La rappresentazione dell’Ocse dello stato del mercato del lavoro italiano durante la crisi è drammatica. L’Employment Outlook del settembre 2014 lo attesta senza troppe ambiguità. Peraltro nell’intera eurozona la situazione non è molto diversa, se si fa una comparazione con gli Stati Uniti ma anche con i paesi europei fuori dalla moneta unica. L’Ocse giunge a rilevare che troppa flessibilità nel mercato del lavoro, troppi rapporti di lavoro non-standard, precari e mail retribuiti, abbassano la motivazione dei lavoratori ed il loro impegno, peggiorano anche le condizioni di lavoro nell’impresa, ed infine, creano addirittura problemi sulla crescita della produttività.
Anche Mario Draghi governatore della BCE nel suo intervento di fine agosto negli Stati Uniti ha espresso preoccupazione. Draghi ha posto il problema della carenza di domanda, ed ha avanzato anche alcuni importanti distinguo circa la dimensione della disoccupazione strutturale rispetto alla disoccupazione ciclica, giungendo ad affermare che le stime della Commissione Europea sono soggette a molta incertezza ed affidabilità quindi quando si prescrivono politiche economiche dal lato dell’offerta.
Ciononostante, le due istituzioni, OCSE e BCE, non sembrano trarre dalla loro analisi alcune conseguenze importanti, ovvero che insistere sul refrain delle riforme strutturali, sul mercato del lavoro in particolare, non è la politica più adatta per contrastare la crisi ed avviare un percorso di crescita. Anzi insistono sulla necessità di ulteriori interventi per flessibilizzare il lavoro, flessibilizzare gli ingressi ed ancor più le uscite, ovvero rendere più facile i licenziamenti, individuali e collettivi. E quindi l’articolo 18 in Italia ritorna al centro della discussione: la sua definitiva cancellazione dopo la riforma recente del 2012 appare come l’unico risultato che il governo Renzi debba portare al tavolo europeo nel prossimo summit di ottobre sulla disoccupazione. Per ottenere cosa in cambio non appare chiaro. Si chiede più flessibilità sui conti, perché con un Pil che diminuisce anche nel 2014 i conti traballano assai e l’Aggiornamento al Def1014, in attesa della Legge di stabilità, è davvero molto problematico come anche Padoan ha dichiarato al Parlamento italiano.
1. La visione dell’Ocse sul mercato del lavoro italiano
Per l’Ocse, le condizioni dei giovani sul mercato peggiorano, aumenta per loro la disoccupazione e chi sta fuori dal mercato sta persino peggio. Il lavoro svolto dalle finte attività autonome rimane elevatissimo in Italia, con prestazioni lavorative di liberi professionisti che in realtà svolgono lavoro subordinato. Il numero dei Neet aumenta: sono i giovani che non hanno un lavoro, non studiano e non ricevono formazione, e neppure cercano lavoro. Il sistema di protezione sociale è inefficiente ed iniquo. Pure gli occupati, con contratti ormai pseudo “garantiti” e “stabili”, vedono peggiorare le condizioni perché neppure loro godono di tutele dopo sette anni di crisi economica quando le imprese chiudono. Il lavoro non standard con basse tutele sostituisce quello standard, le retribuzioni si abbassano e così pure la produttività delle persone, le motivazioni a lavorare bene e meglio, le soddisfazioni che traggono dall’attività lavorativa, mentre aumenta lo stress, la pressione sul lavoro, l’insicurezza. Infine, le persone con formazione ed istruite, i lavoratori qualificati, svolgono spesso funzioni e compiti al di sotto delle competenze acquisite, molto più di quanto avvenga in altri paesi, perché l’impresa italiana domanda lavoro a bassa produttività e con basse competenze. I dati dell’Ocse ci raccontano tutto ciò.
Ma l’Ocse aggiunge anche che la “disoccupazione strutturale”, quella sotto la quale si innescherebbero pressioni inflazionistiche, è aumentata e difficilmente verrà riassorbita con il ritorno alla crescita. In altre parole ci dovremmo abituare a convivere con una disoccupazione del 10-12%, tra i 2 milioni e mezzo ed i 3 milioni di disoccupati. Uno scenario da incubo: se aggiungiamo i Neets, gli inattivi perché scoraggiati, gli inoccupabili perché fuori mercato e “rottamati” come gli “esodati” e gli “esondanti”, superiamo i 6 milioni di persone involontariamente private di lavoro e reddito.
L’aumento della disoccupazione strutturale stimata dall’Ocse ha poi altri effetti di non poco conto sugli obiettivi di medio termine per il consolidamento fiscale ed il rispetto del Fiscal Compact: Il gap tra tasso di disoccupazione strutturale e quello di disoccupazione effettiva si riduce e quindi si restringono i margini della politica economica, degli strumenti fiscali keynesiani, della domanda pubblica che implica minore spazio per fare politiche di struttura per il nostro apparato industriale, meno politica industriale. E se si tolgono questi strumenti dal lato della domanda pubblica, rimangono sul tavolo solo le ricette che puntano in direzione di meno tasse con copertura nei tagli della spesa, per soddisfare i vincoli di bilancio, e quindi di riforme strutturali del mercato del lavoro per avere più flessibilità. La politica economica si risolve tutto qui: flessibilità del lavoro alla massima velocità. Non c’è spazio né per Keynes, né per Beveridge, né per Schumpeter.
