L’art. 16 del decreto-legge n. 112 del 2008, come convertito in legge n. 133 del 2008 attribuisce alle università, o meglio al senato accademico, la facoltà di trasformarsi in fondazioni di diritto privato; si attribuisce a tale organo il potere di cambiare natura giuridica e trasformare l’università da soggetto di diritto pubblico in soggetto privato.
L’incipit del primo comma dell’art. 16 è il seguente: “In attuazione dell’art. 33 della Costituzione, nel rispetto delle leggi vigenti e dell’autonomia didattica, scientifica organizzativa e finanziaria, le Università pubbliche possono deliberare la propria trasformazione in fondazioni di diritto privato”.
Tale disposizione va letta tenendo ben presente l’ultimo comma dell’art. 33 Cost. che recita: “Le Istituzioni di alta cultura, Università ed accademie hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
In questo senso, va chiarito che l’autonomia universitaria, nello spirito originario del dettato costituzionale, non può essere inteso come un principio finalizzato a realizzare micro o macro entità accademiche, basate su un sistema di regole arbitrarie, autarchiche e tendenzialmente tese ad assecondare logiche clientelari, dissonanti con la ricerca e l’insegnamento, oltre che foriere di pericolosi disavanzi di bilancio. L’autonomia, piuttosto, va intesa quale requisito meta-giuridico, funzionale e servente al raggiungimento d’altri principi e diritti fondamentali, e pertanto, limitata e incapsulata nel sistema costituzionale; essa non dovrebbe avere quale obiettivo la parcellizzazione del sistema, né la creazione di tanti microsistemi diseguali.
Fino ad oggi, le fondazioni hanno operato al fianco del sistema universitario pubblico, immaginate non per avere carattere sostitutivo rispetto al sistema pubblico, ma piuttosto intese come strumenti finalizzati alla riduzione della spesa e allo svolgimento più efficiente di attività strumentali di supporto alla didattica e alla ricerca, viceversa, nell’ambito della nuova legge, le fondazioni universitarie avrebbero più che carattere di supporto, secondo il modello della sussidiarietà, carattere sostitutivo rispetto al soggetto pubblico.
Subordinare l’autonomia, non soltanto a fondi privati, ma alla governance di soggetti privati, o peggio, a soggetti pubblici che agiscono secondo schemi e logiche dell’autonomia privata, rappresenta l’attacco più vile che si possa fare alla stessa identità costituzionale dello Stato italiano; significa minare alla base la crescita e lo sviluppo di un Paese.
Con la nuova legge, dunque, o il pubblico decide di “giocare” a fare il privato con strutture e risorse pubbliche, non consentendo l’ingresso dei privati, oppure consentendo l’ingresso di soggetti privati nella fondazione universitaria, li trasforma da meri finanziatori esterni a quota-parte proprietari dell’università. Infatti, il II comma prevede che al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie sia trasferita la proprietà di beni immobili, già in uso alle università trasformate.
Ai sensi del I e II comma, il senato accademico, deliberando la propria trasformazione in fondazione di diritto privato e contestualmente adottando lo statuto ed i regolamenti di amministrazione e contabilità (VI comma), a maggioranza assoluta, non soltanto può decidere la dismissione di proprietà pubblica a favore di soggetti privati, o gestire la proprietà pubblica con modelli e finalità privatistiche, ma può altresì rinegoziare, con l’adozione di un nuovo statuto, la governance della fondazione, fissando nuovi criteri di organizzazione e nuovi obiettivi di ricerca ed insegnamento.
Si possono immaginare nuove strategie che con i nuovi assetti proprietari, o con la nuova logica privatistica del pubblico, non potrebbero che essere orientati al mercato ed al profitto. Ciò si verificherebbe, appunto, anche nel caso in cui l’assetto proprietario del nuovo soggetto privato restasse pubblico; mi riferisco ovviamente all’ipotesi in cui l’università effettua una mera trasformazione del suo abito giuridico, o all’ipotesi di aggregazioni pubblico-pubblico (università, regioni, enti locali, società per azioni pubbliche, società a prevalenza di capitale pubblico). Quest’ultima ipotesi favorirebbe una miscela esplosiva tra interessi privati e interessi pubblici oscuri, che si fonderebbero e svilupperebbero sulla base di un patrimonio totalmente pubblico; sorgerebbe un Giano bifronte privo, come vedremo successivamente, di reali ed efficaci controlli. Si sarebbe in presenza di un soggetto in balia delle più volgari pressioni politiche, con buona pace dell’autonomia!
