Sono tanti o sono pochi 2,5 milioni di individui in condizione di povertà assoluta censiti dall’Istat nel 2007?
Secondo Orazio Carabini, in un editoriale del Sole 24 Ore del 24/04/09, i dati sulla povertà assoluta pubblicati a fine aprile dall’Istat[1] e la contemporanea indagine della Banca d’Italia sulla distribuzione della ricchezza[2], smentirebbero la diffusa percezione di impoverimento del ceto medio e di aumento delle disuguaglianze che gli italiani avvertono. O meglio, non la confermerebbero se non in minima misura. Infatti i dati dell’Istat ci dicono che dal 2005 al 2007 l’incidenza della povertà assoluta è rimasta pressoché stabile, coinvolgendo circa il 4% delle famiglie e oltre 2 milioni di individui. La Banca d’Italia, da parte sua, segnala che il nostro paese, pur collocandosi a livello internazionale tra gli stati con il più alto livello della povertà e della disuguaglianza nei redditi familiari, non ha visto nell’ultimo quindicennio un sensibile inasprimento delle disuguaglianze (registrabile, invece, se si osserva l’ultimo trentennio, come documentato in diversi contributi presenti su questa stessa rivista[3]). Dunque la statistica smentirebbe la percezione di crescente insicurezza e disuguaglianza che l’opinione pubblica, in sintonia con il sistema dei media, avverte.
Ma è questo un modo corretto di interpretare i dati?
In primo luogo sarebbe opportuno confrontare le misure di povertà e disuguaglianza con l’andamento del ciclo economico, anche al fine di poter formulare un’ipotesi rispetto a quanto l’attuale crisi economica globale ci riserva. In secondo luogo, sarebbe necessario guardare a come è cambiata la composizione della povertà, al fine di formulare giudizi non sommari e farne discendere indicazioni di policy, come altri autori hanno fatto in questa stessa sede[4].
Quanto al primo aspetto, i dati di breve periodo forniti dall’Istat ci suggeriscono che l’andamento economico (modestamente) positivo del biennio 2006-2007 non ha avuto un effetto di riduzione, neppure minima, della povertà assoluta. D’altro canto, però, i dati di lungo periodo della Banca d’Italia suggeriscono che le fasi di ciclo economico negativo producono un effetto sensibile sui livelli di povertà e disuguaglianza. In particolare la crisi economica dei primi anni ’90 ha rappresentato un momento di cesura nell’andamento della distribuzione del reddito e dell’indigenza. Gli anni ’90 sono stati, per altro, anche il momento in cui la quota di ricchezza destinata al lavoro, sul valore aggiunto totale, ha raggiunto il suo livello minimo dal dopoguerra. Dalla crisi degli anni ’90 ad oggi, sempre secondo Banca d’Italia, non vi sarebbe evidenza, nei dati campionari sulla distribuzione dei redditi, di un aumento della disuguaglianza, di un assottigliamento dei ceti medi o di un impoverimento delle famiglie. La distribuzione presa nel suo complesso appare piuttosto stabile sebbene, come evidenzia l’indagine di via Nazionale, questa stabilità aggregata nasconda importanti cambiamenti nell’allocazione delle risorse e importanti disparità territoriali.
Ciò che sembra emergere, quindi, è una reattività della distribuzione della ricchezza alle fasi negative del ciclo economico cui però non è corrisposta una altrettanto sensibile riduzione delle disuguaglianze nelle fasi di congiuntura positiva. In altre parole, le fasi di ciclo economico negativo hanno prodotto un peggioramento nell’incidenza della povertà e nella distribuzione del reddito, ma quando l’economia è tornata a crescere i redditi sono rimasti fermi, sia in termini di livello delle disuguaglianze, sia in termini di incidenza della povertà.
Se è così, lo scenario che l’attuale crisi economica ci prepara è quello di un ulteriore aumento dell’indigenza e delle disuguaglianze nel corso del 2008 e del 2009. A meno di un intervento pubblico che operi in direzione opposta, di cui, allo stato attuale, non si scorge traccia. È sempre la Banca d’Italia a ricordare, infatti, che i trasferimenti sociali per famiglia, disoccupazione, abitazione ed esclusione sociale sono in Italia appena l’1,7 per cento del prodotto interno lordo, la quota più bassa dell’UE ad esclusione della Lituania, pari a poco più di un terzo della media comunitaria. Inoltre l’intero sistema di imposte e trasferimenti appare poco efficace nel ridurre le disuguaglianze generate dalle forze di mercato. Queste ultime, infatti, hanno agito modificando nel corso del tempo la composizione degli strati sociali in maggiore difficoltà. È macroscopica nel corso degli ultimi 30 anni l’erosione nella quota di ricchezza complessiva destinata al lavoro[5]. Anche guardando al medio ed al breve periodo si riscontra che, dal 1993 al 2008, la crescita delle retribuzioni lorde reali unitarie è stata contenuta, circa lo 0,6 per cento all’anno. L’aumento è inferiore per le retribuzioni al netto del carico fiscale, soprattutto per coloro che non hanno familiari a carico. I dati Istat, poi, segnalano che dal 2005 al 2007 l’incidenza dei lavoratori dipendenti tra gli individui in povertà assoluta è sempre aumentata, mentre si è ridotta l’incidenza dei lavoratori autonomi. Inoltre, avverte la Banca d’Italia, tra i lavoratori sono quelli impiegati con contratti a termine e i parasubordinati i più esposti al rischio povertà, soprattutto nelle fasi economiche recessive. Sono, infatti, i più esposti alla perdita dell’occupazione, perché sono i primi a subire i ridimensionamenti degli organici decisi dalle imprese, ma sono anche i meno protetti dagli ammortizzatori sociali, soprattutto per la frammentarietà dei loro percorsi professionali. Difficilmente le disuguaglianze all’interno dello stesso lavoro dipendente o assimilabile (parasubordinati) potranno ridursi senza che s’intervenga sul sistema delle prestazioni sociali. In particolare quello che pesa è la mancanza di un sostegno al reddito che abbia carattere universalistico e non sia legato, come accade ora, ad una particolare collocazione nel mercato del lavoro. Anche le disuguaglianze territoriali sono rimaste profonde nell’ultimo quindicennio: non solo la distanza tra le regioni del Nord e quelle del Sud non si è accorciata, ma i giovani meridionali hanno ripreso a emigrare, ed anche all’interno delle stesse regioni del mezzogiorno la distribuzione dei redditi è rimasta assai diseguale[6]. Si tratta di fenomeni che sono destinati ad approfondirsi, in una fase di crescita negativa, senza adeguati correttivi pubblici che intervengano, da un lato, sulla revisione in senso universalistico delle prestazioni sociali e, dall’altro, su programmi di sviluppo rispettosi dell’ambiente e del territorio (purtroppo le già insufficienti misure “anticrisi” varate dal governo vanno in tutt’altra direzione: si pensi allo svuotamento del FAS ed al piano casa per non parlare delle irrisorie e frammentarie risorse destinate ai parasubordinati, commentate in un precedente contributo[7]).
Diversamente, i 2,5 milioni di individui in stato povertà assoluta, registrati in un anno di crescita positiva come il 2007, saranno destinati a moltiplicarsi con l’avanzare della crisi.
*Ricercatrice, Università degli Studi di Milano e CGIL Milano