Introduzione
I tempi dell’unanime accondiscendenza alla teoria economica dominante sono finiti. La crisi economica del 2007-2008 ha messo in discussione i suoi presupposti teorici dimostratisi erronei nella materialità delle conseguenze della recessione. Tra questi quello dell’esistenza di una presunta disuguaglianza benefica e socialmente accettabile (la così detta trickle down economics). Non è un caso se negli ultimi anni la letteratura sul tema della diseguaglianza economica sia cresciuta esponenzialmente (Milanovic, 2013; Piketty, 2015), si potrebbe sostenere che tale vivacità sia il riflesso scientifico impostosi a partire da una realtà concreta radicalmente mutata rispetto al passato. La pandemia ha agito positivamente sull’aumento della diseguaglianza contribuendo ad approfondirla, secondo una parte della letteratura infatti i gruppi più fragili sono quelli che hanno subito le conseguenze sanitarie ed economiche peggiori (Ali et al., 2020).
Coinvolti da questo cambiamento non più rimandabile, proveremo in questo breve lavoro a dare una chiave di lettura alternativa a quella mainstream sul tema della diseguaglianza economica, tentando di individuare come e quanto questa si ripercuota sulla distribuzione del reddito. Con distribuzione del reddito qui intendiamo la ripartizione del reddito nazionale tra capitale e lavoro e dunque tra le diverse classi sociali. Questa scelta, che in seguito approfondiremo, è dettata dalla convinzione che lo studio della distribuzione del reddito individuale, quella maggiormente indagata oggi, sia in grado di spiegare solo una parte della diseguaglianza, lasciando nell’ombra parte della storia che complessivamente riguarda l’evoluzione di questo fenomeno.
L’Europa a noi contemporanea è tra i contesti dove la diseguaglianza economica ha gli effetti più profondi. Basti considerare che secondo uno degli ultimi rapporti stilati dall’Oxfam si evidenzia come nell’Unione Europea a fronte di 342 miliardari esisterebbero ben 123 milioni di persone a rischio povertà. Si tratta di una situazione presente in tutte le nazioni del nostro continente, nessuna esclusa. Questa enorme ricchezza, concentrata nelle mani di pochi individui, è resa ancora più problematica dal fatto che la tassazione dal 1970 sia drasticamente calata per i più ricchi.
Nonostante l’evidenza dei dati e il palese fallimento del monetarismo nell’interpretare la realtà assistiamo ad alcuni colpi di coda da parte dei suoi più estremi difensori. Tra gli altri non possiamo non annoverare Walter Scheidel, professore austriaco e autore di “The Great Leveler”. In questo saggio viene difesa l’idea che la diseguaglianza non solo sia fenomeno caratterizzante delle società più ricche, secondo il leitmotiv in base al quale dove non c’è ricchezza non c’è diseguaglianza bensì solo miseria, ma viene diffuso anche il concetto per cui il tenore di vita della collettività segua un sentiero che nel lungo periodo sarebbe di progressivo miglioramento. Al netto di quanto viene sostenuto dagli Scheidel di tutt’Europa esiste oggi la percezione che la diseguaglianza abbia toccato il suo più alto picco storico, individuare i nessi tra questo fenomeno e la distribuzione del reddito può fornire elementi aggiuntivi. In questo lavoro dopo un’esposizione del fenomeno della diseguaglianza economica in Europa, utilizzando dati messi a disposizione dalla Banca d’Italia, testeremo empiricamente la seguente ipotesi: qual è la relazione tra le diverse tipologie di salario e la determinazione del reddito nazionale italiano? La scelta di analizzare quanto è avvenuto in Italia può essere vista come un primo tentativo di approccio al fenomeno da approfondire in successive ricerche anche per altri contesti nazionali.
Natura della diseguaglianza
La divergenza nella traiettoria seguita dai paesi del nord e del sud d’Europa si è approfondita anche per la differente capacità competitiva dei singoli paesi membri (Rodrik, 1999). La deflazione salariale è stata alimentata proprio dalle differenti capacità concorrenziali dei paesi oltre che dalla presenza di squilibri commerciali, sempre più lampanti, tra il centro e la periferia dell’Europa, che pongono proprio la periferia tra quelli che di più hanno la necessità di ricorrere a politiche di moderazione dei costi del lavoro.