Mentre il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà pubblica richiede per il nostro ordinamento giuridico una serie di garanzie per il privato, comunque titolare del diritto all’indennità, bizzarramente, nel caso di specie, il senato accademico, senza obbligo di particolari motivazioni, può decidere la dismissione del patrimonio pubblico (il procedimento tecnicamente si perfeziona con decreto dell’agenzia del demanio). Al soggetto pubblico, ex proprietario, non è riconosciuta alcuna indennità. È bene dirlo, la collettività viene depauperata; un bene comune, realizzato in forza del principio costituzionale della fiscalità generale, viene privatizzato.
La norma sul punto è molto chiara (II comma): le fondazioni universitarie, già enti pubblici, subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell’università. Al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie è trasferita, con decreto dell’agenzia del demanio, la proprietà dei beni immobili già in uso alle università trasformate.
Quindi, non siamo più soltanto in una logica, più o meno sana, di acquisizione di altre risorse, ma piuttosto in una logica di dismissione di risorse pubbliche, a vantaggio di un soggetto privato, che, con altra veste giuridica, può anche rimanere pubblico. Il nuovo proprietario dei beni e servizi, soggetto di diritto privato, sarà quello che avrà la governance della fondazione universitaria.
Nuovi soggetti e nuovi proprietari andranno sul mercato con agevolazioni fiscali straordinarie, non pagando nulla al fisco e quindi nulla alla collettività (si veda il III comma che prevede che gli atti di trasformazione e di trasferimento degli immobili e tutte le operazioni ad essi connesse siano esenti da imposte e tasse).
La norma (IV comma) tiene a precisare che le fondazioni universitarie sono enti non commerciali, tuttavia possono perseguire scopi di diritto privato, come consentito dalla loro natura giuridica e orientare la loro azione secondo principi di economicità della gestione. Lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica, la libertà d’insegnamento, tutto diventa orientato al principio di economicità; è così possibile affermare che la stessa autonomia sia orientata al principio di economicità.
Va chiarito inoltre che le fondazioni universitarie possono svolgere attività commerciali, pur non essendo assoggettate alle regole proprie degli imprenditori commerciali. In sostanza, l’elemento distintivo degli enti non commerciali è quello di non avere, ad oggetto esclusivo o principale, lo svolgimento di un’attività di natura commerciale, intendendosi per tale attività quella che determina reddito d’impresa. Ciò significa che le fondazioni universitarie, pur dovendosi qualificare per la rilevanza sociale delle finalità perseguite, possono produrre, seppur limitatamente e non come attività principale, reddito d’impresa.
Ai sensi del XI comma dell’art. 16, resta fermo il sistema di finanziamento pubblico. È possibile dunque che risorse finanziarie pubbliche non soltanto siano “depistate” verso soggetti privati, o pubblici che agiscono come un privato, ma altresì siano esternalizzate e a questo punto il controllo sulle risorse pubbliche da parte della Corte dei conti, diventerebbe realmente impossibile.
In ogni caso, la norma è ambigua, in particolare nella parte in cui si afferma che il finanziamento pubblico costituisce elemento di valutazione a fini perequativi. Ciò vuol dire che saranno destinati maggiori finanziamenti pubblici alle fondazioni universitarie con minori finanziamenti privati, o significa l’esatto opposto come i recenti meccanismi di co-finanziamento fanno pensare?
Si conferma il principio del co-finanziamento, già introdotto dalla legge n. 537 del 1993, che tuttavia assume connotati assolutamente diversi, allorquando il soggetto che decide è un soggetto privato, o falsamente pubblico, che non necessariamente rivolge tutti i suoi interessi all’interno dell’assetto universitario o comunque che può rivolgere i propri interessi verso settori della ricerca, tali da determinare profitti indotti al mondo dell’impresa, o comunque fortemente collusi con il mondo della politica.
In teoria, con beni di ex proprietà pubblica e con risorse principalmente, se non esclusivamente pubbliche, le fondazioni con proprio statuto possono decidere di porre in essere strategie aziendali, lobbistiche, corporative, pseudo politiche, di stampo neo-feudale, anche diversificate rispetto alla mission originaria di una struttura universitaria. Risorse pubbliche e tasse di iscrizione potrebbero essere orientate verso lidi ed obiettivi non riconducibili al perseguimento di interessi generali; il tutto, evidentemente, in contrasto con l’art. 3, con l’art. 9 e con l’art. 33 della Costituzione.