Gli effetti dei cambiamenti climatici caratterizzati da aspetti particolarmente violenti rispetto all’esperienza comune, costituiscono una sollecitazione importante nell’assunzione di decisioni politiche finalizzate al contenimento di questi fenomeni, come quelle avviate con il Protocollo di Kyoto nel dicembre 1997 che saranno aggiornate nella Conferenza mondiale prevista a Parigi nel prossimo dicembre 2015.
Attualmente il consuntivo in tema di riduzione degli inquinanti ambientali è insoddisfacente. I risultati negativi, confermati dalle sedi competenti, non trovano una spiegazione né in eventuali approssimazioni nel calcolo dei fenomeni atmosferici, né nella natura degli interventi “teoricamente” necessari per ridurre la produzione di gas serra. Peraltro, nemmeno le discussioni sulle cause antropiche o meno dei fenomeni climatici – che sono state oggetto a loro volta di importanti verifiche – possono incidere sul giudizio negativo circa gli esiti delle politiche messe in opera. Se occorre trarre delle considerazioni critiche dalle esperienze passate in materia di controllo dei fenomeni climatici, queste vanno ricercate, almeno, in prima battuta, non tanto nel come la tecnologia possa assicurare il raggiungimento o meno di questi obiettivi, ma nelle condizioni applicative adottate. Queste consistono essenzialmente nel come distribuire le quote degli obbiettivi tra i vari paesi, affidandole prevalentemente al “buon cuore” dei vari paesi.
Non è, quindi, un caso se allo stesso tempo i paesi produttori di petrolio hanno continuato a incontrarsi per valutare le loro prospettive circa la produzione e sui prezzi del petrolio. Un recente incontro dell’OPEC (giugno 2015, Vienna) ha deliberato di mantenere inalterati i prezzi, assieme ad una ipotesi positiva della domanda di petrolio per i prossimi anni. Qualcuno ha previsto un raddoppio dei consumi dell’energia entro il 2040, con una crescita di gas e petrolio del 25 % entro il 2030.
Se le indicazioni dell’Opec sono distanti rispetto agli obiettivi della rivoluzione economica necessaria per accompagnare la riduzione dei consumi di combustibili fossili e la loro sostituzione con le fonti rinnovabili, è altrettanto vero che le previsioni espresse in sedi meno “interessate” convergono verso l’ipotesi di consumi energetici crescenti e con quote di combustibili fossili intorno al 70 % nell’anno 2040. Le forti riduzioni dei prezzi dei prodotti petroliferi avvenuti in questi mesi certamente suonano come una conferma di queste previsioni.
Nei secoli passati i cambiamenti economico-tecnologici che hanno accompagnato il passaggio dal legno al carbone e poi al petrolio, hanno segnato i caratteri della struttura produttiva e delle rivoluzioni industriali. Un richiamo a questa storia dovrebbe ricordare i connotati di queste necessarie rivoluzioni, incominciando a mettere a fuoco il fatto che c’è un ruolo dei paesi consumatori dei combustibili fossili, così come c’è un ruolo dei paesi produttori, che attualmente – contrariamente al passato – sono differenti ma che, in assenza di provvedimenti specifici, dovrebbero pagare il prezzo della attuale rivoluzione tecnologica-energetica. In ultima analisi, i paesi produttori di petrolio e gas sarebbero le prime vittime della rivoluzione tecnologica.
Prendendo in considerazione solo i Paesi aderenti all’Opec, mettere in discussione le esportazioni di questi prodotti, che rappresentano una quota non inferiore al 25% delle loro esportazioni totali e mai inferiori al 10% del PIL, con punte del 100% in alcuni paesi, significa condizionare quasi il 50% del loro PIL. In questa situazione troviamo anche paesi come la Russia, cioè il secondo produttore mondiale e il secondo consumatore di combustibili fossili, con un bilancio positivo delle esportazioni consistente. Problemi diversi, ma non meno impegnativi, si pongono i paesi che molto spesso non dispongono né dei mezzi finanziari, né delle competenze tecniche per ottimizzare un intervento sulle fonti rinnovabili. Immaginare che si possano assumere gli impegni previsti per la difesa del clima senza coinvolgere questi paesi e senza individuare i correttivi necessari, appare poco credibile e poco intelligente. Coinvolgere questi attori dovrebbe essere la prima “correzione” da attuare in sede di trattativa e programmazione internazionale.
Servirebbe una programmazione economica coerente con l’obiettivo di sostituire le fonti energetiche in uso, cioè programmare uno sviluppo capace di coinvolgere alcuni miliardi di abitanti di questo pianeta; una operazione eccezionale. Questa dimensione del problema potrebbe rappresentare un’opportunità o un ostacolo. Un’opportunità dal momento che la pluralità delle soluzioni positive consente di affrontare le diverse esigenze, trovando soluzioni per le diverse realtà senza penalizzazioni; un ostacolo se, invece, nella complessità di una gestione collettiva di un percorso rivoluzionario, si lascia spazio e agio a pretese egemoniche che sono ancora all’ordine del giorno nelle relazioni internazionali.
Sarebbe importante sviluppare e offrire, in opportune sedi internazionali, la capacità di valutazioni economiche sugli effetti degli interventi correttivi del sistema energetico esistente; effetti che possono essere differenti da paese a paese, ma che possono essere valutati sia a livello micro e sia a livello macro di economia nazionale. Senza un interesse economico diretto da parte dell’utente finale è difficile raggiungere un automatico successo di questa rivoluzione; ma occorre sottolineare anche l’esistenza di vantaggi macroeconomici per gli utenti finali se correttamente illustrati. La programmazione – complessiva – della rivoluzione ambiental-energetica non dovrebbe, peraltro, permettere comportamenti speculativi. Se l’avvio della nuova rivoluzione energetica può incontrare delle difficoltà, è tuttavia opportuno considerare la possibilità che si sviluppi una inversione di questa situazione; l’impiego delle attuali fonti energetiche potrebbe risultare ad un certo punto del tutto non competitiva, se non per delle quote marginali.
La questione che emerge in termini difficilmente eliminabili per affrontare il controllo climatico e l’introduzione di nuove tecnologie energetiche sta, dunque, nel governo dei cambiamenti sociali ed economici e, quindi, politici, connessi con le diverse condizioni di partenza dei diversi attori esistenti sullo “schermo” internazionale. Una rivoluzione che una società moderna ed avanzata deve organizzare e programmare, come è avvenuto con le precedenti rivoluzioni industriali. Questa programmazione è necessaria per il controllo del clima e sarebbe erroneo affrontarla in termini diversi. L’esistenza di un referente internazionale a cui affidare queste risorse e questo mandato è una condizione conseguente e non alternativa al ruolo delle attuali organizzazioni che si occupano dei problemi ambientali prevalentemente dal punto di vista scientifico. Allargare la partecipazione a tutti gli attori e studiare l’implementazione della rivoluzione tecnologica-industriale dovrebbe essere un tema centrale. La Conferenza di Parigi non parte con questi obiettivi, ma se questa ipotesi fosse messa ad un certo punto del dibattito sarebbe già un successo.