Il problema del debito privato e lo scopo del debito pubblico

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Paper

Leggi abstract

L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato. In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile.

Quello del debito privato è un problema che spesso viene trascurato in tempi di relativa tranquillità per riaffiorare (cogliendo regolarmente quasi tutti di sorpresa) in tempi di crisi. Molti economisti e regolatori si esercitano quotidianamente sul monitoraggio del debito pubblico, poiché questo è considerato, dalla tradizione accademica dominante, responsabile di diverse distorsioni e indebite intromissioni nel regolare funzionamento dei mercati che – sempre secondo tale tradizione – condurrebbe spontaneamente all’equilibro e all’efficienza allocativa. Come prova della presa che tale visione ha sulle decisioni politiche, basti riflettere sull’accanimento con cui i trattati e gli accordi presi in sede europea, da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact, si sono dedicati al controllo dei disavanzi pubblici dei paesi dell’eurozona, e la negligenza con cui hanno considerato la dinamica dei debiti del settore privato, verso le banche domestiche e verso il settore estero. Di fatto, però, quando le crisi esplodono, rivelano sempre un problema di insostenibilità del debito privato. Il debito pubblico, invece, nei momenti di emergenza, non soltanto viene derubricato come una variabile di secondaria importanza, ma viene perfino invocato come una risorsa strategica per il salvataggio dal naufragio dell’intero sistema economico. Non a caso, nel pieno della crisi internazionale dei mutui e delle cartolarizzazioni selvagge (debiti privati!) gli investitori in panico hanno acquistato a man bassa titoli del debito pubblico per mettere in sicurezza la ricchezza finanziaria.

Il discusso articolo di Mario Draghi pubblicato il 25 marzo 2020 sul Financial Times[1] ha il merito di spostare esplicitamente l’attenzione dall’eccesso di debito pubblico all’eccesso di debito privato. Tale rovesciamento di prospettiva colloca Draghi già molti passi avanti rispetto alle posizioni di diversi suoi ex colleghi di Troika e rappresentanti dei governi europei (basti pensare alle faticosissime trattative sul Mes e sulla struttura dei finanziamenti da erogare in data da destinarsi, con generosità a scadenza e con braccino corto, su cui i leader dell’eurozona perdono settimane preziose). E’ un rovesciamento necessario (per quanto non sufficiente, come è stato notato,[2] e come vedremo anche qui) per agire politicamente in modo sensato, utile ed efficace. Certo, sarebbe bene che questo cambio di prospettiva fosse anche inteso e ricordato, quando (e se) torneranno tempi più sereni e ordinari, come il riconoscimento della sostanziale infondatezza di una visione teorica che ha giustificato severi interventi disciplinanti nei confronti di governi indebitati, affidati spesso all’esecuzione dei mercati finanziari che agiscono come squadristi con il re che chiude un occhio e si gira dall’altra parte, oppure, più raramente, affidati direttamente a memorandum in cui istituzioni sovranazionali, tra cui quella capitanata da Draghi, hanno sacrificato il benessere materiale e la salute della popolazione di intere nazioni per garantire sonni tranquilli ai loro creditori.

L’obiettivo dell’intervento pubblico muscolare concepito da Draghi nel suo recente articolo consiste dunque nel salvare le imprese da un eccesso di indebitamento conseguente al crollo dell’attività produttiva. Draghi scrive:

«[L]a risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato.»

L’indicazione è dunque chiara: soffriamo di eccesso di debito privato. Questa sofferenza si acuisce nel 2020 per il fatto che l’intera economia viene paralizzata dal coronavirus. La nuova emergenza giustifica un intervento da parte dei governi che, per certi versi, deve essere in totale discontinuità rispetto agli anni precedenti, perché richiede l’esplicita sospensione dei trattati che vincolano i governi dell’eurozona al rigore dei conti. Dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che il problema del debito privato non nasce nel 2020: lo si è visto già prepotentemente scoppiare nel 2008 su scala globale. Non solo. Come cercherò di argomentare nel seguito, la BCE si è mossa già a partire dal 2012 nella prospettiva di ridurre il debito privato. L’eccesso di debito privato sembra essere stata la vera stella polare su cui Draghi ha orientato la sua azione da governatore della BCE, sin dal suo famoso “whatever it takes”. Se l’obiettivo esplicito dichiarato nel 2012, con gran successo mediatico, era di salvare l’euro, l’obiettivo implicito, a giudicare dalle azioni che la BCE ha intrapreso a partire dal 2012, era permettere al settore privato, e alle imprese in particolare, di ridurre il loro indebitamento nei confronti delle banche. Dal punto di vista degli obiettivi, se non da quello degli strumenti, il Draghi dell’articolo del 2020 mi sembra muoversi in continuità con il Draghi del 2012. Come cercherò di mostrare, con riferimento all’economia italiana, anche i governi italiani, a partire da quello di Monti che la BCE ha contribuito attivamente a formare, hanno di fatto intrapreso politiche fiscali a loro modo coerenti con lo stesso obiettivo: la riduzione del debito privato.

Una ricostruzione delle vicende italiane degli ultimi quarant’anni può essere d’aiuto a mettere a fuoco le relazioni tra il disavanzo pubblico, il contesto istituzionale in cui questo si realizza, e la dinamica dell’indebitamento privato. Lo scopo è quello di riflettere sulle strategie possibili che si aprono una volta che si riconosce, per quanto obtorto collo, non solo la dignità, ma anche la necessità, l’urgenza e la razionalità di interventi della politica fiscale in disavanzo.

1. Il debito pubblico e il sacrificio sociale: gli anni 80

Prima di affrontare più nel dettaglio le politiche fiscali e monetarie dell’ultimo decennio, facciamo alcuni passi indietro per illustrare come la relazione tra politiche del debito pubblico e struttura del debito privato sia in realtà una storia vecchia. Un buon punto di osservazione è quell’accordo preparatorio della moneta unica, il Sistema Monetario Europeo (SME), approvato nel 1979, che ha impegnato le autorità responsabili della politica economica italiana ad ancorare l’equilibrio interno all’obiettivo del mantenimento del tasso di cambio entro una banda di oscillazione concordata con gli altri paesi della Comunità europea. Come effetto di quell’accordo, il governo italiano ha aumentato notevolmente il debito pubblico, mentre il settore delle imprese ha ridotto la sua posizione debitoria nei confronti delle banche.

