L’integrazione è un processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza entro una determinata realtà sociale tra individui e gruppi culturalmente ed etnicamente differenti fondato sul rispetto della diversità, nel rispetto dei diritti fondamentali e delle istituzioni democratiche. L’integrazione è multidimensionale perché in essa sono coinvolti sia gli aspetti “sociali” come la cultura sia gli aspetti “individuali” come la condizione psicologica dei singoli individui ed è un processo lungo, in quanto richiede del tempo affinché possa avvenire.
Nell’uso quotidiano il termine integrazione viene usato per indicare la collocazione socioeconomica degli immigrati nel mercato del lavoro, nell’accesso all’alloggio e nella fruizione dei servizi pubblici.
L’integrazione varia in base al grado di differenziazione culturale presente in una particolare realtà sociale, alle politiche socio-economiche, al livello d’istruzione delle persone che si devono integrare solo per citare alcuni esempi.
Nell’ambito degli studi delle società multietniche, il termine integrazione è stato sottoposto a numerose critiche che ne hanno messo in luce l’eccessiva normatività e il vizio di etnocentrismo. Affermare che le minoranze si integrano e devono integrarsi equivale, infatti, a dire che esse assumono o devono assumere le norme, i valori e i comportamenti delle società in cui si inseriscono. In generale, quello della integrazione è un obiettivo dichiarato e spesso anche incoraggiato dai governi, ma i risultati non sembrano essere certo soddisfacenti, almeno in Italia. Numerose, in questi anni, sono state le politiche e i dibattiti in tema di integrazione, si pensi alla legge Bossi-Fini; alla legge che introduceva la figura del mediatore culturale; alla riforma Gelmini, tuttavia i recenti avvenimenti (gli sbarchi a Lampedusa, la crisi economica e il riaffiorare di gruppi di estrema destra) hanno messo in discussione l’efficacia delle politiche attuate dai governi e si sono accompagnati a un aumento consistente della xenofobia.
Secondo uno studio non recente della società PEW, che ha svolto un sondaggio mondiale sull’immigrazione, per il 64% degli italiani il problema dell’immigrazione è primario, più arduo anche della criminalità, dell’inquinamento della disoccupazione. Tra i Paesi occidentali, solo la Spagna condivide le preoccupazioni dell’Italia, ma con una percentuale molto più bassa (42%). Ma perché tutta questa preoccupazione?
Stando ai dati ISTAT, nel primo gennaio 2015 gli stranieri residenti in Italia sono 5.014.437 e rappresentano l’8.2% della popolazione residente. La Regione con maggior numero degli stranieri in Italia è la Lombardia con 1.152.320 stranieri.
In realtà in Italia anche se gli stranieri residenti rappresentano meno del 10% della popolazione residente, i detenuti stranieri rappresentano il 34.9% del totale e provengono per la maggior parte dall’Africa (46.43%di cui 18,6% sono di Marocco e 12% vengono dalla Tunisia).
La percentuale molto alta dei detenuti stranieri potrebbe essere spiegata riferendosi a diversi motivi, quali l’assenza di integrazione, la povertà e la mancanza di speranza che porta queste persone a violare le leggi. L’impatto della crisi economica sull’inserimento e la permanenza degli stranieri nel mercato del lavoro è veramente molto pesante.
Secondo una ricerca condotta dalla Cgil nazionale emerge che ci sono oltre un milione e duecentomila lavoratori immigrati che vivono nell’area della sofferenza e del disagio occupazionale con gravi ripercussioni sulla propria vita personale e familiare[1].
Secondo i dati Istat 2012 gli stranieri sono il 10,3% del totale degli occupati (+0,4% rispetto al 2011), nel 2014 invece, gli occupati stranieri sono 2.275.700 pari al 10,4% del totale degli occupati, con un incremento di 0.97% nel giro di 2 anni (un incremento basso, se prendiamo in considerazione il fatto che nel periodo in questione il numero degli stranieri in Italia è incrementato dell’14.28%).
Concentrandoci sulla quota degli occupati stranieri sul totale degli occupati, l’Italia è seconda dietro alla Spagna (10,7%) mentre è davanti a UK (9,7%), Germania (8,9%) e Francia (5,2%). La media UE è 7,1%. Ma il dato italiano non è confortante, perché la disoccupazione straniera cresce sempre di più.
Andando a vedere nel dettaglio il lavoro che fanno gli stranieri in Italia emerge che questi ultimi svolgono mansioni principalmente non qualificate[2] e nei comparti caratterizzati da attività a basso valore aggiunto (per circa 90%), creando di fatto una segmentazione occupazionale che concentra i lavoratori stranieri solo in alcuni settori e in determinate mansioni e professioni: la concorrenza con l’offerta di lavoro autoctona risulta quindi marginale e interessa solo le qualifiche più basse. Infatti, secondo i dati dell’Inps (2014) in Italia ci sono circa 900 mila lavoratori domestici: di questi 81.5% sono cittadini stranieri e generalmente per oltre il 70% sono provenienti da un paese extra UE. Essi versano nelle casse dell’Inps circa 700 milioni di euro all’anno.
