Premessa
Il Politecnico di Milano (Energy Strategy Group[1]) ha presentato il rapporto “energie rinnovabili”. È un report pieno di informazioni utili per chi vuole declinare nuove politiche industriali, e per chi crede nello sviluppo di un nuovo paradigma tecno-economico. Sebbene gli investimenti aggregati nel mondo siano complessivamente in riduzione – “non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite” (Keynes) [2] – gli investimenti per realizzare nuovi impianti da fonti rinnovabili hanno raggiunto i 290 mld di euro nel 2015, con una crescita del 21% rispetto al 2014, superando il picco del 2011. L’aspetto interessante di questi investimenti è lo sviluppo “potenziale” di un nuovo paradigma tecno-economico. Se i tassi di crescita del PIL e dei profitti, data una certa tecnica, sono diminuiti, la principale ragione risiede nella fine di un modello tecno-economico fondato sulla meccanica. Sostanzialmente il modello (paradigma) meccanico non consente più di ri-produrre il capitale investito. La crisi del 2007, osservata da un’altra angolazione, si è incaricata di bruciare il capitale non necessario alla riproduzione del modello meccanico. Ci sono altre e solide spiegazioni[3], ma la sensazione è quella della fine di un ciclo.
Gli investimenti in fonti rinnovabili, se attentamente analizzati, potrebbero diventare una buona base per compensare la caduta del capitale e costruire un paradigma adeguato per sostenere la crescita. Ovviamente servirebbe una “politica economica” o “Piano” all’altezza per rispondere alla crisi di struttura del capitale, ma le attuali istituzioni economiche navigano a vista e senza grandi progetti di cambiamento[4]. Alla fine, se la produzione di beni e servizi “tradizionali” è interessata da una domanda di sostituzione, inevitabile rispetto ai livelli di reddito raggiunti, la produzione di beni e servizi legati alla green economy potrà solo crescere, in particolare per le aree di nuova industrializzazione. Si tratta di domanda estera ad alto valore aggiunto e ad alto contenuto tecnologico che cambierà il contenuto della crescita, sia dei paesi emergenti e sia dei paesi che offrono tecnologia adeguata. Come ci ricordava Sylos Labini “in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione…”[5].
Come si posiziona l’Italia nel consesso internazionale? Tra le tante informazioni utili del rapporto del Politecnico di Milano, una spiega lo stato e il probabile futuro dell’Italia nella così detta green economy: in Italia “non vi sono … leader tecnologici riconosciuti a livello globale sulle tecnologie chiave delle rinnovabili”. Seguo da tempo la relazione tra green economy e politica industriale, ma un giudizio così perentorio non mi era ancora capitato di leggerlo da parte di istituti di ricerca diversi dal “Forum degli economisti della CGIL”. Quanto è grave e profonda la crisi italiana? Tanto e troppo allo stesso tempo.
Gli investimenti nelle fonti rinnovabili
Gli investimenti nelle fonti rinnovabili hanno registrato dei tassi di crescita importanti e significativamente più alti rispetto agli investimenti “tradizionali”. Il fenomeno non è nuovo, ma la distribuzione internazionale degli stessi consente di intercettare le politiche energetiche e industriali sottese. Se la produzione di energia da fonti rinnovabili permette di affrancare la crescita economica da petrolio e derivati, si pensi al posizionamento internazionale della Cina, le implicazioni industriali non sono meno importanti. Infatti, le conoscenze tecniche e la produzione di beni intermedi e strumentali per realizzare gli impianti sono, probabilmente, molto più importanti della stessa produzione di energia. Se cambia la domanda, deve cambiare anche l’offerta di beni e servizi connessi alla domanda. Infatti, i maggiori investimenti sono legati alla realizzazione di pale eoliche, nuovi materiali, una nuova generazione di pannelli solari, beni strumentali per produrre nuovi beni strumentali, trasformazione delle materie seconde in materie prime, eccetera.
Fonte: Energystrategy, Renewable Energy Report, maggio 2016
Fonte: Energystrategy, Renewable Energy Report, maggio 2016
La distribuzione degli investimenti per settore dà conto di cosa si cela “dentro la scatola nera degli investimenti”, più precisamente lo sviluppo tecnologico sotteso agli stessi. All’interno degli investimenti (mondiali), il fotovoltaico (39%), l’eolico (31%) e l’idroelettrico (22%) rappresentano il principale sbocco degli stessi e, inevitabilmente, sosteranno lo sviluppo dell’industria che direttamente e indirettamente ne sarà coinvolta. Persino gli Stati Unititi dedicano una quota crescente degli investimenti nel fotovoltaico e nell’eolico. Non si tratta solo di sviluppare il mercato domestico. In gioco c’è la divisione internazionale del lavoro. La crescita degli investimenti nelle fonte rinnovabili in Asia, Africa e Americhe nel loro insieme, disegnano uno scenario più complesso di quello che potrebbe apparire a prima vista.