In conseguenza della scelta di adottare lo SME, l’Italia ha vissuto un decennio caratterizzato da tassi d’interesse elevati finalizzati ad attirare flussi di capitali dall’estero a compensazione del disavanzo nella bilancia commerciale. Le grandi imprese, che negli anni 70 erano abituate a concedere aumenti salariali senza troppe resistenze, per poi scaricarli sugli aumenti dei prezzi e affidarsi alle svalutazioni del cambio per recuperare competitività internazionale, sono state costrette ad adottare un atteggiamento apertamente antinflazionistico, quindi molto più conflittuale sul piano della contrattazione salariale. Eppure, nonostante il cambio più rigido, un’inflazione più contenuta e tassi d’interesse reali più elevati, le imprese sono riuscite a ridurre l’indebitamento nei confronti delle banche rispetto ai livelli elevati degli anni 70. Questo risultato, come aveva già evidenziato Augusto Graziani nel 1985, fu reso possibile dalla crescita dell’indebitamento netto del settore pubblico. Nelle parole di Graziani, «quando il settore pubblico gestisce il proprio bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa ….. c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non comporta il ricorso al sistema delle banche[3]

Fintanto che la liquidità messa in circolazione tramite del disavanzo pubblico affluisce verso le imprese, e non va a rintanarsi in qualche deposito di liquidità inattiva, le imprese possono usarla per restituire i debiti nei confronti del sistema bancario. Ecco perché tassi d’interesse elevati, che hanno generato l’impennata del debito pubblico italiano negli anni 80, non hanno in realtà messo in difficoltà il sistema delle imprese (preso nel suo complesso). Questo è un chiaro esempio di come il disavanzo pubblico non soltanto sia stato funzionale alla sopravvivenza delle imprese in un quadro macroeconomico difficile (disinflazione, elevato costo del credito e attacco ai sindacati), ma abbia anche contribuito ad alleviare la loro posizione debitoria nei confronti delle banche.

Dopo avere evidenziato il puro effetto di liquidità associato ai disavanzi pubblici, è bene aggiungere una breve considerazione sulla destinazione della spesa pubblica negli stessi anni. Il decennio precedente il trattato di Maastricht ha visto ridurre progressivamente il disavanzo primario (cioè la differenza fra spesa pubblica al netto degli interessi e introiti fiscali) e aumentare la spesa per interessi, col risultato che, mentre con una mano lo Stato alleviava l’indebitamento delle imprese ed erogava reddito per interessi ai detentori dei titoli del debito pubblico, con l’altra inaugurava la lunga stagione di tagli allo stato sociale, i cui costi sono stati pagati, innanzitutto in quegli anni, dalle fasce più deboli della popolazione che di stato sociale hanno maggiormente bisogno e, a seguire, dalle generazioni successive; fino ad arrivare all’oggi, in cui scopriamo drammaticamente che, per effetto di questa lunga stagione di tagli, in terapia intensiva non abbiamo abbastanza posti letto.

Quando Draghi scrive che occorre ridurre i debiti privati tramite l’indebitamento pubblico, nulla ci garantisce che intenda rifuggire dallo scenario qui ricordato, in cui il salvataggio delle imprese via indebitamento pubblico è stato fatto gravare sulle condizioni materiali di vita delle fasce sociali più deboli.

2. La normalizzazione dell’Italia: austerità e credito bancario

Con il Trattato di Maastricht del 1992, all’accordo di cambio si aggiunge un vincolo ulteriore sul disavanzo del settore pubblico: il limite superiore al disavanzo è fissato al 3% del Pil. Approvato con il nobile argomento secondo cui occorreva riportare sul sentiero della sostenibilità finanziaria un debito pubblico fuori controllo, il trattato ha in realtà determinato una restrizione asimmetrica delle possibilità di manovra della politica fiscale, condannata ormai a una serie di avanzi primari sospesa temporaneamente soltanto nell’anno 2009.

Il quadro macroeconomico in cui le imprese si ritrovano ad agire si fa progressivamente più rigido: con la sola parentesi dell’abbandono dello SME e del ritorno ai cambi flessibili, che si è conclusa nel 1996, il passaggio alla moneta unica, concluso nel 1999, elimina quel residuo di flessibilità sul cambio che ancora esisteva nell’ambito dello SME, ripristina e restringe ulteriormente i margini di tolleranza verso l’inflazione (e soprattutto verso il differenziale di inflazione con la Germania), e in definitiva scarica interamente sulle relazioni industriali, e quindi sul mercato del lavoro largamente inteso (incluse le pensioni), l’onere di garantire margini di profitto e competitività internazionale alle imprese italiane. Il passaggio al sistema contributivo della riforma pensionistica del governo Dini del 1995 e la generalizzazione del precariato con la riforma Treu del mercato del lavoro del 1997 sono le riforme strutturali simboliche di questo passaggio storico.

Nonostante le imprese beneficino di condizioni migliori sul fronte del credito bancario, che consente loro di disporre di liquidità abbondante a costi ben più contenuti rispetto agli anni 80, il contesto macroeconomico resta per altri aspetti asfissiante: il governo si dedica al taglio delle spese e all’aumento del prelievo fiscale, le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro riducono il reddito disponibile dei consumatori, la struttura del sistema produttivo, completata l’ondata di privatizzazioni, si distingue per la carenza di grandi imprese e per il depotenziamento della capacità innovativa[4] e, infine, la concorrenza estera dei paesi dell’area euro si fa più agguerrita. In questo contesto, non dovrebbe sorprendere che la liquidità che le banche creano a disposizione delle imprese non generi una crescita proporzionale del reddito che consenta alle imprese di ripagare i debiti attraverso gli introiti delle vendite dei loro prodotti. In parte la liquidità che non rientra attraverso le vendite viene recuperata attraverso la raccolta di risparmio sul mercato azionario. Ma il risultato complessivo è che, nel primo decennio della moneta unica, mentre gli osservatori si concentrano prevalentemente sulla dinamica, per lo più sotto controllo, del debito pubblico, il debito del settore privato (sia famiglie che imprese) nei confronti del sistema bancario europeo aumenta senza generare allarme. L’indebitamento privato viene incentivato sia dalla crescente integrazione finanziaria tra paesi dell’eurozona, che a sua volta si accompagna a una politica aggressiva del credito dai paesi centrali (Germania) a quelli periferici dell’eurozona, traducendosi per questa via in una crescita del debito estero di questi ultimi, sia dai tassi d’interesse ridotti rispetto ai livelli degli anni ottanta, riduzione che è avvenuta sia su scala globale sia relativamente ai tassi tedeschi.