La deflazione dei salari nella zona euro, e in particolare nelle economie del Mediterraneo, si è imposta dunque come una scelta cosciente che nasce dall’obbligo di migliorare gli standard nazionali di competitività. In questa ottica si inserisce il Competitiveness Pact del 2011 più tardi chiamato Pact for the Euro. Si tratta di un accordo intergovernativo che viene siglato con lo scopo di attuare un’agenda condivisa di politica economica finalizzata a migliorare la competitività dei paesi attraverso alcune riforme strutturali.
Nelle parole di Storm e Naastepad (2014) “aumentare la competitività qui significa ridurre i costi, e più specificamente tagliare i costi del lavoro, che significa a sua volta abbassare la quota di salari attraverso la riduzione della tutela occupazionale, l’abbassamento dei salari minimi, l’aumento dell’età pensionabile, l’abbassamento delle pensioni e, ultimo ma non per importanza, il taglio dei salari reali. La diseguaglianza economica, la povertà e l’esclusione sociale inizialmente aumenteranno, ma non preoccupiamoci: le riforme strutturali in principio sono dolorose, ma i loro effetti negativi saranno compensati nel tempo attraverso cambiamenti nella “fiducia”, spingendo in avanti i consumi e le esportazioni. Queste misure però non funzioneranno, e i danni provocati dall’austerità e dalle riforme strutturali sono enormi; tristemente, molti dei quali erano anche evitabili.”
Se il sentiero perseguito dalle istituzioni economiche europee è stato quello ben descritto nel Competitiveness Pact prima menzionato è perché esisteva, e tutt’oggi esiste, la convinzione che uno dei principali elementi che ha inciso sul prolungamento della crisi economica sia stato l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. Da qui la sentenza ultimativa delle politiche di austerità “there is no alternative”, meglio noto con l’acronimo TINA.
Nonostante i dati aggregati per la zona euro suggeriscano che i trend di crescita dei salari siano aumentati tra il 2015 e il 2016 rispetto a quelli registrati nel 2011-2012, gli anni di più profonda deflazione salariale europea, ad oggi la situazione e tutt’altro che risolta dato che in diversi paesi i tassi di crescita dei salari sono ancora negativi o molto al di sotto dei livelli pre-2008. Le figure qui sotto mostrano i trend nei paesi europei che hanno sperimentato variazioni negative dei salari.
Figura 1. Variazione dei salari negativa rispetto il periodo pre-crisi
Fonte: Euractiv
Come è possibile osservare, quattro dei sette paesi rappresentati nella figura appartengono all’area dell’Europa del Mediterraneo, anche nota con l’acronimo PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). II tracollo dei salari in Grecia è quello maggiormente evidente, in questa nazione infatti, con una perdita del 3,1% dei salari rispetto al 2008, le prescrizioni dell’austerità sono state più pesanti.
Al di là della situazione greca è possibile notare come anche in altri Stati la situazione non sia particolarmente positiva. È il caso del Portogallo e dell’Italia, con le rispettive perdite dello 0,75% e 0,3%, ma anche del Regno Unito che seppur non faccia parte dell’Europa del Mediterraneo e tra i paesi nei quali i salari sono su tassi ben al di sotto di quelli che si registravano prima dello scoppio della crisi economica.
Figura 2. Variazione dei salari inferiore ai livelli pre-crisi
Fonte: Euractiv
II quadro è completato dalla Figura 2 nella quale si mostra la situazione dei paesi nei quali i salari non hanno ancora eguagliato i livelli pre-crisi. È il caso della Spagna, unica nazione del Mediterraneo a non comparire nella Figura 1, ma anche di paesi dell’est e del centro Europa, come la Romania e la Francia che condividono una situazione di stagnazione dei salari.
Alcune cifre sulla diseguaglianza in Europa
In Europa la diseguaglianza economica si presenta a partire dalla fine degli anni ’70 colpendo in primo luogo i paesi anglosassoni, si estende poi a tutto il continente a partire dalla metà degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, raggiungendo infine anche le nazioni caratterizzate storicamente da livelli molto bassi di disuguaglianza, come quelli scandinavi, a partire dai primi anni 2000 (Ballarino et al., 2012; OECD, 2011).
