solo per gli addetti ai lavori, ma soprattutto per il mondo politico (di oggi e di domani), che dall’analisi produttiva e territoriale di contesto potrebbe trarre indicazioni puntuali per indirizzare le scelte di politica economica più opportune. Si tratta pertanto di un’esperienza che va sostenuta e riproposta, cercando di consolidare gli strumenti statistici proposti.
In questo spirito, vorremmo concludere le nostre note con alcune riflessioni sulla procedura di costruzione degli indici di competitività territoriale e di sviluppo delle attività produttive, che possano rafforzare l’intelligente operazione critica promossa dagli autori.
Con riferimento al secondo indice, ci pare necessario soffermarci sui tassi di criminalità e sulla qualità della funzione pubblica. Com’è noto, i tassi di criminalità complessivi del Mezzogiorno sono stabilmente e storicamente più bassi di quelli della ripartizione centro-settentrionale. Tuttavia, questi dati non tengono conto né della composizione qualitativa dei reati commessi (e quindi del loro peso) né delle reali condizioni ambientali di contesto. Nelle ricerche future, il gruppo di studiosi coordinati da Realfonzo potrebbe tener conto delle variabili maggiormente rappresentative delle attività mafiose o degli indici di penetrazione mafiosa calcolati annualmente dall’Eurispes o da Coldiretti-Eurispes.
Riguardo all’indice di qualità della funzione pubblica, esso è il risultato di un’indagine campionaria basata in buona parte sulle percezioni degli intervistati e quindi i risultati potrebbero essere caratterizzati da notevole volatilità.
Per quanto concerne l’indice di sviluppo della attività produttive, potrebbe essere inserito al suo interno anche il flusso degli Investimenti diretti esteri (IDE) al fine di catturare la capacità di attrazione internazionale esercitata dai mercati delle singole province.
D’atro canto il rapporto fra strumenti matematici e statistici e politica economica è questione antica e controversa. Come ebbe a scrivere Bruno de Finetti: “La questione non consiste nell’uso di questo o quel tipo di matematiche, più o meno elementari o elevate, antiche o moderne, e via dicendo. Non c’è nulla che, di per sé, sia buono o cattivo: è l’uso che se ne fa (o in altro caso, il modo in cui lo si insegna) che può essere buono o cattivo, o per dir meglio, essere o non essere adeguato. Il caso più tipico è quello di una impostazione assiomatica: si dimostra che una certa proprietà (sia l’esistenza di un equilibrio) esiste in un certo problema sotto queste e queste ipotesi, o “assiomi”. Matematicamente ogni risultato del genere (supposto esatto) è un risultato esatto, e basta. Ma quel che veramente conta è l’apporto all’economia, e tutto dipende non dal fatto che il risultato sia vero, ma che risponda a qualcosa di importante.” [2]
La grande accuratezza critica che anima lo sforzo condotto da Riccardo Realfonzo e dai suoi collaboratori, soprattutto nella discussione dei tradizionali indici di competitività, può costituire un ottimo antidoto contro la cattiva assiomatica che oggi vincola inopportunamente il dibattito di politica economica nel nostro Paese.
*Professore associato all’Università di Bergamo
**Assegnista di ricerca presso l’Università di Bergamo
[1] Cfr. Stefano Lucarelli, Daniela Palma e Roberto Romano, “Quando gli investimenti rappresentano un vincolo”, Moneta e Credito, vol. 66, n. 262, 2013; Stefano Lucarelli e Roberto Romano, “The Italian Crisis within the European Crisis”, World Economic Review, n. 6, 2016.
[2] Cfr. Bruno de Finetti, “Econometristi allo spettroscopio”, Rivista trimestrale, 1965. Si legga anche la relazione di Giorgio Lunghini, “Bruno de Finetti e la teoria economica”, Accademia dei Lincei 15-17 Novembre 2006, http://www.brunodefinetti.it/bibliografia/lunghini-bdf-lincei.pdf