Mentre i redditi da lavoro del settore privato domestico ristagnano e il debito delle imprese cresce, il governo italiano si guadagna la sua creditworthiness sul mercato finanziario offrendo ai gestori di fondi di investimento un titolo, il Btp, relativamente sicuro, a valori crescenti o almeno stabili nel tempo, e con un differenziale di rendimento comunque non nullo nei confronti del Bund tedesco. I gestori di fondi possono anche contare su un mercato azionario pimpante, anch’esso a valori mediamente stabili e crescenti, attraverso cui, come si è visto sopra, le imprese possono recuperare parte della liquidità erogata a loro favore dalle banche.

Figura 1 – Accumulazione di prestiti e debiti per settore

Legenda: CB=banca centrale; MFI=settore bancario; Other FC= Settore finanziario non bancario; NFC= imprese non finanziarie; HH=famiglie; GOV=governo; RoW=settore estero. Elaborazioni su dati Eurostat.

In sintesi, il periodo precedente la crisi del 2007-08 si è caratterizzato come un equilibrio di aspettative che si è retto, finchè si è retto, sul credito privato abbondante e su una convenzione che ha mantenuto alta la fiducia internazionale: quella secondo cui un sistema paese funziona ed è stabile quando, eliminato il rischio di cambio, riesce a stabilizzare il debito pubblico (mantenendo in tal modo contenuto il rischio di insolvenza). Nella faccia oscura di questa luna piena, tuttavia, sarebbe stato utile soffermarsi sui segnali di indebolimento dell’economia italiana: la compressione strutturale del potere d’acquisto delle famiglie, con relativa riduzione del risparmio (passato dal 12% del Pil del 1996 al 6% del 1999 e oscillante tra il 5% e il 6% tra il 2000 e il 2006), il peggioramento delle condizioni diffuse di benessere sociale e della qualità del sistema pubblico, e naturalmente, l’indebitamento crescente del settore privato domestico.

3. La balance sheet recession e l’anomalia italiana

La crisi del 2007-08 è stata alimentata da un’esplosione generalizzata dei debiti privati non solo in Italia, ma su scala mondiale. A detta di Steve Keen, il livello del debito privato era già «in territorio pericoloso» nel 1987, anno in cui il mercato azionario ha subito un primo allarmante crollo. Il salvataggio tempestivo ad opera delle banche centrali «incoraggiò le istituzioni finanziarie di tutto il mondo a passare da una bolla finanziata dal debito a un’altra, con il risultato che, per la maggior parte dei paesi OCSE, il debito privato è cresciuto a un ritmo decisamente più veloce del PIL» nei tre decenni precedenti la crisi del 2007-08.[5] Come si è visto, l’Italia, negli anni della sua “normalizzazione”, non fa eccezione.

Il crollo dei mercati finanziari del 2007-08 inaugura in molti paesi un lento processo di riduzione dei debiti privati simile a quello avvenuto in Giappone nel corso degli anni 90 e descritto dettagliatamente da Koo (2008).[6] Questo innesca una recessione per iniziativa spontanea del settore privato. Poiché i crolli azionari determinano uno squilibrio fra attivi e passivi nello stato patrimoniale di famiglie e imprese, tipicamente, le famiglie tentano di tagliare le spese nel tentativo di accrescere i risparmi e le imprese utilizzano ogni fonte di flussi di cassa per restituire i debiti. Come osservano Seccareccia e Lavoie (2016), ciò che distingue questo fenomeno, chiamato balance sheet recession (recessione da stato patrimoniale) da altre forme di recessione storicamente realizzatesi, come la grande depressione degli anni 30, è il fatto che il processo di aumento del risparmio netto non attende il momento della ripresa economica per attivarsi, ma si verifica simultaneamente al crollo dei valori azionari (con evidente effetto prociclico). In quanto si attiva già nella fase discendente della recessione, la riduzione dei debiti è lenta, insistente e faticosa, e ogni tentativo, da parte delle banche centrali, di incentivare la ripartenza del credito bancario attraverso la riduzione dei tassi d’interesse oppure attraverso iniezioni massicce di liquidità (quantitative easing), in quanto si scontra con il rifiuto di aggiungere nuovo debito al debito esistente, si rivela del tutto sterile.[7]

Se le autorità responsabili della politica economica intendono evitare la pesante e prolungata riduzione del reddito dell’economia, la strada meno dolorosa e più lineare passa attraverso l’aumento del disavanzo pubblico, il quale crea quella «liquidità tutta particolare» che è l’unica compatibile con un desiderio di riduzione della posizione debitoria del settore privato. Come vedremo, in Italia è stata adottata una strada ben diversa.

La liquidità può essere immessa nel circuito dei pagamenti attraverso canali diversi. Può essere (i) creata ex nihilo dalla banca centrale, con un accredito diretto sul conto del governo, oppure (ii) recuperata da depositi inattivi già esistenti, attraverso la vendita di titoli del debito pubblico ai risparmiatori, e rimessa in circolazione attraverso la spesa pubblica, o ancora, ed è una soluzione intermedia tra le prime due, (iii) creata ex nihilo dalla banca centrale contestualmente all’acquisto – poco importa se sul mercato primario o secondario – dei titoli del debito pubblico, il cui detentore diventa dunque non già un soggetto privato, bensì la stessa banca centrale. Qualunque sia la tecnica adottata, ciò che conta, affinché la liquidità venga immessa nel circuito dell’economia, è la presenza di un disavanzo del settore pubblico. Una creazione di liquidità in assenza di disavanzo pubblico si tradurrebbe in una sterile sostituzione tra attivi finanziari detenuti da soggetti privati (asset swap), che difficilmente contribuirebbe all’aumento della domanda aggregata.[8]

Nelle nazioni in cui tesoro e banca centrale sono allo stesso livello gerarchico, l’idea di generare un disavanzo pubblico adeguato alla portata della crisi appena scoppiata nel 2008 incontra certamente resistenze di carattere politico e ideologico, che hanno radici profonde nello scontro fra teorie economiche (scontro caratterizzato, soprattutto fino al 2008, da un’egemonia schiacciante della teoria che demonizza il disavanzo pubblico e in generale l’intervento dello Stato in economia).

