Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il nuovo Regno dovette dotarsi di una moneta unica, dato che nei singoli Stati preunitari circolavano monete differenti. Come in altri ambiti, si scelse il modello sabaudo, adottando nel 1862 la lira piemontese. Un aspetto trascurato dell’unificazione monetaria italiana riguarda il suo possibile effetto sullo sviluppo economico delle diverse aree del Paese. L’unificazione monetaria influenzò il divario tra Nord-Sud? La risposta a questa domanda non soddisfa solo una curiosità accademica. Per alcuni aspetti, l’esperienza italiana può risultare utile per comprendere l’impatto che l’adozione dell’euro ha, oggi, sui divari regionali in Europa.
La teoria delle aree valutarie ottimali, proposta da Robert Mundell nel 1961, rappresenta un utile schema per verificare se i paesi hanno convenienza ad adottare una moneta unica. Secondo questa teoria, un’unione monetaria funziona se presenta alcune condizioni. Tra queste, in particolare, l’elevata mobilità dei fattori di produzione, vale a dire la facilità per i lavoratori di una regione colpita da crisi di trovare occupazione nelle altre regioni.
Ora, se guardiamo al Regno d’Italia del 1861, tale condizione non sembra soddisfatta. Su scala nazionale la mobilità del lavoro era bassa, nonostante il progressivo incremento delle vie di comunicazione. Per un meridionale era ovviamente più semplice spostarsi all’interno dei confini dell’ex Regno delle due Sicilie che nel resto della penisola. Proprio l’emigrazione transoceanica, che iniziò verso la fine dell’Ottocento, mostrava come un veneto o un calabrese fossero maggiormente attratti dalle Americhe piuttosto che dalle regioni del Nord-Ovest che si andavano industrializzando. La ragione fondamentale è che le condizioni economiche delle regioni italiane erano, all’epoca, ancora simili. Di conseguenza, si emigrava all’estero, mentre l’emigrazione interna al paese era ancora modesta.
In assenza di mobilità del fattore lavoro è molto difficile in un’unione monetaria assorbire i cosiddetti shock economici asimmetrici, quelle crisi, cioè, che colpiscono solo alcune regioni lasciando indenni le altre. In presenza di shock asimmetrici, la politica monetaria unica risulta evidentemente inefficace, dal momento che una politica espansiva per sostenere le regioni in recessione indurrebbe inflazione nelle aree non colpite dallo shock, mentre se si volesse privilegiare la stabilità monetaria, si dovrebbero accettare la recessione e la disoccupazione nelle aree più deboli.
C’è chi ha sostenuto che proprio le unioni monetarie ridurrebbero la probabilità che si verifichino shock asimmetrici[i]. L’unione monetaria accrescerebbe, infatti, gli scambi commerciali tra gli Stati o le regioni aderenti, sicché le loro economie ne risulterebbero coordinate. A questo punto, una politica monetaria unica sarebbe efficace. Un’argomentazione che appare oggi discutibile, alla luce dell’andamento degli scambi commerciali nell’attuale area euro.
Ma c’è un altro aspetto da considerare. In un’unione monetaria, i fattori produttivi (soprattutto il capitale) possono facilmente spostarsi nelle aree in espansione, con mercato più ampio o con elevata specializzazione produttiva[ii]. Come risultato, l’integrazione economica e monetaria tende a far crescere, insieme alla specializzazione, anche le differenze regionali.