In particolare, la componente di lavoro non qualificato tra gli immigrati è pari al 34% (contro il 7,8% tra gli italiani). A far riflettere, è soprattutto la percentuale di occupati stranieri nelle professioni impiegatizie, tecniche, ad elevata specializzazione e imprenditoriali: solo 8 su 100 occupati immigrati svolgono una di queste professioni contro 50 su 100 occupati italiani.
Analizzando i differenziali retributivi emerge che i lavoratori immigrati sono concentrati nei livelli e nelle attività meno qualificate e pertanto i loro stipendi sono più bassi degli italiani. Infatti, nel primo semestre 2012 la differenza tra la retribuzione media di un dipendente immigrato e quella di un dipendente italiano è complessivamente -344 euro (-26,2%). Queste differenze conducono ad un aumento del rischio di povertà per le persone in questione. Una situazione acuita dalla crisi. Infatti, secondo una ricerca condotta dall’Associazione “Bruno Trentin” (2013), emerge che: con l’inizio della crisi il 37% degli stranieri pur di lavorare hanno dovuto accettare una riduzione dello stipendio anche se questo li ha portati ad una riduzione del consumo nel 62.3% dei casi.
Per quanto riguarda la tesi di alcuni, secondo cui “gli stranieri rubano il lavoro agli italiani”, bisogna sottolineare che nel 2014 sono 335.000 le imprese il cui titolare è un cittadino straniero, con un incremento di 23000 unità in più rispetto al 2013 (dati Istat). Diciamo che una parte del lavoro viene in un certo senso creato dall’immigrato stesso. Se gli stranieri residenti in Italia rappresentano l’8.2% della popolazione residente, la percentuale delle imprese con imprenditori stranieri rappresenta oltre il 10% del numero totale delle imprese.
Un dato interessante è il fato che la comunità marocchina non detiene il primato solo per il numero dei detenuti ma anche per il numero degli imprenditori, questi ultimi sono i più numerosi, con il 19.1% del totale delle imprese straniere.
Secondo un’analisi condotta da Unioncamere emerge che le imprese individuali degli immigrati hanno una maggiore capacità di fronteggiare la crisi rispetto alle imprese italiane, ciò è dimostrato da una diversa dinamica sia delle cessazioni sia delle iscrizioni alle Camere di Commercio. Nel 2014 le iscrizioni di ditte “straniere” sono aumentate di 4.264 unità rispetto al 2013, mentre le cessazioni si sono ridotte di 1.533. Nel caso degli italiani, invece, le cessazioni sono diminuite (28.619 in meno rispetto al 2013), ma c’è stata anche una riduzione delle iscrizioni (-12540 rispetto al 2013), e questo ha portato a una riduzione complessiva di oltre 35 mila unità tra le imprese individuali guidate da italiani.
Secondo l’International Migration Outlook 2013 la migrazione all’interno dell’Unione europea è aumentata del 15%, soltanto nel 2012 dopo un calo di quasi il 40% durante i primi anni della crisi e questa tendenza continua a diventare sempre più preoccupante nei tempi più recenti.
Una domanda rilevante è se, sul piano strettamente economico, siano maggiori i costi o i benefici dell’immigrazione. Insomma, a gli esponenti delle destre, che guardano negativamente all’immigrazione, hanno ragione?
Oggi la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% tra gli italiani, solo lo 0,9% tra gli stranieri. O meglio oggi quasi 1 italiano su 10 ha più di 75 anni; tra gli stranieri 1 su 100.
L’età media dei lavoratori stranieri è di 31 anni invece quella degli italiani 44 anni. Secondo i dati Istat degli oltre 5 milioni di stranieri che si trovano in Italia, più di un milione sono minori. Questi dati ci indicano che i contributi versati dagli stranieri in futuro serviranno in un certo senso per pagare le pensioni degli italiani: in Italia oggi sono circa 2.3 milioni di occupati stranieri, i loro contributi previdenziali sono circa 10.8 miliardi di euro. Se prendiamo in considerazione il PIL prodotto in base al numero degli occupati emerge che questi occupati stranieri hanno un valore aggiunto di 125 miliardi di euro pari al 8.6% della ricchezza nazionale.
In Italia lavorano circa 2.3 milioni d’immigrati che pagano i contributi e ogni anno ci sono miglia di stranieri che tornano ai loro paesi lasciando una parte di contributi sociali in Italia che non vengono più riscossi con un valore di 375 milioni di euro all’anno. In cambio sono solo 26 mila prendono una pensione previdenziale e 38 mila sono quelli che ricevono una pensione di tipo assistenziale. Secondo un studio condotto nel 2014 dalla Fondazione “Leone Moressa”, il saldo attivo dei flussi finanziari in entrata e in uscita per le casse dello Stato dagli immigrati è di 3.9 miliardi di euro.
Sostenere che gli immigrati rappresentino un costo per il Paese è a dir poco opinabile.
*Università di Gjirokastra