Nell’eurozona, alle resistenze di tipo ideologico si devono aggiungere gli impedimenti di tipo istituzionale, costruiti proprio con l’intento di incardinare la visione teorica statofobica in un sistema di vincoli come quelli al disavanzo pubblico definiti a Maastricht nel 1992, o quello che fa divieto esplicito alla BCE (art. 123 dello statuto) di acquistare titoli del debito pubblico dei paesi membri su base regolare. Il fatto che la BCE, in virtù del suo livello gerarchico sovranazionale, possa di fatto rifiutarsi di immettere liquidità in favore di un governo nazionale, fa sì che, dei tre canali menzionati sopra, a rigore, soltanto il secondo è ammissibile. In quanto lo Stato nazionale non ha una banca centrale a propria esclusiva disposizione, e dunque non è più dotato di sovranità monetaria, non gli resta che procacciarsi la moneta, che non può emettere, presso i detentori di capitale finanziario che accettano di acquistare i suoi titoli di debito, sottostando alle loro condizioni, ai loro capricci e ai loro giudizi. Un governo nazionale dell’eurozona, anche qualora volesse concedersi di sforare il limite del deficit del 3% sancito dal patto di stabilità e crescita, potrà permetterselo solo se sarà in grado di convincere i gestori di capitali finanziari ad acquistare i suoi titoli del debito. Gli investitori, a loro volta, per acquistare i titoli, si aspetteranno di vedere remunerato un rischio di default, comunque venga calcolato (cioè male, in un misto di convenzioni discutibili e umori quotidiani), e che in un paese con piena sovranità monetaria sarebbe semplicemente pari a zero. Si rovescia così il rapporto fra Stato e mercato: se lo Stato impone legalmente sul suo territorio l’uso di una moneta su cui non ha sovranità, non è lo Stato a disciplinare il mercato, ma il mercato a disciplinare lo Stato.

Torniamo ora all’Italia. Nel contesto appena descritto di crisi, sia internazionale, sia specifica dell’eurozona, l’Italia si presenta con un debito privato accumulato negli anni, come in altri paesi del globo, eppure il settore privato italiano non dà il via allo stesso processo di balance sheet recession che si può osservare altrove (Giappone, USA, Regno Unito, Canada, ecc.). Con l’aiuto della Figura 1 si può vedere come, tra il 2007 e il 2011, in Italia si assiste a una sostanziale frenata della dinamica crescente del credito bancario (cui corrisponde il debito di famiglie e imprese), ma la vera e propria riduzione dei debiti privati avviene soltanto a partire dal 2012.

Non solo. La Figura 2 mostra anche un’altra anomalia: la riduzione dell’indebitamento privato non si verifica contestualmente alla riduzione dei valori della ricchezza finanziaria delle famiglie, che decresce costantemente tra il 2007 e il 2011, ma a partire dal 2012, in cui il valore della ricchezza finanziaria torna ad aumentare. Se si guarda poi all’andamento del prodotto interno lordo, il quadro si complica ulteriormente, perché la ripresa del valore delle azioni e l’inizio della restituzione dei debiti avviene in coincidenza con la riduzione del reddito dell’economia (la seconda recessione) generata dalla stretta fiscale inaugurata dal governo Monti nel 2012. L’Italia quindi ha sperimentato una forma di ristrutturazione dello stato patrimoniale diversa sia dalla tipica balance sheet recession – in cui la riduzione del debito privato comincia quando la ricchezza azionaria crolla – sia dalla tipica crisi da domanda insufficiente – in cui la riduzione del debito privato si manifesta quando il PIL torna a crescere. In Italia, la riduzione dei debiti sia delle famiglie che delle imprese comincia solo nel 2012, quando i valori della ricchezza azionaria tornano ad aumentare mentre il PIL torna a diminuire.

Su questa anomalia occorre riflettere, per capire il ruolo giocato dalla BCE, che inaugura proprio nel 2012 la stagione del whatever it takes, in sincrono con la manovra di politica fiscale restrittiva messa in piedi dal governo di Mario Monti (alla cui nascita ha attivamente contribuito la BCE, come si ricorderà), e proseguita nello stesso segno, sebbene con piglio meno severo, dai governi successivi.

Figura 2 – Variazioni componenti dello stato patrimoniale del settore delle famiglie


Elaborazioni su dati Eurostat.

4. La ristrutturazione indotta per via politica.

Innanzitutto, il fatto che il settore privato non dia inizio al deleverage vero e proprio, ma si limiti a un freno all’espansione dei debiti negli anni dal 2007 al 2011, non è difficile da spiegare. Notoriamente il debito del settore privato italiano, per quanto con una dinamica in crescita, non ha nel 2008 assunto valori, in rapporto al PIL, paragonabili a quelli di altri paesi affetti da sindrome  di balance sheet recession. I debiti di famiglie e imprese ammontano al 121% in Italia, inferiori a quelli osservabili in Gran Bretagna (225%), Giappone (163%), Spagna (221%), USA (174%), Canada (138%) e perfino nel paese europeo risparmiatore per eccellenza: la Germania (128%).[9] Inoltre, in Italia i tassi di crescita del PIL, per le ragioni che abbiamo ricordato sopra, erano molto fiacchi anche prima della crisi, il saldo commerciale con l’estero era cronicamente in disavanzo e abbiamo visto che i risparmi delle famiglie si ritrovano, ancor prima del 2008, stabilmente dimezzati rispetto al 1995 (l’anno precedente il rientro nei ranghi dei cambi fissi). In breve, l’Italia nel 2008 è sì un paese con un debito privato crescente, ma anche con un reddito stagnante e un affanno che si trascina dietro da anni. Queste non sono le condizioni ideali per affrontare uno sforzo in direzione del taglio delle spese e degli investimenti, da parte di imprese e famiglie. Va notato anche che il Giappone negli anni 90 è entrato in recessione da balance sheet con un settore delle imprese relativamente più in salute e più somigliante a quello tedesco nel primo decennio dell’euro: surplus commerciale, elevata competitività internazionale delle imprese, elevati flussi di cassa da utilizzare appunto come risorsa liquida per ridurre i debiti pendenti col sistema bancario. Allo scoppio della crisi, le imprese e le famiglie italiane provano invece a resistere, dando luogo a un comportamento anticiclico che in altri paesi affetti da balance sheet recession non si è verificato. Le imprese italiane continuano ad indebitarsi fino a tutto il 2008, nonostante la caduta dei profitti, e riducono i debiti e gli investimenti in capitale fisso soltanto nel 2009 per poi aumentarli, seppur di poco, nel biennio successivo. Le famiglie, anziché puntare subito ad aumenti di risparmio, lasciano che i risparmi diminuiscano ulteriormente (fino a raggiungere il 2.4% del PIL nel 2011).

