1. Non vi è dubbio che il fenomeno della disoccupazione eserciti un ruolo determinante nella dinamica sociale e nella percezione che di questa si ha. In Italia, il dato pubblicato da ISTAT, relativo allo scorso mese di settembre, segnala un tasso di disoccupazione pari all’11,1% delle forze di lavoro. Un miglioramento rispetto a dodici mesi prima, quando tale parametro si attestava all’11,8%. In valori assoluti, si è passati da 3.045.000 persone in cerca di lavoro alla fine del terzo trimestre del 2016, a 2.891.000 disoccupati nella stessa data del 2017.
Tuttavia, se inquadriamo la questione nel contesto più generale e confrontiamo la posizione dell’Italia con la media dell’area euro e con le altre tre grandi economie dell’Unione Monetaria, emerge come il nostro Paese resti pur sempre, subito dopo la Spagna, quello con il più elevato tasso di disoccupazione.
Come già argomentato su Economia e Politica, occorre anche considerare la metodologia di rilevazione dei numeri esposti nel grafico precedente. Sono classificate come occupate le persone, di età superiore ai 15 anni, le quali, nel corso della settimana di riferimento, abbiano lavorato almeno un’ora. Può sembrare curioso, ma tale è la definizione assunta a livello internazionale. Di conseguenza, per essere classificati tra i disoccupati, occorre rispettare tutte le seguenti quattro condizioni:
- avere un’età compresa tra i 15 e i 74 anni;
- non essere occupati secondo la definizione prima specificata;
- essere disponibili ad accettare un’offerta di lavoro nell’arco delle prossime due settimane;
- aver attivamente cercato un’occupazione nelle quattro settimane precedenti quella di riferimento.
Sorge il dubbio che la struttura della rilevazione, soprattutto nel nuovo ambiente creatosi dopo la doppia recessione cui sono state soggette le economi europee, tenda a sottostimare l’effettiva diffusione della disoccupazione. D’altra parte, la condizione di sofferenza in cui si trovano le classi disagiate in Italia appare confermata da diversi indicatori, non ultimo dei quali la ripresa di apprezzabili flussi migratori verso l’estero: le iscrizioni all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, registrate nel 2016 per solo espatrio, sono aumentate del 15,4% rispetto all’anno precedente, un incremento che ha interessato tutte le regioni ad esclusione del Friuli Venezia Giulia (nel 2016 si sono iscritte all’Aire per espatrio oltre 124 mila persone, ossia, in rapporto alla popolazione italiana, 2 ogni mille abitanti).
Che vi sia qualcosa di non convincente nei dati sulla disoccupazione è ormai così evidente che la stessa Banca Centrale Europea ha ritenuto opportuno affrontare la questione con un’analisi ad hoc[1] condotta sui dati del quarto trimestre del 2016. Nel ricalcolare una misura più efficace per rilevare la stagnazione del mercato del lavoro nei Paesi europei, la BCE ha preso in considerazione, oltre ai disoccupati normalmente rilevati dalle indagini, anche altre due categorie di persone: chi è senza lavoro, anche se non rispetta i requisiti 3 e 4 della definizione di disoccupato (disoccupati scoraggiati[2], in precedenza classificati tra la popolazione inattiva), e chi è occupato part time, ma desidererebbe lavorare più ore di quelle attualmente assegnategli[3] (part time sottoccupati, persone incluse tra gli occupati). Le conclusioni cui è giunto l’istituto di Francoforte sono piuttosto significative: all’interno dell’area euro, l’incidenza della disoccupazione e della sottoccupazione si attesta al 18% della forza lavoro, ossia circa il doppio di quanto rilevato sulla base degli indicatori ordinari. Nello stesso studio si afferma che tuttora il mercato del lavoro europeo offre, con l’importante eccezione della Germania, poche opportunità ai lavoratori.
