La ricerca di una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro ha notevolmente cambiato le condizioni dei lavoratori, sia dal punto di vista delle tutele legislative e contrattuali connesse allo status di lavoratore, sia dal punto di vista delle concrete condizioni di lavoro, sempre più ispirate all’instabilità ed alla variabilità (dei ruoli, delle mansioni, degli orari, delle sedi di svolgimento del lavoro)[1]. Esso non solo ha ampliato il ventaglio delle possibili forme contrattuali a termine cui le imprese possono ricorrere, ma ha notevolmente prodotto una progressiva deregolamentazione e destandardizzazione dei percorsi professionali dei soggetti coinvolti, che sono sempre di più esposti ai rischi di un mercato instabile e sempre di più esclusi dai sistemi di tutele collettive (indennità per malattie, per infortuni, per disoccupazione etc.) che vengono garantite soltanto ai cosiddetti lavoratori standard. È chiaro dunque, che facilitare l’uso dei rapporti di lavoro temporanei senza intaccare la regolamentazione dei contratti a tempo indeterminato aggrava il dualismo (o segmentazione) del mercato del lavoro[2].
La diffusione dei lavori atipici ha dunque determinato un approfondimento delle disuguaglianze ed un irrigidimento delle segmentazioni all’ interno della forza lavoro dove nuove forme di disuguaglianza si sovrappongono a vecchie e non superate forme di disparità, determinando nuove differenze. La deregolamentazione del mercato ed il conseguente avvento dei lavori atipici hanno esposto i lavoratori a numerosi rischi di varia natura, producendo nuove linee di demarcazione determinate da svariati fattori di differenziazione che possono porre i soggetti in condizioni di maggiore o minore fragilità.
Prima di entrare nel merito della questione, cominciamo con il considerare l’indicatore che permette di quantificare il grado di protezione dell’occupazione previsto dalla legislazione di un paese, ossia l’EPL (Employment Protection Legislation) calcolato dall’Ocse[3].
Di seguito si riporta l’andamento dell’EPL dei paesi membri Ocse dal 1990 al 2013[4].
Fig. 1: EPL paesi membri Ocse 1990-2013
Se si osserva la Fig.1 con eccezione di Paesi come Irlanda, Australia, Regno Unito, Francia, Nuova Zelanda si nota che la grande maggioranza dei Paesi considerati ha reso più flessibile il mercato del lavoro. La variazione dell’indicatore EPL è stata ottenuta dalle riforme “parziali”[5] (o al margine). Dagli inizi degli anni 90 in poi c’è stato un evidente processo di riforma dei regimi di protezione dell’impiego, principalmente determinato dai cambiamenti della regolazione del lavoro temporaneo liberalizzandone i contratti di lavoro e lasciando invariato il sistema di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato perpetuando in questo modo le sostanziali diseguaglianze presenti nel mercato del lavoro. Paesi con un livello alto e medio di protezione dell’impiego hanno portato avanti profonde riforme volte a rendere più flessibile il mercato del lavoro; in quasi tutti i casi, il processo di deregolamentazione ha avuto luogo principalmente attraverso una serie di riforme marginali che hanno facilitato il ricorso a forme temporanee d’impiego (liberalizzazione dei contratti a termine e lavoro tramite agenzia). Per avere una conferma di ciò basta osservare rispettivamente l’andamento dell’EPRC (Employment Protection Regular Contract) e dell’EPT (Employment Protection Temporary) nelle tabelle di seguito riportate. Il sotto indicatore EPRC (che pesa ½ nel calcolo complessivo dell’EPL) è stimato come segue dall’OCSE:
Tab. 1: EPRC Paesi membri Ocse 1990 – 2013
Fonte: Ocse
Il sotto indicatore EPT (che pesa ½ nel calcolo complessivo dell’EPL) viene stimato come segue dall’OCSE:
Tab. 2: EPT Paesi membri Ocse 1990 – 2013
Fonte: Ocse
Come affermato la maggioranza dei paesi, ha condotto dal 1990 ad oggi politiche di liberalizzazioni del lavoro a termine (alcune eccezioni sono Finlandia, Francia, Polonia). Si noti invece, che l’Italia è tra i paesi che si sono impegnati a fondo nel ridurre la protezione dell’occupazione, riducendo le tutele di oltre il 40%; l’EPL è passato dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013; soprattutto è il Paese che dal 1990 ad oggi, ha fatto i maggiori sforzi nella liberalizzazione del lavoro a termine riducendo l’EPT del 60% lasciando sostanzialmente invariato l’EPRC cosi come si evidenzia nel grafico che segue:
Fig. 2: EPL, EPR,EPT Italia 1990-2013
Fonte: Mie elaborazioni su database OCSE
Solo alcuni paesi hanno invece agito sull’EPRC ma con variazioni di piccole entità (si noti ad esempio che la Germania tra il 1990 e il 2013 ha incrementato la protezione del lavoro regolare, mentre paesi come Danimarca, Belgio, Irlanda, Italia l’indicatore è rimasto sostanzialmente invariato). Il fatto che molti paesi hanno, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, facilitato l’uso di forme temporanee di occupazione a discapito del lavoro regolare ha aumentato il grado di dualismo del mercato del lavoro[6].