Sebbene generalmente sia accettata l’idea di un’Europa storicamente garantista, i livelli di diseguaglianza presenti nell’area sono paragonabili a quelli degli Stati Uniti d’America. Si tratta di un fenomeno che si realizza sia all’interno di ogni singolo stato membro sia di una diseguaglianza tra gli stati dell’Unione. Su quest’ultimo punto l’Italia, con i suoi più bassi tassi di crescita economica, e quella che fa peggio almeno dal 1995.
La misurazione della diseguaglianza tra i paesi dell’area euro è sicuramente problematica per l’eterogeneità che contraddistingue le singole realtà nazionali, ma nonostante differenze strutturali tra i paesi dell’Unione esistono alcuni pattern simili. Tra questi c’è il riconoscimento che la disuguaglianza, cresciuta a dismisura a seguito della crisi economica del 2008, si sia realizzata specialmente alla “coda” della distribuzione del reddito, ovvero tra quegli individui con più bassi livelli di reddito annuo.
La profonda diseguaglianza economica come fenomeno che si esprime verticalmente sulla distribuzione del reddito nazionale è stato caratterizzante delle economie in via di sviluppo. Oggi questa peculiarità si perde e il fenomeno si estende anche, e con sempre maggiore forza, ai paesi economicamente più progrediti (OECD, 2012). Per ciò che riguarda l’Europa un elemento su tutti è esplicativo. Negli ultimi 25 anni i percettori dei redditi più alti hanno visto un aumento dei loro guadagni molto più rapido di quello delle fasce di reddito più povere che, di contraltare, sono quelle che perdono di più (Fredriksen,2012).
Sebbene sia opinione comune che nelle aree periferiche della zona euro si realizzi una disparità economica notevole tra percettori di redditi da lavoro dipendente e le altre fonti di reddito può invece sorprendere come nel cuore dell’Europa la situazione non sia molto differente (Matthijs, 2016). Pensiamo ad esempio alla Germania dove dalla metà del 1990 all’inizio della crisi economica il 30% dei più poveri ha sperimentato tassi di crescita dei redditi negativi, oppure alla Danimarca in cui gli individui posti alla coda della distribuzione del reddito hanno assistito ad una crescita solo dell’ 1% dei loro guadagni a fronte di un aumento pari a ben il 29% per quelli situati nella parte più alta.
In entrambi i casi si nota come sia differente l’esposizione alla diseguaglianza economica in base al posizionamento nella distribuzione del reddito e anche alla particolare fonte principale di reddito percepito (profitto, salario o rendita). A rafforzare questa tesi intercorrono altri dati. Secondo quanto riportato da Credit Suisse (Credit Suisse, 2014) in Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna e Regno Unito l’1% della popolazione deterrebbe una ricchezza pari al 20% della ricchezza netta totale, mentre il 90% ne avrebbe a disposizione meno della metà. L’incremento finora descritto sull’evoluzione della diseguaglianza economica deve essere arricchito da un ultimo elemento. In Europa nel 2002 si registrano 99 miliardari, cifra che nel 2015 è triplicata raggiungendo quota 342 (Forbes, 2015). In Germania i miliardari sono passati da 35 nel 2002 a 102 nel 2015, nel Regno Unito da 13 a 53, in Francia da 15 a 47 e in Italia da 13 a 39. Qui non si parla solo di un aumento assoluto dei miliardari in Europa, ma contemporaneamente anche di un imponente aumento della quota di reddito da loro posseduta che passa da 52 miliardi a 1.400 miliardi (Hardoon, 2015).
Alla luce di una realtà bipolare che vede convivere il fenomeno della concentrazione della ricchezza da una parte e le politiche di moderazione salariale dall’altra si comprende la necessità di effettuare un’analisi della diseguaglianza che non può prescindere dall’indagare l’evoluzione della situazione economica delle differenti fonti di reddito sull’insieme della ricchezza nazionale. Per questa ragione testeremo la seguente ipotesi:
H1: qual è la relazione tra le diverse tipologie di reddito e la determinazione del reddito nazionale?
I trend delle diverse fonti di reddito in Italia. Un’analisi composizionale
Se adottassimo la definizione di finanziarizzazione di Epstein (2005) diremmo che essa rappresenta: “l’aumento del ruolo della finanza, dei mercati, degli agenti e delle istituzioni finanziarie nel funzionamento delle economie nazionali e internazionali”. Si tratta di una definizione generica ma in grado di sottolineare quanto sia forte l’impatto della finanza a livello macroeconomico. Basti considerare che la quota della finanza sul totale del valore aggiunto è drammaticamente aumentata nei paesi OECD. Si calcola che nel 1970 soltanto due tra questi paesi possedessero un quinto del loro valore aggiunto totale proveniente dal settore finanziario. Nel 2008 invece in quasi tutti i paesi OECD la finanza superava il 20% dei proventi complessivi.