Il paese arriva dunque alla fine del 2011 senza aver vissuto una vera e propria riduzione dei debiti privati, fatta eccezione per il solo anno 2009, in cui tale riduzione si verifica in misura ridotta e temporalmente circoscritta.

Nel 2012 assistiamo a un netto cambio di strategia da parte sia della BCE che dei governi Italiani, da Monti in poi. Al di là delle dichiarazioni date in pasto all’opinione pubblica, come quella di Draghi di salvare l’euro a tutti i costi, o quella di Monti di volere reperire risorse per la crescita attraverso la riduzione del debito pubblico, ciò che si può evincere, dall’operazione sincronizzata di politica fiscale e politica monetaria che viene inaugurata, è un tentativo di far partire per via politica quella lenta riduzione dell’indebitamento privato che per via spontanea non si è ancora attivata.

Figura 3 – Titoli e disavanzo pubblico in Italia

Elaborazioni da dati Eurostat

Vediamo innanzitutto la politica fiscale. Dopo anni di timidi tentativi di deroga agli stretti vincoli fiscali, pagati con tassi d’interesse sempre più elevati, la politica fiscale si è risolta per un giro di vite restrittivo, che ha fatto balzare l’avanzo primario da una media di 0.07% del Pil degli anni 2009-11 al 2.30% del 2012 per attestarsi in una media dell’ 1.68% dal 2012 al 2017. Sebbene questa politica sia inquadrabile come il ritorno alle solite regole del gioco dei vincoli di Maastricht, rinforzati col Fiscal Compact (tagli allo stato sociale o aumenti di pressione fiscale premiati da risparmi di spesa pubblica per interessi), di fatto, ciò che avviene tra il 2012 e il 2014 è un aumento delle emissioni di titoli del debito pubblico ben superiore alle esigenze di coprire la spesa per interessi e il disavanzo totale. L’emissione netta di titoli del debito pubblico in Italia è stata nel 2012 pari a 3.22% contro un disavanzo di 2.97%, nel 2013 pari a 5.33% contro un disavanzo di 2.93%, nel 2014 pari a 4.01% contro un disavanzo di 3.05% (Figura 3).

L’emissione di titoli del debito pubblico superiore al disavanzo è di per sé equivalente a un rastrellamento netto di liquidità dal settore privato (risparmiatori) da parte del governo italiano. Questo rastrellamento ha fatto seguito a un periodo di forte crescita delle scorte di liquidità inattiva tra il 2006 e il 2010, documentato dai depositi bancari, che ha a sua volta preceduto e accompagnato il calo della ricchezza finanziaria, in particolare di quella azionaria, tra il 2007 e il 2011. Come sottolineano i teorici del circuito monetario e diversi economisti post-keynesiani,[10] l’aumento di scorte liquide inattive è un fattore cruciale che spiega come mai le imprese non riescono a ripagare i debiti verso il sistema bancario. In questa prospettiva, l’obiettivo della politica fiscale inaugurata nel 2012, più che creare le condizioni per la crescita attraverso la liberazione di risorse finanziarie intrappolate nel debito pubblico, come la narrazione corrente suggerisce, sembra essere quello di creare le condizioni per un rimborso dei debiti privati tramite la riduzione delle scorte liquide accumulate nel tempo e il dirottamento di una proporzione non trascurabile del risparmio dai depositi bancari al mercato finanziario.

La politica monetaria gioca di sponda. Soprattutto dopo la famosa dichiarazione di Draghi di luglio, la BCE garantisce che i rendimenti dei titoli del debito pubblico si collochino su valori ben più bassi degli anni precedenti. Rendimenti più bassi significa prezzi in rialzo. Il settore delle famiglie italiane, che aveva già cominciato a decumulare titoli del debito pubblico a partire dal 2009, approfitta dell’accresciuto valore dei titoli per ricominciare a venderli, e li vende in dosi massicce per tutti gli anni seguenti, dal 2012 al 2017. La vendita massiccia di titoli del debito pubblico è stata inizialmente assorbita dalle banche, che li accumulavano fin dal 2008, e dal sistema finanziario, e successivamente, soprattutto dal 2015 con il programma di quantitative easing, dalla stessa BCE.

In cambio dei titoli, le famiglie ricominciano a comprare azioni, e questo aggiustamento di portafoglio consente al mercato azionario di riprendersi stabilmente. In definitiva, se il reddito disponibile del settore delle famiglie subisce un crollo di altri due anni (2012-13) seguito da una ripresa faticosa e lenta, dal punto di vista dello stato patrimoniale, il settore delle famiglie ottiene un recupero stabile e duraturo dei valori della ricchezza finanziaria, che tornano a crescere nel 2012, dopo cinque anni consecutivi di perdite. Questo recupero della ricchezza azionaria costituisce a sua volta una fonte importante di liquidità disponibile per le imprese, che cominciano a ridurre l’indebitamento presso il sistema bancario.

Da questa descrizione si può evincere come la politica perseguita dalla BCE, tesa a ridurre i tassi d’interesse anche attraverso il rastrellamento massiccio di titoli del debito pubblico dal mercato (in deroga al suo stesso statuto), non è stata coerente con l’obiettivo di rianimare la domanda aggregata, privata o pubblica. Piuttosto, è risultata funzionale allo scopo di riattivare i valori della ricchezza finanziaria, e in particolare azionaria, dopo cinque anni di caduta.

L’azione sincronizzata di politica fiscale e monetaria ha quindi consentito di realizzare non già una riduzione del debito pubblico, che infatti è aumentato, e nemmeno una ripresa del reddito complessivo dell’economia, che infatti è diminuito, bensì una riduzione del debito privato attraverso due canali: da un lato, un risparmio forzato indotto dalla pesante manovra recessiva che ha inibito gli investimenti e compresso le abitudini di spesa resilienti negli anni precedenti, dall’altro, una riallocazione della ricchezza finanziaria accumulata negli anni, e giacente in scorte inattive o in titoli pubblici, in direzione del mercato azionario.