2. Come è noto, da diversi mesi sulla stampa si sottolinea il miglioramento della congiuntura economica sia in Europa, che in Italia. Pertanto può essere opportuno verificare se tale miglioramento abbia manifestato effetti significativi anche nel mercato del lavoro. Ho deciso di seguire la metodologia applicata dalla BCE sui dati più recenti disponibili (secondo trimestre del 2017) per alcuni tra i principali Paesi europei, indipendentemente dalla loro appartenenza all’Unione Europea o dal fatto che abbiano adottato l’euro o che utilizzino ancora la loro moneta nazionale. E quindi ho aggiunto al numero dei disoccupati ordinari i lavoratori part time sottoccupati, le persone inattive che hanno cercato lavoro anche se non sono immediatamente disponibili a cominciare l’attività e le persone prive di lavoro disponibili ad accettare un’occupazione ma che non hanno svolto attività di ricerca di un’occupazione[4]. Le ultime due categorie sono definite “forza di lavoro potenziale addizionale” poiché, pur ricadendo, secondo i criteri dell’ILO[5], all’interno della definizione di popolazione inattiva, evidenziano una certa disponibilità a partecipare al mercato del lavoro che non si concretizza per ragioni in buona parte indipendenti dalla loro volontà. Naturalmente, ho provveduto a modificare il denominatore del rapporto, aggiungendo alle forze di lavoro (secondo la definizione ILO) anche la forza lavoro potenziale addizionale.
I risultati, relativi al secondo trimestre del 2017, sono rappresentati nel grafico che segue.
È opportuna qualche veloce (e superficiale) osservazione. Non stupisce trovare ai vertici di tale poco edificante graduatoria la Grecia e la Spagna, Paesi direttamente colpiti dalla crisi debitoria. La terza posizione dell’Italia rende bene il quadro drammatico in cui vivono gli italiani e dovrebbe fare piazza pulita di tante chiacchiere dei nostri governanti. La sorpresa (relativa) è trovare al quarto e quinto posto rispettivamente Finlandia e Francia: anche i ricchi piangono? In realtà, la Finlandia, in coincidenza con l’entrata in vigore della moneta unica europea, è progressivamente scivolata verso una posizione netta verso l’estero negativa (ossia ha cominciato ad esportare meno di quanto importi) e questo freno alla sua dinamica economica si è riflesso in un aumento della disoccupazione; anche la Francia da tempo soffre problemi di competitività delle sue industrie (con l’eccezione di quella degli armamenti). La presenza della Germania tra i Paesi con minore disoccupazione non stupisce. Vale la pena, però, di notare come anche Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca mostrino, nel complesso, tassi di disoccupazione totale non dissimili da quelli tedeschi: assieme alla Slovacchia, appartengono al cosiddetto gruppo di Visegrad, i cui governi, sostenuti per lo più da maggioranze di destra con orientamento nazionalista, esprimono politiche di relativo protezionismo del proprio mercato interno, in aperto contrasto con l’apertura totale ai flussi economici, finanziari e migratori sostenuta dalle istituzioni dell’Unione Europea.
Un ulteriore aspetto da considerare è la composizione della disoccupazione totale in funzione delle quattro categorie specificate in precedenza. Per semplificare la lettura (e anche per renderla più significativa), si sono raffrontate le dinamiche delle quattro principali economie della cosiddetta Eurozona: Germania, Francia, Italia e Spagna. A queste si è affiancato il valore medio calcolato per l’Eurozona. Con riferimento al secondo trimestre del 2017, fatto 100 i disoccupati totali, si hanno le articolazioni presentate nei grafici che seguono:
Come si vede, la situazione è diversa da Paese a Paese, sicché la media dell’Eurozona appare poco rappresentativa, anche se emerge qualche somiglianza con la composizione della Francia. Colpisce immediatamente, con riferimento all’Italia, il rilevante peso delle persone disponibili a lavorare ma che non cercano attivamente occupazione e che, caso unico tra quelli esaminati, sopravanza anche quello dei disoccupati (propriamente detti) e fornisce l’immagine di un mercato del lavoro pietrificato dalla modesta prospettiva di trovare effettivamente un’occupazione. Non vi è alcun riscontro di tale drammatica condizione negli altri Paesi, dove il peso di questa categoria non supera il 13% dei disoccupati totali. La Germania evidenzia una forte incidenza dei part time sottoccupati, probabilmente un riflesso della diffusione dei cosiddetti mini-job. Più vicine appaiono le posizioni di Francia e Spagna, con quest’ultima più colpita dalla vera e propria disoccupazione, mentre la Francia presenta un maggior peso dei part time sottoccupati.