Al netto di questa osservazione il ruolo assunto dalla finanza nelle economie europee negli ultimi due decenni è molto dibattuto, ma è impossibile non notare l’aumento esponenziale del suo peso nel nostro continente, e di come questo sia andato di pari passo con un sempre
maggiore ricorso alla flessibilità del mercato del lavoro. Secondo alcuni studi (Tridico, 2015; Mastromatteo e Esposito, 2016) infatti esisterebbe una forte correlazione tra la finanza e la diseguaglianza economica. In questi lavori si dimostra che alti livelli dell’indice di Gini, ovvero l’indice di misurazione della concentrazione dei redditi, sono accompagnati ad aumenti della finanziarizzazione. In altre parole il ricorso alla leva finanziaria ha completato il meccanismo di moderazione salariale per cui ha fatto sì che ad aumenti della diseguaglianza si associasse un aumento della domanda di credito, a sua volta, aiutata da politiche monetarie espansive e dalla deregolamentazione finanziaria. In questo senso, seppur come conclusione parziale, potremmo dire che esiste una relazione negativa tra la finanziarizzazione dell’economia e l’equità, la crescita economica e l’occupazione.
Di contraltare, si è assistito ad un aumento notevole della quota delle rendite, che passa dal 5 al 12%. Questo trend si inverte successivamente permettendo un recupero della quota di reddito da lavoro dipendente, questa volta a scapito della quota dei profitti, agli inizi degli anni 2000. La traiettoria cambia successivamente a seguito della crisi economica, che in Italia ha colpito tutti i settori dell’economia nazionale, ma in particolare il settore manifatturiero.
[Figure in appendice]
Come è possibile notare dai grafici in appendice nel nostro paese è presente una spaccatura netta tra gli andamenti salariali da lavoro dipendente e lavoro autonomo rispetto a quello che invece accade sul fronte delle rendite, che è cresciuto costantemente nel corso degli anni. In tutti e tre i casi emerge come la crisi economica esplosa nel 2008 non è stata ininfluente nella determinazione dei trend salariali. Si nota infatti che sia per il lavoro dipendente sia per quello autonomo lo scoppio della crisi abbia accentuato la pendenza della curva. Per ciò che riguarda invece la rendita si nota che, nonostante una piccola flessione in prossimità della crisi economica, negli anni seguenti al 2008 ci sia stata una nuova dinamica di crescita.
Nella figura qui sotto una nostra elaborazione su dati Istat che copre l’arco temporale che va dal 2008 al 2015. Attraverso un’analisi composizionale (ACP) abbiamo analizzato cosa avviene nelle regioni italiane tra differenti fonti di reddito, tra cui quello da lavoro dipendente, quello da lavoro autonomo, il reddito da fabbricati, da rendite, dovuto a plusvalenze finanziarie e agricolo.
Figura 3. Analisi su dati composizionali nelle regioni italiane, anni 2008-2015.
La prima cosa che emerge in Figura 3 è che nel periodo considerato il sentiero battuto dal reddito da lavoro dipendente è molto diverso da quello seguito dal reddito da capitale e da plusvalenze finanziarie, il che sta ad indicare che tra queste due variabili non esiste nessuna forma di correlazione statistica. La seconda osservazione, e forse anche quella tra le più interessanti riguarda il posizionamento delle regioni del nostro paese, nella figura rappresentate in blu. Come si può osservare esiste una cesura economica e composizionale assolutamente orizzontale e che spacca letteralmente a metà la penisola da nord a sud. È infatti visibile dalla figura che Basilicata, Calabria, Sicilia, Puglia, Sardegna e Campania si trovino in alto e vicine alle fonti di reddito agricolo e molto vicine all’asse orizzontale che sta a rappresentare il reddito da lavoro dipendente.
Nel secondo quadrante infatti tutte queste regioni, che poi compongono interamente l’Italia meridionale, vengono spiegate prevalentemente dal primo asse fattoriale ovvero dall’asse orizzontale, il reddito da lavoro dipendente, e quello agrario, mentre tutte le regioni settentrionali, che si trovano nel terzo quadrante della nostra figura, sono caratterizzate prevalentemente per reddito da capitale e da reddito proveniente da plusvalenze finanziarie. Se è vero quanto detto finora, ovvero che il contesto europeo, senza nessuna eccezione, e mosso da una diseguaglianza che si realizza prevalentemente a causa della moderazione salariale diventa chiaro, anche nel nostro paese, quali sono le regioni dove maggiore e il peso della diseguaglianza economica.
Risultati
Nel paragrafo precedente, utilizzando l’analisi per componenti principali (ACP) è stata fornita una prima lettura su quanto avviene nelle regioni italiane nei trend che riguardano le diverse tipologie di reddito. In questo paragrafo, utilizzando una regressione lineare OLS con stimatore Huber-White che controlla per l’eteroschedasticità e impiegando dati forniti dalla Banca d’Italia (che mette a disposizione microdati che coprono l’arco temporale che va dal 1977 al 2016) si indagherà l’ipotesi principale di questo lavoro, ovvero: qual è la relazione tra le diverse tipologie di salario e la determinazione del reddito nazionale? In termini formali testeremo:
Presupponendo che il reddito nazionale è pari a: Y= yl + yt + ym + yc (dove Y è il reddito nazionale, yl è il reddito da lavoro dipendente, yt il reddito da pensioni e trasferimenti, ym il reddito da lavoro autonomo e yc quello derivante da attività finanziarie) sono state costruite delle quote di reddito sul totale del reddito nazionale. Rispettivamente le variabili create sono quelle che seguono: quota di salario da lavoro dipendente, quota di reddito derivante da rendita, da profitto, da lavoro autonomo e da attività finanziarie. Nel caso delle ultime tre quote citate sono state utilizzate le variabili depurate dal conteggio della Banca d’Italia e quindi, tanto per fare degli esempi significativi, la quota relativa alle pensioni è stata depurata dei trasferimenti così come dalla quota da lavoro autonomo sono stati eliminati dal conteggio le attività relative al reddito derivante da attività imprenditoriale. A queste sono state aggiunte variabili di controllo che, ceteris paribus, analizzano la correlazione con la nostra variabile dipendente. Queste sono: età, titolo di studio e due variabili dummy geografiche (nord e sud). Tutte le variabili di controllo sono di fonte Banca d’Italia. Qui sotto è riportata la tabella con le statistiche descrittive.
Tabella 1. Statistiche descrittive
Variabile | Obs | Mean | Std. Dev. | Min | Max |
num interv. | 439,132 | 297433.9 | 347182.3 | 1 | 928515 |
Anno | 439,132 | 1.995.692 | 1.145.255 | 1977 | 2016 |
Sesso | 439,132 | 1.510.676 | .4998866 | 1 | 2 |
Età | 439,132 | 406.192 | 2.224.862 | 0 | 114 |
studio | 374,753 | 285.745 | 1.139.609 | 1 | 6 |
Area | 439,132 | 1.971.999 | .8884404 | 1 | 3 |
yl1 | 409,815 | 10994.04 | 12734.98 | 0 | 250000 |
Yt | 439,132 | 4.836.743 | 8.502.784 | -77468.53 | 429770 |
ytp1 | 439,132 | 4.657.498 | 8.341.388 | 0 | 429000 |
ym1 | 320,84 | 3.971.855 | 13484.89 | -50000 | 1000000 |
ym3 | 439,132 | 4.501.273 | 4.923.078 | 0 | 413165.5 |
Ycf | 320,84 | 4.896.068 | 3.522.148 | -63260.31 | 198495.8 |
Yc | 320,84 | 5.695.835 | 8.412.076 | -57085.9 | 349636.7 |
Y | 320,84 | 28635.02 | 22927.14 | -62669.98 | 1022617 |
I risultati della regressione sono tutti significativi al 99% e con un R2 piuttosto significativo, pari all’86% del fenomeno spiegato. Quello che salta agli occhi è l’impatto del reddito da attività finanziarie sul totale del reddito nazionale. Emerge infatti, data la significatività e il segno negativo sulla variabile dipendente, che l’aumento da questa particolare fonte di reddito determini una riduzione di y, ovvero del reddito nazionale. Questo risultato, seppur esplicativo solo delle dinamiche del nostro paese, risulta particolarmente interessante per spiegare gli effetti negativi che la crescita della finanza può determinare sui trend di reddito nazionale. Le fonti di reddito diverse da quella derivante da attività finanziarie sono statisticamente significative e correlate positivamente con la nostra variabile dipendente, a significare che l’aumento di una di queste fonti di reddito, ceteris paribus, determina un aumento del reddito nazionale. Anche le variabili di contesto sono statisticamente significative e complessivamente determinano un aumento del reddito nazionale. La variabile dummy sud è l’unica, insieme al reddito da attività finanziarie, ad essere correlata negativamente alla variabile dipendente, questo significa che rispetto al nord e al centro il sud da un contributo minore alla determinazione del reddito nazionale.
