La lettura che Riccardo Realfonzo fa dell’ultimo rapporto Istat coglie nel segno: il mezzogiorno sta soffocando sotto il peso della sua “più profonda contraddizione”: il dualismo nord-sud[1]. In un precedente intervento in questa rivista (“Questione meridionale,, reti clientelari e sviluppo economico”), segnalavo che, nonostante il dualismo venga usualmente utilizzato come sinonimo di divario economico – per individuare le differenze tra le aree del paese in base ai principali indicatori economici – esso ha anche e soprattutto un significato politico: l’Italia è come composta da due economie (due società) differenti ma non separate. Come spiegare il nesso che unisce e tiene insieme due formazioni socioeconomiche, nonostante una subordini e sia antagonista all’altra?
Prendiamo un esempio, il settore informatico. In termini strettamente economici il dualismo informatico italiano consiste in ciò: l’80% delle imprese e degli occupati sono nel centro nord, concentrati soprattutto tra Roma e Milano, che anche prese singolarmente superano l’intero mezzogiorno; il restante 20% di imprese e occupati sono al Sud. Ma se cerchiamo di “attraversare” questo divario percentuale, invece di limitarci alla sua lettura, possiamo rilevare alcune caratteristiche funzionali del divario stesso. Il mezzogiorno è infatti un’area di delocalizzazione incentivata per la produzione industriale di prodotti informatici. Non solo, è anche e soprattutto un importante bacino di formazione e reclutamento di specialisti e tecnici informatici, che prestano la loro opera quasi esclusivamente in multinazionali ICT e nelle imprese nazionali del settore. In questo caso, per usare uno slogan considerato vecchio, ma a volte ancora efficace: “il sottosviluppo del mezzogiorno è funzionale allo sviluppo italiano”; le parole di una interessante ricerca che data ormai un quarantennio, tornano alle nostre menti: «il sottosviluppo produce istruzione per le aree sviluppate»[2].
Esemplificativo è il caso della Calabria, l’ultima degli ultimi, la regione in coda ai diversi indicatori socioeconomici proposti dall’Istat e dagli altri istituti di rilevazione. Bene, la Calabria è la regione italiana che, in rapporto alla popolazione residente ed ai laureati in discipline informatiche, forma il maggior numero di professionisti informatici; professionisti che, per la gran parte, si trasferiscono altrove.
Per capire come tutto ciò non sia casuale, né imposto da mani invisibili, ma sia piuttosto una conseguenza attesa e voluta dai poteri locali e dalle imprese centro settentrionali, bisognerebbe ricostruire la storia sociale e politica dell’informatica regionale, storia che è alla radice della fuga degli ICT calabresi. Rimando tale compito ad altra sede, dati i limiti del presente scritto, ma voglio qui solamente ricordare che il famoso “piano Telcal” – che nei verbali di attuazione venne definito in grado di accelerare la dinamica del mercato meridionale sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta, tramite organiche applicazioni innovative in ogni ambito del sistema socioeconomico e volano d’occupazione per i giovani informatici calabresi – si rivelò valido e conveniente solo per i gruppi dominanti a capo della Regione Calabria e delle principali istituzioni economiche locali (Confindustria, la Banca Carical oggi Carime, eccetera); e per le imprese nazionali che si trovarono a gestire – o furono coinvolte a vario titolo – il cosiddetto secondo intervento straordinario, promosso dall’agenzia per lo sviluppo del mezzogiorno che dal 1986 sostituì la “Cassa” (Finsiel, Olivetti ricerca, Telecom, eccetera). Questi gruppi sono stati a tutti gli effetti i principali artefici della distruzione dell’informatica regionale o, se vogliamo, del suo mancato decollo che fu, dualisticamente, funzionale alle imprese nazionali del settore ed allo status quo meridionale. Non per motivi squisitamente economico generali, ma a causa di scelte politiche le cui logiche non sono comprensibili senza indagare gli assetti istituzionali formali ed informali che caratterizzano la gestione dei poteri, il Piano “Telcal” cessò di esistere nei primi anni del duemila.
E’ probabilmente superfluo aggiungere che dell’occupazione dei giovani informatici calabresi non ci fu traccia, nel frattempo però l’università continuò progressivamente a formare e licenziare ingegneri e professionisti informatici. La facoltà di ingegneria dell’Unical, nelle sue diverse specializzazioni, ha sempre goduto di buona fama, ed ha registrato sin dalla sua nascita il maggior numero di iscritti rispetto alle altre facoltà. La specializzazione privilegiata, ieri come oggi, è ingegneria informatica: ogni mille studenti Unical 78 sono ingegneri informatici; ogni mille laureati Unical, 50 sono ingegneri informatici: le quote più alte d’Italia. E’ chiaro che una simile produzione di professionisti non avviene per le imprese locali ma soprattutto per quelle esterne. In un censimento svolto a metà degli anni ’90, e poi ripetuto dieci anni dopo, il risultato non è cambiato: sette informatici su dieci lavorano fuori dalla regione, soprattutto a Roma e Milano, in grandi gruppi nazionali o esteri[3].
Col senno del poi è facile registrare che il polo cittadino Cosenza – Rende, che grazie al TelCal sarebbe dovuto diventare un integratore di nuove professionalità, non è affatto in grado di bloccare i trasferimenti dei giovani laureati calabresi e, tra loro, degli informatici che l’università continuamente produce. Il polo cittadino, semmai, è quello che si preoccupa di formare e far crescere professionisti avanzati che lavoreranno, spesso insoddisfatti, fuori dal mezzogiorno. Quest’ultimo è da loro considerato invivibile a causa delle reti clientelari che ne influenzano gli aspetti relazionali e produttivi. Trasferirsi vuol dire anche sottrarsi da questa cappa che li soffoca.
In un rapporto Svimez di qualche anno fa si parlava di “tsunami” per illustrare le dinamiche demografiche del mezzogiorno e i giovani venivano definiti come una “emergenza”. Sempre la Svimez rilevava nel 2011 che «nel sud si concentra il 60% delle perdite di lavoro determinate dalla crisi!». Insomma, dal punto di vista dello sviluppo economico il cavallo sta per stramazzare al suolo e gli indicatori stanno lì a registrare la perdita d’ossigeno e l’imminente caduta. Tuttavia resta vivo il sospetto che questo stato emergenziale permanente resti funzionale alle traiettorie di sviluppo che contraddittoriamente caratterizzano il sistema economico nazionale e legittimano al contempo «il nucleo di alta burocrazia, che tiene sempre saldamente in pugno il controllo del mercato del lavoro e dei capitali» su cui già Augusto Graziani aveva posto la sua attenzione[4].