Fonte: Energystrategy, Renewable Energy Report, maggio 2016
Tutte le principali aree economiche del mondo, al netto dell’Europa, hanno predisposto dei piani di investimento senza precedenti. L’Asia è diventata indiscussa leader con un contributo pari al 55% del totale, per un contro valore di 110 mld di euro; l’Africa ha moltiplicato per 20 il suo livello di investimenti (più o meno rappresenta 1/3 delle risorse europee); l’Europa perde terreno, passando dal 42% degli investimenti complessivi del 2008 al 23% del 2015; gli Stati Uniti, invece, intravvedono nella green economy una opportunità. Infatti, gli investimenti passano da 55 mld del 2008 a 70 mld nel 2015. Nel panorama europeo, Regno Unito, Germania e Francia rappresentano il 45% del totale degli investimenti nelle rinnovabili.
Fonte: Energystrategy, Renewable Energy Report, maggio 2016
L’Italia nel consesso internazionale
Sebbene l’Italia produce energia da fonti rinnovabili in misura importante, la capacità di giocare un ruolo attivo nello sviluppo del nuovo paradigma tecno-economico è molto limitato. La contrazione degli investimenti intervenuta dal 2010 al 2015 è lo specchio fedele della qualità del nostro tessuto produttivo. Innanzitutto, gli investimenti sono legati agli incentivi fiscali a pioggia, con dei costi per l’erario fin troppo alti[6]; in secondo luogo, l’industria italiana del settore non intercetta la domanda internazionale di beni e servizi per produrre energia da fonti rinnovabili. Solo attraverso la “speculazione” fiscale il Paese è riuscito a migliorare la produzione di energia da fonti rinnovabili, ma gli incentivi alla domanda hanno approfondito il ritardo di struttura. In altri termini, il legislatore ha fatto i conti senza l’oste[7].
Fonte: Energystrategy, Renewable Energy Report, maggio 2016
In molti si sciacquano la bocca con la competitività internazionale e il così detto made in Italy, ma la realtà è drammatica. Nell’internazionalizzazione degli investimenti legati alla green economy si osservano tre dinamiche: quello delle società finanziarie che esportano le filiere nazionali del settore (sono spesso tedesche, francesi e spagnole); quello delle technologies driven, ovvero i possessori di tecnologia chiave offrono tecnologia che viene poi implementata da soggetti presenti nel territorio interessato (è il caso della Germania con l’area asiatica); quello delle semplici acquisizioni delle utiliy per allargare il mercato per le produzioni in essere.
L’Italia è un paese che vive di mode e luoghi comuni. Si parla di innovazione, green economy e delle sue implicazioni industriali ed economiche, ma troppi dirigenti ed opinionisti sono solo dei ripetitori. Come già ricordato all’inizio, in Italia “non vi sono … leader tecnologici riconosciuti a livello globale sulle tecnologie chiave delle rinnovabili”. L’assenza dell’Italia in tutte le fasi di creazione del valore del settore pregiudica la capacità di concorrere alla realizzazione del nuovo paradigma tecno-economico.
L’effetto? Il lavoro buono non sarà di casa in Italia se non per le attività marginali. Una bella sfida per un “immaginario” piano per il lavoro italiano.
*Ricercatore nel campo delle politiche industriali, contrattazione e bilancio pubblico.
[2] Per una dettagliata rassegna delle posizioni di Keynes si veda: Roncaglia A., 2001, La ricchezza delle idee, storia del pensiero economico, Laterza, Bari; Variato A., 2004, Investimenti, informazione, razionalità, ed. Giuffrè, pp. 213-224).
[3] Si veda: Politiche espansive e crescita debole. Siamo in una stagnazione secolare? Di Vittorio Daniele – 1 aprile 2016; E’ dalle importazioni che nasce il taglio delle tasse Di Giorgio Gattei – 14 settembre 2015; Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato di Riccardo Realfonzo, Angelantonio Viscione – 2 dicembre 2014.
[4] Se la legge di Engel ha un senso, domanda e offerta devono cambiare, così come le istituzioni preposte al governo dello sviluppo.
[5] Labini P. S., 1993, “Progresso tecnico e sviluppo ciclico”, Laterza (Roma e Bari).
[6] L’Italia perde terreno sull’energia pulita Roberto Romano – 6 ottobre 2010; Ambiente, energia e sviluppo. Il lavoro dimenticato Di Roberto Romano, Sergio Ferrari – 15 aprile 2009.
[7] Il richiamo obbligato è al libro di Graziani A., 1997, I conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino.