La capacità dei mercati finanziari di generare “valore” è legata allo sviluppo di “convenzioni” (bolle speculative) in grado di creare aspettative tendenzialmente omogenee che spingono i principali operatori finanziari a puntare su alcuni tipi di attività finanziarie (vedi A,Orléan, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, Ombre Corte, 2010). Negli anni ’90 è stata la Internet Economy, negli anni 2000 l’attrazione è venuta dallo sviluppo dei mercati asiatici (con la Cina che entra nel Wto nel dicembre 2001) e dalla proprietà immobiliare. Gli effetti devastanti del crollo della bolla immobiliare nel 2008 hanno reso necessario un forte intervento degli Stati per tappare le falle di bilancio apertesi nelle grandi istituzioni bancarie, assicurative e finanziarie. Lo Stato ha svolto così il ruolo di prestatore d’ultima istanza, quindi a fondo perduto e senza effetti di stimolo sulla domanda. E’ la recessione attuale e la forte immissione di liquidità pubblica, più che l’eccesso di spesa pubblica, la causa principale dell’incremento del rapporto deficit/Pil. In un simile contesto, sono i paesi più dipendenti dalla dinamica economica internazionale a essere i più penalizzati, ovvero i paesi che svolgono il ruolo di subfornitori, senza poter influenzare le traiettorie tecnologiche dominanti. L’area del Mediterraneo è tra queste. La speculazione finanziaria cerca così di sviluppare una nuova convenzione, che potremmo definire “convenzione welfare”, dove oggetto della stessa speculazione è direttamente il benessere (il bios) degli individui. Da convenzioni di tipo settoriale ad alta intensità cognitiva (Internet economy), passando a convenzioni legate allo sviluppo di aree territoriali globali, si giunge così a convenzioni che hanno come oggetto le condizioni di vita e lavoro degli esseri umani. Il biopotere della finanza si conferma pervasivo e sempre più diretto.
Lo sviluppo della “convenzione welfare” ha messo a nudo a fragilità dell’Europa. Gli interessi nazionalisti e corporativi, in particolare della Germania, hanno giocato un ruolo importante. La tentazione di approfittare della crisi greca per verificare la possibilità di un’Europa (e di un Euro) a due velocità è stata fortissima. La costruzione di un’Europa ristretta, di serie A, fondata sull’asse franco-tedesco, rispetto all’Europa mediterranea di Serie B , non è mai definitivamente scomparsa dalla scena politica, soprattutto in un contesto dove l’Europa rischia di trovarsi schiacciata nella competizione tra Usa e Cina. E’ tale tentazione che giustifica la costruzione dell’Europa solo sul pilastro monetario e il mantenimento di politiche fiscali nazionali. La non esistenza di una politica comune di budget europeo, tuttavia, oggi si sta rilevando un boomerang. Il ritardo con cui l’Europa è intervenuta e solo dopo che il Fmi aveva imposto alla Grecia il controllo del suo bilancio pubblico e l’obbligo di adottare politiche lacrime e sangue, ha consentito alla speculazione internazionale di allargarsi anche al mercato delle valute, prendendo di mira l’Euro. La crisi greca, il tentativo di estenderla ad altri paesi di peso politico sicuramente maggiore, l’inesistenza di una strategia fiscale comune europea: sono tutti elementi che hanno depotenziato l’immagine dell’Euro e creato aspettative di svalutazione. A un mese di distanza dal varo del pacchetto di misure straordinarie (il cd. Piano europeo) del valore di 500 miliardi di euro, nonostante tutte le assicurazioni, l’euro ha continuato a svalutarsi. Alla speculazione sul welfare europeo, si è così aggiunta la speculazione sull’euro.
I grandi operatori finanziari dettano ancora legge. È necessario un cambio di rotta e nuove proposte di intervento di politica economica. Esse possono essere discusse a due livelli: il primo riguarda interventi tecnico-politici in un ottica di breve, brevissimo periodo, il secondo presuppone un intervallo e un’azione politica e sociale di più lunga durata.
Nell’immediato si possono intraprendere tre percorsi, diversi, ma unificati dall’obiettivo di migliorare la governance dell’Europa nello scacchiere mondiale e rafforzare la sua credibilità nei mercati finanziari:
– costituire una società di rating europea, indipendente e autorevole, effettivamente autonoma dagli interessi che agitano i mercati finanziari. A tal fine, essa non può essere privata, ma deve essere sottoposta all’egida della Banca Centrale Europea, con la nomina di esperti, nominati dalle Banche Centrali dei vari paesi europei (una sorta di Authority). In tal modo, potrebbe essere rotto il monopolio attualmente gestito dalle società americane, in collusione con gli investitori istituzionali che lì operano;
– introdurre una sorta di tassazione sulle speculazioni in valuta dello 0,01% sul modello “Tobin Tax” (richiesta peraltro avanzata già in sede europea e nel G20 sia dalla Svezia che dalla Gran Bretagna, nei tempi più drammatici della crisi dl 2008-09). Il gettito che ne deriva venga gestito direttamente dalla Comunità Europea e non dai singoli stati, per la creazione di un fondo che vada a costituire l’embrione di un budget europeo come condizione preliminare per definire una politica fiscale comune;
-presentare un piano di coordinamento delle politiche fiscali nazionali con effetto immediato, che non sia esclusivamente rivolto alla riduzione della spesa pubblica (come deciso nel Piano d’intervento Europeo) ma che sia invece finalizzato alla creazione di budget fiscale europeo, emissione di bond europei di debito e acquisto di titoli di stato (come già in minima parte prevede il piano europeo). E’ necessario definire le tappe e i tempi per creare un bilancio pubblico europeo ed un unico parametro deficit /Pil.
Gli interventi summenzionati richiedono una volontà politica in grado di sancire a livello istituzionale europeo una sorta di nuovo “new deal” così da portare a compimento in modo effettivo l’unità economica e sociale dell’Europa. Non crediamo che al momento vi siano le condizioni perché si arrivi a ciò. Quasi tutti i governo europei hanno matrice liberista e social-liberista (Germania, Spagna, Portogallo, Grecia) o ancor peggio nazional-corporativa (Francia, Italia).
Ciò che manca all’Europa, è una visione in primo luogo culturale e poi sociale in grado di intervenire, analizzare, inchiestare le nuove forme di accumulazione e di valorizzazione e la nuova composizione del lavoro vivo, sempre più condizionata dalla precarietà. Il campo di azione e di battaglia politica è la ridefinizione di un welfare in grado di favorire la costruzione di un variegato fronte sociale anti-liberista e nello stesso tempo di superare la fase della sola opposizione e resistenza alle misure recessiva e regressive che oggi si vogliono porre in atto in nome della stabilità dei bilanci. Il futuro del welfare è necessariamente oltre il workfare e il welfare pubblico-keynesiano del dopoguerra: è il common-fare, ovvero il welfare europeo del comune. Ipotizzare un welfare del comune significa oggi imbastire una politica:
– che garantisca un reddito incondizionato, individuale, ai residenti (e non solo ai cittadini), il cui ammontare è oggetto di vertenza sociale, finanziato dalla fiscalità generale (e non dai contributi sociali), grazie alla tassazione progressiva della proprietà intellettuale, dello spazio come fattore produttivo e di speculazione, della rendita finanziaria, nonché delle forme patrimoniali della ricchezza (accesso alla continuità di reddito incondizionato);
– che tolga dalle gerarchie imposte dal libero scambio i beni primari e di pubblica utilità che negli ultimi 15 anni hanno subito estesi processi di privatizzazione in seguito all’adozione degli accordi europei di Cardiff sulla de-regolamentazione del mercato dei beni e dei servizi (accesso ai beni comuni materiali);
– che imponga forme di controllo e di monitoraggio sul mercato del credito, sui suoi costi e sulle possibilità di elargire forme di finanziamento anche a chi non ha contratti a tempo indeterminato con la garanzia e l’assicurazione degli apparati pubblici, sia a livello locale che sopranazionale (accesso alla moneta come bene comune);
– che proceda ad una regolamentazione dei diritti di proprietà intellettuale e della legislazione sempre più restrittiva dei brevetti a favore di una maggiore libertà di circolazione dei saperi e alla possibilità gratuita di dotarsi di infrastrutture informatiche, tramite adeguate politiche innovative e industriali (accesso ai beni comuni immateriali).
Una tale proposta di welfare rappresenta ad oggi un possibile strumento perché non solo si attui una distribuzione del reddito più equa ma anche perché si sviluppino quelle condizioni reali di scelta del lavoro, di vita e di sostenibilità sociale in grado di avere ricadute positive sulla struttura economica attuale, unico antidoto per combattere la speculazione e fuoriuscire dal guado della crisi. Una proposta che punta ad un uso qualitativo della spesa pubblica, al fine di favorire una crescita economica in grado, per questa via, di ridurre anche in parte il rapporto deficit/pil: esattamente l’opposto di quella politica fiscale restrittiva adottata da molti paesi europei con l’obiettivo di assecondare gli appetiti della speculazione finanziaria e di creare una situazione deflattiva con esiti che rischiano di peggiorare ulteriormente l’attuale situazione economica.
*Professore di economia politica nell’Università di Pavia