La ristrutturazione dello stato patrimoniale di famiglie e imprese, che in altri paesi si genera spontaneamente fin dalla crisi del 2008-09, in Italia viene indotta a partire dal 2012 dai responsabili della politica economica. La via attraverso cui viene perseguito quello che sembra del tutto legittimo considerare come un obiettivo implicito delle autorità, cioè la riduzione del peso reale dei debiti privati, è una strada recessiva che affida l’aggiustamento degli squilibri patrimoniali alla riallocazione della ricchezza finanziaria, tutelandone il valore prima ancora della rendita[11], e restaura quel primato della finanza sull’economia reale (e sull’azione del governo) che l’architettura istituzionale dell’eurozona ha sempre garantito.

5. Strategie alternative dopo lo shock del 2020

Alla luce delle argomentazioni appena avanzate, mi sembra possibile interpretare l’obiettivo della riduzione dei debiti privati esplicitato da Draghi nel 2020 come una stella polare su cui la stessa BCE si è orientata fin dal 2012. Con il suo articolo sul Financial Times, Draghi rende tale obiettivo esplicito e al contempo implicitamente riconosce l’inadeguatezza degli strumenti finora utilizzati nel tentativo di perseguirlo alla luce della mutata situazione. Per affrontare il nuovo pesante shock legato alla pandemia di Covid-19 in un contesto in cui non eravamo ancora usciti dal sentiero di deleverage intrapreso negli ultimi otto anni, non è più concepibile salvare un impianto istituzionale, come quello a cui ci siamo abituati da almeno trent’anni, che vincola fortemente le politiche fiscali in disavanzo.

Se si concorda nel sostenere che il peso reale dei debiti privati sia il vero anello debole dell’economia finanziaria, e che al confronto il problema del debito pubblico è fumo negli occhi, va tuttavia ribadito che il sentiero perseguito per ottenere la riduzione del peso dei debiti privati è tutt’altro che neutrale. Dichiarare che il debito pubblico deve farsi carico dell’alleggerimento del debito privato e che dovremo abituarci a convivere con livelli ben più elevati di debito pubblico può aprire la strada a tutto uno spettro di soluzioni che vanno dallo schiavismo alla rivoluzione. In conclusione di questa riflessione, qui di seguito elenco sommariamente alcune strategie possibili.

a.Soluzione reazionaria: debito pubblico e riduzione del welfare.

Se prendiamo ad esempio gli anni 80, possiamo ben concepire un contesto in cui la riduzione dei debiti privati, e il conseguente aumento del debito pubblico, viene a creare una pressione, per tramite dei mercati finanziari, in favore di un ulteriore smantellamento dell’intero impianto dei servizi pubblici, cioè di tutto lo strumentario inventato e costruito e perfezionato nel XX secolo dalle socialdemocrazie per evitare che le disuguaglianze e la povertà conducessero a instabilità sociale, a tentativi di sovversione e rivoluzione o al ripiegamento verso l’autoritarismo fascista. I tagli alle pensioni, ai redditi da lavoro, alla sanità pubblica, all’istruzione, o, detto con parole più eleganti, il perseguimento dell’obiettivo di «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere»[12], tutto ciò non solo è discutibile sulla base di ragioni di giustizia sociale, ma è anche altamente rischioso e controproducente dal punto di vista stesso di chi desidera conservare la struttura di potere oggi esistente nel sistema economico e politico. Chiunque rifiuti questo scenario deve tenere ben presente che, per evitarlo, occorre innanzitutto abbandonare la convenzione (che in alcuni casi, come nell’aera euro, è un vincolo incarnato nel funzionamento delle istituzioni) secondo cui i titoli del debito pubblico devono essere collocati unicamente o prevalentemente sui mercati finanziari, alle condizioni decise dagli investitori finanziari. E’ prevedibile che tanti economisti che oggi invocano l’aumento del debito dello Stato per salvare le imprese private, ma che fino a gennaio 2020 raccontavano che lo Stato non ha più “spazio fiscale” a disposizione, torneranno presto a invocare aumenti di pressione fiscale e tagli alla spesa pubblica per potere “risanare” il debito pubblico insostenibile, facendosi avvocati, purtroppo ancora troppo ascoltati, dello scenario reazionario appena descritto.

b. Soluzione giapponese: monetizzazione del debito pubblico.

Per rendere socialmente tollerabili livelli del debito pubblico ben più elevati di quelli a cui oggi siamo abituati, occorrerebbe una banca centrale disposta a erogare tutta la liquidità necessaria a coprire tutto il disavanzo di cui il governo ha bisogno. Per ottenere questo risultato, va rimesso in questione il precetto monetarista dell’indipendenza della banca centrale dal governo. Questo precetto in Italia si è concretizzato nel famoso divorzio del 1981, per decisione del ministro del Ministero del Tesoro Andreatta presa in tutta riservatezza e senza passare da un voto in parlamento. L’istituzione della BCE ha ulteriormente cristallizzato questa linea con il divieto, sancito nel suo statuto, di acquisire titoli del debito pubblico su base regolare e con l’abbandono (unico caso al mondo conosciuto) della funzione di prestatore di ultima istanza del singoli governi dei paesi membri. L’acquisto massiccio dei titoli di stato da parte della banca centrale oggi viene invocato per lo più in nome dell’emergenza e in assenza di altre riforme istituzionali dell’eurozona che richiederebbero ben più tempo per essere approvate.[13] Nulla esclude, però, che possa diventare una politica strutturale e permanente, come in Giappone, in cui l’acquisto prolungato dei titoli di stato da parte della banca centrale è tale da potere essere considerato almeno una monetizzazione implicita.[14]

Il Giappone ha livelli del debito pubblico ben più elevati dell’Italia, storicamente pari soltanto al debito britannico ai tempi delle guerre napoleoniche. In conseguenza della balance sheet recession iniziata in Giappone negli anni 90, il debito pubblico è salito in vent’anni al 250% del Pil, di cui l’88% detenuto nelle mani di istituzioni pubbliche o semi-pubbliche. L’elevato debito pubblico giapponese non grava sul suo servizio (i tassi d’interesse, sotto il controllo dalla banca centrale, sono prossimi allo zero), non è minimamente inflazionistico, e nemmeno pesa sullo stato sociale. L’unico costo significativo consiste in una bassa redditività delle banche regionali locali che non riescono a diversificare gli investimenti come le grandi banche.[15] II governo, in questo scenario, può realizzare ogni anno il livello di disavanzo che ritiene necessario, la cui approvazione è sottratta al giudizio dei mercati finanziari e riaffidata alle dinamiche della politica nazionale.

c.Soluzione capitalistica tradizionale: crescita.