Tabella 2. Risultati OLS.
Variabile | M1 (Y) |
yl1 | 0.664*** |
(.0028719) | |
Yc | 1.618*** |
(.0192109) | |
ym3 | 0.868*** |
(.0112244) | |
Ycf | -0.386*** |
(.0400872) | |
Eta | 90.905*** |
(-1116561) | |
Sex | 953.888*** |
(-4910679) | |
studio | 2042.098*** |
(-2793383) | |
Sud | -687.38*** |
(-6613139) | |
Nord | 1892.849*** |
(-6530642) | |
N | 310.440 |
R2 | 0,861 |
Conclusioni
La crisi economica del 2008 ha avuto un netto impatto sul trend di crescita dei salari reali ma sbaglieremmo se pensassimo che l’impatto della recessione ha toccato tutte le fonti di reddito allo stesso modo. Questo breve lavoro ha provato ad indagare i trend delle diverse fonti di reddito nella determinazione del reddito nazionale italiano. Lo abbiamo fatto a partire da un inquadramento del problema nel contesto europeo, che pure vale la pena di approfondire in prossimi lavori di ricerca che adottino una chiave di lettura alternativa a quella che ci viene offerta dall’economia mainstrem. Questo studio non può essere considerato esaustivo, a maggior ragione per la complessità del tema. Si tratta di un’analisi che vale la pena continuare ad approfondire con successive ricerche e che potrebbe aggiungere degli elementi interessanti non solo in termini di studio della diseguaglianza economica e del suo impatto sulla distribuzione del reddito ma anche in termini di policy.
L’ individuazione di scelte di policy alternative a quelle che hanno provocato una situazione così squilibrata sotto ii punto di vista della distribuzione del reddito non può essere ulteriormente rimandabile.
BIBLIOGRAFIA
- Ali, S., Asaria, M., & Stranges, S. (2020). COVID-19 and inequality: are we all in this together?. Canadian journal of public health, 111(3), 415-416.
- Ballarino et al, “Drivers of growing inequalities, 2012.
- Credit Suisse, “Global wealth Databook” 2014″.
- Deborah Hardoon, “Background data for Oxfam’s briefing “A Europe for the many, not the few”, Exploring inequality data for 28 countries in the European Union”, 2015.
- Epstein, “Introduction. Financialization of the world Economy”, 2005.
- Giuseppe Mastromatteo and Lorenzo Esposito, “Minsky at Basel: A Global Cap to Build an Effective Postcrisis Banking Supervision Framework”, 2016.
- Fredriksen, “Income inequality in the European Union”, WORKING PAPERS No. 952, 2012
- Matthias Matthijs, “The Euro’s “Winner-TakeAII” Political Economy: Institutional Choices, Policy Drift, and Diverging Patterns of Inequality”, 2016.
- OECD, 2011.
- OECD, 2012.
- Milanovic, B. (2013). Global income inequality in numbers: In history and now. Global policy, 4(2), 198-208.
- Piketty, T. (2015). The economics of inequality. Harvard University Press.
- Tridico, “The rise of income inequality in OECD countries”, working paper n° 201, 2015.
- Rodrik, “Globalization and Labour, or: if globalization is a bowl of cherries, why are there so many glum faces around the table” 1999.
- Rodrik et al., Institutions rule: the primacy of institutions over geography and integration in economic development, 2004.
- Storm e Naastepad, “Europe’s hunger games: income distribution, cost competitiveness and crisis”, 2014.
APPENDICE
Nostre elaborazioni su dati della Banca d’Italia (anni 1977 – 2016).