A ben vedere, si tratta di un meccanismo che troviamo in azione in Italia nell’Ottocento. Prima del 1861, gli scambi tra Nord e Sud erano limitati. Dopo l’Unità l’integrazione cresce, probabilmente più per i progressi nelle infrastrutture, nei trasporti e per la presenza di un mercato nazionale libero da tariffe doganali, piuttosto che per l’adozione di un’unica moneta. Aumentavano le esportazioni agricole dal Sud al Nord, che nel frattempo incrementava la sua produzione di seta e, dagli anni Settanta-Ottanta, avviava il suo processo di industrializzazione. La maggiore integrazione, in coerenza con la teoria della nuova geografia economica, si accompagnava alla concentrazione dell’industria al Nord e alla specializzazione agricola nel Meridione[iii], rendendo l’area monetaria nazionale più vulnerabile a shock asimmetrici. Nel corso degli anni Ottanta, la concorrenza del grano proveniente dal Nuovo Mondo, determinò una crisi nel settore agricolo che ebbe forti ripercussioni al Sud. Le regioni meridionali avrebbero potuto trarre giovamento da una svalutazione, ma in quegli anni la lira si andava apprezzando (una politica monetaria rigorosa era richiesta dal desiderio di uscire dal corso forzoso), in una misura valutata intorno al 40% in termini reali tra il 1873 e il 1885, rispetto alle principali valute internazionali.
Debole, poi, la tesi secondo la quale gli Stati o le regioni aderenti a un’unione monetaria non dovrebbero preoccuparsi del pareggio della loro bilancia dei pagamenti[iv]. Secondo quest’argomento, ogni regione potrebbe importare senza preoccuparsi di trovare le risorse necessarie, che in un’unione monetaria sarebbero facilmente reperibili sui mercati finanziari. In realtà, proprio l’assenza di autonomia monetaria porta a cronicizzare le difficoltà “locali”, con aumento degli squilibri territoriali. Si rende quindi necessario l’intervento compensativo del centro per sostenere il reddito e finanziare investimenti per risollevare le condizioni delle aree più arretrate. Non a caso, oggi, l’unione fiscale viene invocata per tenere in piedi la traballante costruzione europea. In Italia, i trasferimenti dallo Stato centrale hanno permesso, specie in alcuni periodi, di mantenere il Meridione su un livello di galleggiamento. Nel momento in cui, come da un po’ di anni a questa parte, i trasferimenti verso le aree meridionali diminuiscono, il divario con il Nord tende a crescere. D’altra parte, la coperta appare sempre troppo corta, visto che quando i trasferimenti verso il Sud aumentano, aumenta anche il malcontento delle aree più ricche, a cui sembra di dover portare sulle spalle un peso che rallenta la loro economia. L’emergere, periodicamente, della cosiddetta questione settentrionale ne è testimonianza.
Con la moneta unica, Nord e Sud, probabilmente non molto distanti per livello di reddito[v], hanno posto le condizioni per divergere: ben lungi dal sincronizzare il loro ciclo economico, si sono specializzati nei settori in cui avevano vantaggi comparati. L’economia del Nord e quella del Sud possono aver marciato più o meno insieme fino all’inizio degli anni Ottanta; la crisi agraria ha poi colpito con più violenza il Meridione, senza che una politica monetaria ad hoc potesse fornire un rimedio. La scelta di una maggior disciplina monetaria, giustificata dall’obiettivo del ritorno alla convertibilità e poi del suo mantenimento, non era quella più favorevole per il Mezzogiorno, mentre si è rivelata vincente per l’industrializzazione del Settentrione.
Naturalmente, si può discutere se le politiche economiche e commerciali adottate nell’Italia postunitaria siano state in grado di portare una crescita equilibrata nel Paese, così come si può discutere l’atteggiamento tenuto dai governi nei confronti del Meridione. Tuttavia, una lettura del divario Nord-Sud alla luce della teoria delle aree valutarie ottimali ci sembra possa contribuire a liberare la storia postunitaria da alcuni pregiudizi e a destrutturare il complesso d’inferiorità che spesso affiora nella società meridionale. Se il Sud è stato probabilmente penalizzato dall’unione monetaria, peraltro, ciò non può essere addebitato alla premeditazione delle classi dirigenti, tanto più che essa rappresentava un passaggio inevitabile e che oggi non ci sogneremmo di mettere in discussione.
*Ricercatore t.d. di Storia economica dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria
Bibliografia essenziale
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[i] Frankel e Rose 1998.
[ii] Krugman 1995.
[iii] Daniele, Malanima e Ostuni 2016.
[iv] Emerson, Gros e Pisani-Ferry 1990.
[v] Daniele e Malanima 2011.