La riduzione del peso reale dei debiti può essere ottenuta, e storicamente è stata ottenuta, attraverso un aumento del valore del prodotto interno lordo. Questo è quanto avviene in periodi di forte crescita economica, in cui è il Pil reale ad aumentare, o in periodi di inflazione, in cui ad aumentare sono i prezzi di beni e servizi. Di solito i due fenomeni vanno di pari passo: una crescita sostenuta si accompagna anche a un aumento generalizzato dei prezzi.

Per quanto riguarda la crescita, va detto che un paese con un elevato tasso di disoccupazione strutturale come l’Italia avrebbe risorse umane in abbondanza per espandere il volume della produzione, e lo Stato, libero da divieti insensati alla politica industriale, potrebbe farsi carico di dirigere il sistema produttivo modificandone sia la quantità, sia la composizione, sia le tecniche produttive. Sarebbe certamente auspicabile non ripetere la scelta strategica, che ha caratterizzato anche gli anni d’oro della crescita italiana del dopoguerra,[16] di affidare il traino della crescita economica prevalentemente alla domanda estera, ma rivalutare il ruolo fondamentale della domanda interna, per il potenziamento della quale è a sua volta necessaria un’adeguata politica di redistribuzione del reddito in direzione più egualitaria.

Resta da valutare attentamente il problema della compatibilità tra crescita economica e ambiente, poiché il nostro sistema produttivo è fondato prevalentemente su un paradigma della trasformazione energetica ancora fermo alle innovazioni del XIX secolo (elettricità e motore ad autocombustione) che richiedono l’uso intensivo di fonti energetiche esauribili, di cui peraltro l’Italia è scarsamente dotata. Subordinare il problema della sostenibilità ambientale alla necessità di un aumento quantitativo del Pil è una strategia problematica e potenzialmente pericolosa. Dalla prospettiva di chi deve indirizzare la politica industriale a fini ecologici, è sensato che la priorità resti assegnata ai fini ecologici, e non alla riduzione dei debiti privati. Le risorse naturali e l’ambiente possono essere, in assenza di innovazioni, vincoli reali alla crescita quantitativa, ma sono anche una sfida per programmi di investimenti, sia pubblici che privati, di tipo schumpeteriano, cioè quegli investimenti che cambiano il mondo: la tecnologia, le abitudini, le merci e i servizi disponibili.

d.Soluzione light the fire (and control it!): l’inflazione.

Se l’idea di promuovere la crescita incontra il favore di molti economisti, l’idea di promuovere l’inflazione attraverso incrementi di spesa, tanto più se attraverso politiche di disavanzo pubblico, incontra per lo più dissenso e richiama alla memoria il difficile periodo della stagflazione degli anni settanta. Eppure, lasciare alle imprese margini più ampi per aumentare i prezzi, diciamo intorno al 4-5% annuo, può essere una via per alleviare il peso dei debiti che sono fissati in termini nominali. I problemi principali legati all’inflazione sono di due tipi. Innanzitutto, l’inflazione penalizza anche i redditi da lavoro, soprattutto se questi non sono indicizzati, quindi rischia di avere conseguenze distributive regressive. Qualora l’indicizzazione dei salari non sia politicamente realizzabile, la politica fiscale può dotarsi di diversi strumenti per farsi carico degli effetti distributivi indesiderati. Un secondo problema, peraltro connesso al primo, è legato agli effetti dell’inflazione sull’equilibrio esterno del paese, su cui occorre fare tanto più attenzione quanto più alta è la quota degli input produttivi non sostituibili che vanno importati dall’estero. La discussione sull’equilibrio esterno è articolata, controversa e dipendente dal contesto istituzionale in cui il paese si trova (moneta unica, cambi controllati, cambi flessibili, controllo dei movimenti di capitale, controllo dei flussi di merci), quindi direi che è saggio non affrontarla in questa sede. Sottolineo soltanto che l’ipotesi qui avanzata consiste nel fissare target d’inflazione più alti di quelli a cui siamo abituati, purchè non esplosivi, il cui effetto, anche sull’equilibrio esterno, potrebbe essere gestibile con opportune politiche compensative.

Un problema diverso, legato alla strategia inflazionistica, è legato al suo potenziale fallimento. In un contesto di balance sheet recession, incentivare la spesa e l’inflazione può rivelarsi un’operazione difficile, come ancora il caso giapponese sembra suggerire. Iniezioni di liquidità per tramite del disavanzo pubblico possono rivelarsi insufficienti se queste vengono prevalentemente destinate alla riduzione dell’indebitamento privato verso il sistema bancario.

e.Soluzione mesopotamica: cancellazione dei debiti

Una soluzione radicale e seducente (seducente in quanto radicale) promossa da economisti come Steve Keen[17] e Michael Hudson[18], consiste nella cancellazione delle posizioni creditorie e debitorie accumulate negli anni passati. Il giubileo del debito è un vero e proprio tabù che disorienta chi è abituato a pensare alla società come un’organizzazione umana fondata sul rispetto di leggi e contratti, e allo Stato come l’autorità che li fa rispettare. La proposta rifiuta nettamente la visione molto in voga sulle virtù dell’austerità, con tutta l’ideologia del creditore a questa associata, secondo cui il debito è sinonimo di colpa e il “rimettere i propri debiti” è un precetto religioso non applicabile nella società contemporanea. Anche in ottica cartalista, oltre che in ottica liberale, la proposta del giubileo dei debiti potrebbe suscitare qualche diffidenza, in quanto la capacità dello Stato di far rispettare leggi, obblighi e contratti è condizione necessaria affinché lo Stato stesso sia in condizioni di emettere la moneta legale che abbia potere liberatorio. Uno Stato che non fosse in grado di far rispettare i contratti perderebbe o almeno indebolirebbe la sua stessa sovranità monetaria. Se uno Stato (o un accordo fra Stati) sancisse la cancellazione di debiti e crediti, dal giorno dopo sarebbe ancora considerato un’autorità credibile?