3. Infine, pare opportuno delineare l’evoluzione registrata negli ultimi anni dalle quattro componenti della disoccupazione totale. I dati messi a disposizione da Eurostat partono dal primo trimestre del 2008, quindi permettono di cogliere l’evoluzione avvenuta nel mercato del lavoro in coincidenza con lo scoppio della crisi dei mutui subprime negli USA e la conseguente recessione del 2009. Appare non trascurabile anche l’impatto della cosiddetta crisi del debito sovrano europeo, manifestatasi a partire dal 2010 con la scoperta del buco di bilancio della Grecia.
La Germania si presenta come l’unico Paese in cui l’attuale tasso di disoccupazione è minore di quello antecedente la crisi. L’economia tedesca, al contrario delle altre, è stata in grado di riassorbire tutte le quattro componenti della disoccupazione totale. Nel primo trimestre del 2008 il tasso di disoccupazione totale tedesco era pari al 17,2%. Alla fine del periodo esaminato (secondo trimestre del 2017) tale parametro è sceso al 9,2%.
La Francia[6] ha sperimentato, nell’arco di tempo esaminato, un incremento del tasso di disoccupazione totale dal 14,0% al 17,3%. La maggior parte della crescita è avvenuta a livello di disoccupazione ordinaria (passata dal 7,0% al 9,8%).
In Italia, il tasso di disoccupazione totale è salito dal 17,9% del primo trimestre del 2008 al 23,1% del secondo trimestre del 2017. È aumentata la disoccupazione (da 6,4% a 9,8%), ma rimane preminente il peso delle persone disponibili a lavorare ma non attive nella ricerca di un’occupazione (da 9,4% a 10,3%).
Anche la Spagna ha registrato un peggioramento del tasso di disoccupazione totale, passato da 16,6% a 26,8%. Qui è stata la disoccupazione ad aumentare di oltre sette punti percentuali (da 9,2% a 16,5%) dopo aver toccato il massimo di 25,5% nel primo trimestre del 2013. Sono cresciuti anche i part time sottoccupati (da 3,3% a 5,9%), mentre per le altre categorie si sono rilevati incrementi marginali.
In conclusione, da questa breve analisi preliminare si ricava l’impressione di un mercato del lavoro europeo che, pur con le sue specificità nazionali, appare ancora in sofferenza. Sembra difficilmente contestabile la necessità di avviare politiche pubbliche volte a sostenere l’occupazione. Tra queste, non è di secondaria importanza il ripristino di normative destinate a limitare i perversi effetti della legge della domanda e dell’offerta all’interno del mercato del lavoro, in considerazione della particolare natura della merce “forza-lavoro”. Tra le maggiori economie, fa eccezione a questo quadro negativo la Germania, con indici che lasciano intendere come tale Paese sia prossimo alla piena occupazione, ma ci sono anche altri Paesi di dimensioni minori (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria) che evidenziano condizioni occupazionali migliori degli altri Stati appartenenti all’Unione Europea. Come che sia, la difformità delle situazioni nazionali è un’ulteriore conferma del mancato processo di convergenza economica, tanto più grave laddove riguardi nazioni che hanno adottato la stessa moneta.
[1] BCE, Assessing labour market slack, Economic Bulletin 3/2017.
[2] Il termine “disoccupato scoraggiato” si applica più propriamente alle persone che, essendo privi di un lavoro, non rispettano il punto 4 dell’elenco sopra. Qui, per comodità di lettura, si estende tale appellativo anche a coloro che non rispettano il punto 3.
[3] Si tratta di informazioni rilevate nelle indagini trimestrali condotte per misurare l’occupazione e la disoccupazione.
[4] Tale informazioni sono contenute nelle tavole [lfsq_pganws] e [lfsq_sup_age] pubblicate sul sito di Eurostat (http://ec.europa.eu/eurostat ).
[5] International Labour Organization.
[6] I dati francesi relativi ai quattro trimestri del 2013 non sono disponibili negli archivi di Eurostat.