È opportuno individuare un indicatore della differenza di protezione del lavoro tra contratti regolari e temporanei[7], misurando la differenza tra la protezione del lavoro regolare e quella a termine in rapporto al valore di quest’ultima[8]. La formula dunque utilizzata è quella contenuta nell’Employment Outlook 2004: (EPRC-EPT)/EPT; i risultati sono riportati nella tabella che segue:
Tab. 3: Gradi di dualismo 1990 – 2013
Fonte: mie elaborazioni su dati Ocse
Tra i paesi che nel corso degli anni presi in considerazione hanno ridotto la differenza di protezione tra i contratti regolari e non ritroviamo ad esempio la Polonia, l’Ungheria (in entrambi i casi grazie ad un aumento dell’EPT) e l’Irlanda (ha contemporaneamente agito su un aumento dell’EPT ed una riduzione dell’EPRC).
Viceversa, tra i paesi che dal ’90 al 2013 hanno registrato un incremento nella differenza di regolamentazione ai primi posti troviamo la Svezia seguita dalla Germania[9], dalla Danimarca Paesi Bassi e l’Italia.
Per quanto riguarda l’Italia, essa rappresenta un caso abbastanza esemplare; nel 1990 la differenza di protezione del lavoro tra i diversi contratti è di –0,43 punti a favore dei contratti temporanei (difatti l’EPT ha in valore pari 4,9 mentre l’EPRC 2,76; quindi i contratti atipici hanno una protezione quasi doppia rispetto al lavoro regolare). Nel corso degli anni però la situazione è andata ribaltandosi difatti a parità di EPRC, l’EPT si è progressivamente ridotto[10] e nel 2013 l’Italia presenta una differenza di protezione tra i contratti di circa 0,26 a favore questa volta dei contratti regolari (difatti l’EPT si è più che dimezzato ed ha un valore pari 2,00 mentre l’EPRC si è leggermente ridotto avendo un valore pari a 2,51; quindi sono ora i contratti regolari ad avere un livello di regolamentazione superiore di circa il 26% rispetto al lavoro atipico).
Come per l’Italia anche per gli altri paesi tra il 1990 ed il 2013 la differenza di protezione del lavoro tra i diversi contratti è cambiata come mostrato nella figura in basso.
Fig. 3: Evoluzione nella differenza di regolamentazione 1990-2013
Fonte: mie elaborazioni su database Ocse
Il grafico, come affermato, è principalmente suddiviso in due parti:
- Nella prima parte rientrano tutti qui paesi che dal ’90 al 2013 hanno progressivamente ridotto la differenza di protezione tra i contratti regolari e quelli temporanei (al primo posto Irlanda seguita dall’Ungheria, Nuova Zelanda e così via).
- Nella seconda parte ritroviamo invece quei paesi che nello stesso arco temporale, hanno registrato un incremento nella differenza di regolamentazione tra le diverse tipologie contrattuali[11]. Tra questi paesi L’Italia si colloca in una posizione intermedia;
Soffermando l’attenzione sull’esperienza italiana della flessibilità si nota come l’Italia, il cui mercato era tra i più rigidi in Europa, non è rimasta indifferente alle sollecitazioni proveniente dallo Job Study[12].
Nella figura che segue, è possibile osservare i cambiamenti avvenuti nel grado di protezione dell’occupazione standard e non.
Fig. 4: Evoluzione EPL e componenti (1990-2013)
Fonte: mie elaborazioni su database Ocse
Per l’Italia la diminuzione del valore dell’indicatore EPL è da attribuirsi fino al 2012 ad una maggiore flessibilità avvenuta in modo consistente ad iniziare dal 1997[13] in poi e riconducibile da un lato alla maggiore liberalizzazione dell’utilizzo dei contratti a termine, allentandone le restrizioni sui rinnovi e incrementandone la durata e i casi validi di utilizzo e dall’altro ad un ricorso sempre maggiore alle agenzie di lavoro temporaneo[14].
Nel 2013 invece si registra per la prima volta una riduzione del valore dell’indice EPL riconducibile alla componente relativa al lavoro a tempo indeterminato[15] con una riduzione dell’ EPR del 9,95%, comportando dunque una riduzione del divario di regolamentazione tra contratti atipici e contratti regolari come mostrato nella figura che segue:
Fig. 5: Grado di dualismo prima e dopo la riforma Fornero
Fonte: mie elaborazioni su dati Ocse
Se con la legge 92/2012 si cambia direzione, con la deregolamentazione del lavoro a termine prevista dal decreto Poletti[16] si torna indietro; è facile infatti ipotizzare che l’EPT possa subire, per l’Italia, un nuovo aggiustamento al ribasso. Il grafico che segue ne mostra proprio la possibile evoluzione.
Il decreto Poletti dunque, indipendentemente dagli effetti occupazionali, ha aumentato il dualismo del mercato del lavoro. Una riduzione del grado di dualismo potrà scaturire dall’introduzione del contratto unico a tutele crescenti che certamente riduce il grado di protezione del lavoro “regolare” e diminuirà il dualismo [17] in Italia tra garantiti e non.
Concludendo dunque, non solo in Italia ma anche a livello internazionale si discute su quali siano le scelte politiche per ridurre la segmentazione del mercato del lavoro. Valuteremo in futuro se anche le più recenti riforme del mercato del lavoro nel nostro Paese si siano limitate a rimescolare il lavoro tra contratti a termini e contratti a tempo indeterminato o siano riuscite ad aumentare effettivamente i livelli occupazionali.