Sta di fatto che la cancellazione dei debiti non solo era applicata con regolarità periodica da civilizzazioni del passato come quelle mesopotamiche,[19] senza che per questo i sovrani venissero messi in discussione, ma è stata applicata in diverse occasioni storiche, e anche di recente, come alla fine della seconda guerra mondiale nei confronti dei debiti di guerra della Germania. Certo, la proposta mesopotamica si riferisce soprattutto alla cancellazione dei debiti privati, tuttavia anche la cancellazione del debito pubblico può essere un veicolo attraverso cui uno Stato – in un quadro istituzionale e culturale che non gli concede un disavanzo privo di costo e di rischio – può farsi carico di assorbire il debito privato con un margine di manovra più ampio.

Il vantaggio di alleviare i debitori da un sentiero di sofferenze e sacrifici può essere di beneficio all’intera società, che può ripartire da nuove basi per costruire il suo futuro. Lo svantaggio, invece, è che un’operazione di reset del sistema così concepita non modifica nulla, di per sé, dei meccanismi di funzionamento del sistema che viene resettato, e che idealmente andrebbe riformato in modo tale da prevenire il ricrearsi di problematiche generate dall’eccesso di indebitamento.

Mi sembra doveroso, in conclusione, precisare che ciascuna linea strategica delineata sopra è concepibile sia per un gruppo di paesi, per esempio tutti o alcuni paesi dell’Eurozona, sia per un paese singolo, nel caso l’Italia volesse intraprendere uno di questi percorsi in solitaria. Come si vede, nell’ambito delle scelte che si aprono per favorire la riduzione dei debiti privati, alcune potrebbero condurre anche ad esiti altamente indesiderabili dal punto di vista sociale (si pensi alla strategia a, che sicuramente troverà sostenitori in certi circuiti vicini al mondo delle imprese, della finanza, dei produttori di teoria economica e di trasmissioni televisive). Dovrebbe essere compito dell’azione politica, ed è al di fuori dello scopo di questo scritto, stabilire quale strategia seguire, eventualmente con quali altri paesi, e soprattutto nell’interesse e con il sostegno di quali classi sociali.


[1] Draghi, M., We face a war against coronavirus and we must mobilise accordingly, Financial Times, 25 Marzo 2020. https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b

[2] Brancaccio, E., Draghi indica il futuro ma dribbla una domanda: chi pagherà questa crisi, Econopoly, 29 marzo 2020. https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/03/29/draghi-crisi-futuro/

[3] Graziani, A. Cambiare tutto per non cambiare niente, Una spregiudicata analisi 
della politica economica del nostro Paese, Estratto da AZIMUT n° 19 rivista bimestrale di economia politica e cultura – settembre-ottobre 1985.

http://www.criticamente.com/economia/economia_politica/Graziani_Augusto_-_Cambiare_tutto_per_non_cambiare_niente.htm

[4] Gallino, L., La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, 2003.

[5] Steve Keen, The global financial crisis, credit crunches and deleveraging, Journal of Australian Political Economy, 64, 22 – 36, 2009.

[6] Koo, R.C., The Holy Grail of Macroeconomics. Lessons from Japan’s Great Recession, Singapore: Wiley, 2008.

[7] Seccareccia M. and M. Lavoie, Understanding the great recession: some fundamental Keynesian and Post-Keynesian insights, with an analysis of possible mechanisms to achieve a sustained recovery, Institute for New Economic Thinking, Working Paper n.37, 2006.

[8] Lavoie, M. Post-Keynesian economics: new foundations. Cheltenham, UK and Northampton, MA, USA: Edward Elgar, 2014, capitolo 4; Wray, R., Modern Money Theory. A primer on macroeconomics and sovereign monetary systems, Palgrave, Second edition, 2015, Capitolo 4.

[9] Roxburgh, C., S.Lund, T.Wimmer, E.Amar, C. Atkins, J.H. Kwew, R. Dobbs, J.Manyka, Debt and deleveraging: the global credit bubble and its economic consequences, McKinsey Global Institute, 2010.

[10] Rochon, L.P., Monetary economies of production, in Rochon L.P. and S. Rossi, An introduction to macroeconomics. A heterodox approach to economic analysis, Cheltenham, UK and Northampton, MA, USA: Edward Elgar, pp. 76 – 96, 2016.

[11] Seccareccia M., Which vested interests do central banks really serve? Understanding central bank policy since the global financial crisis, Journal of Economic Issues, 51(2), 341–50, 2017.

[12] https://it.wikiquote.org/wiki/Tommaso_Padoa-Schioppa

[13] Realfonzo, R., Finanziamento delle politiche e scenari del debito dopo il Covid-19, Economia e Politica, 15 aprile 2020. https://www.economiaepolitica.it/crisi-economica-coronavirus-italia-unione-europea-mondiale/debito-pubblico-2020/; Stirati, A., L’Italia, l’Europa e la crisi da coronavirus, Economia e Politica, 1 aprile 2020. https://www.economiaepolitica.it/l-analisi/crisi-da-coronavirus-italia-europa/

[14] Bossone, B., Monetizzazione del debito durante il Covid-19: c’è molto da chiarire, Economia e Politica, 29 aprile 2020. https://www.economiaepolitica.it/crisi-economica-coronavirus-italia-unione-europea-mondiale/monetizzazione-del-debito-pubblico-covid-19-chiarimenti-significato-signoraggio/

[15] Minenna, M., Il paradosso del Giappone: debito enorme, rischi minimi, Il sole 24 ore, 24 dicembre 2018; Koo (2008), op. cit.

https://www.ilsole24ore.com/art/il-paradosso-giappone-debito-enorme-rischi-minimi-AE02ll4G

[16] Graziani  A., Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri, 1998.

[17] Keen S., Coronavirus: inflation or deflation? Why we need a modern debt jubilee now, Brave New Europe, 7 aprile 2020.
 https://braveneweurope.com/steve-keen-coronavirus-inflation-or-deflation-why-we-need-a-modern-debt-jubilee-now

[18] Hudson, M. The Road to Debt Deflation, Debt Peonage, and Neofeudalism, Levy Economics Institute of Bard College, Working paper n.708, 2012.

[19] Graeber, D., Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, 2012.

L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato

In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile.

In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.