L’Ocse per affrontare la drammatica situazione italiana del lavoro ha però una unica ricetta salvifica: più flessibilità di mercato, meno regole per gli ingressi e meno regole per le uscite, e torna il “tempo delle mele”, dell’articolo 18, con la raccomandazione di ulteriore revisione peggiorativa della norma sui licenziamenti dopo i cambiamenti del 2012 (legge 92 targata Monti-Fornero), affinché chi viene ingiustamente licenziato non possa più godere di alcun diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro, ma al massimo ricevere un indennizzo automatico in funzione dell’anzianità lavorativa senza passare neppure dal via, ovvero dal giudice, perché sappiamo che i giudici del lavoro tutelano appunto la parte debole del mercato e quindi il lavoratore, e fanno crescere i costi per l’impresa. Limitare il diritto di reintegro al licenziamento discriminatorio significa la cancellazione di quel diritto tout court perché solo un imprenditore stupido licenzierebbe con una motivazione esplicitamente sindacale, politica, razziale, di genere o simili. Scambio “diritti contro denaro”, questa è la ricetta occupazionale dell’Ocse, e di quanti in Italia credono si possa curare il malato con più flessibilità di mercato, ovvero con ciò ha causato la malattia medesima. La monetizzazione della giusta causa: benché tu sia stato ingiustamente licenziato ledendo diritti fondamentali di dignità del lavoro, il massimo che puoi chiedere è un indennizzo monetario, qualche mensilità aggiuntiva, e con quella rimetterti sul mercato alla ricerca di un lavoro chiaramente non standard, probabilmente molto precario e mal retribuito.
Che questa ricetta perniciosa non abbia prodotto altro che più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative, meno motivazioni sul lavoro, cosa di cui l’Ocse peraltro si lamenta, poco importa. Che ciò non favorisca l’aumento dell’occupazione ma al massimo una sostituzione di lavoro giustamente retribuito e stabile, con lavoro instabile e con salari in discesa, contratto dopo contratto, poco importa, come pure che i contratti flessibili diventino una “trappola” della precarietà per chi li ha, da cui è difficile uscire. Che la maggiore flessibilità, il diritto a licenziare come e quando pare conveniente nel brevissimo periodo, produca un aumento della disoccupazione invece che una sua riduzione, soprattutto se adottata nelle fasi di crisi pure prolungate in cui il lavoro manca perché manca la domanda di lavoro che è – ricordiamolo – domanda derivata dalla domanda di mercato, ed in fondo dalla domanda effettiva, poco interessa.
Che questa ricetta abbia anche l’effetto deleterio di non far crescere la produttività del lavoro, altro male tipicamente italiano causato non da troppe regole e tutele ma da poca innovazione nei luoghi di lavoro e nell’organizzazione del lavoro, innovazione di processo e soprattutto di prodotto, anzi produca un incentivo a non investire, ad usare lavoro a basso costo e bassa produttività, è una delle tante incoerenze del modello che ci viene propinato da ben più di un decennio. Quindi una ricetta al contempo miope e perniciosa.
La situazione è drammatica, come viene raffigurata dall’Ocse stessa: i contratti flessibili, come quelli introdotti da Renzi-Poletti, estendono la precarietà, rischiano di ridurre la funzione “ponte” dei contratti temporanei dal lavoro non standard verso il lavoro standard, ed accrescono invece la funzione “trappola” della precarietà, se non quella peggiore di “rimbalzo”, ovvero di ritorno verso la disoccupazione e la inattività, soprattutto in tempo di crisi in cui il lavoro manca perché manca la domanda di lavoro e la domanda di beni è scarsa. Ebbene, in questa situazione, la ricetta proposta è quella di favorire i licenziamenti, quindi accrescere i rischi di precarietà e di disoccupazione, accompagnando ciò con un minimo di assicurazione sociale universale. Questa si chiama schizofrenia, riempita da idee economiche perniciose, che non hanno fondamento perché non hanno riscontri empirici a favore, anzi l’opposto, hanno riscontri nettamente contrari.
Il Jobs Act renziano, si afferma da noi, dovrebbe rivedere le norme sul lavoro come suggerisce l’Ocse stesso e ci chiedono le raccomandazioni europee. Rendere ancora più flessibile gli ingressi, ridurre le rigidità nelle uscite, semplificare le norme, abbassare il costo di ogni transazione di mercato, ed unificare il mercato del lavoro oggi segmentato e dualistico tra protetti e non protetti, portando le tutele dei primi al livello delle non-tutele dei secondi. E quindi il mantra è cancellare l’articolo 18, in modo definitivo. Il dibattito di questi giorni appare davvero surreale.
2. Dalla Bce il solito refrain sulla flessibilità non muta
Le affermazioni recenti dell’Ocse sulla disoccupazione strutturale non sembrano però aver attratto la necessaria attenzione. Invece meritano un esame perché da qui ha preso le mosse Mario Draghi, il Governatore della Bce, per esternare una “cambio di passo”.
Siamo infatti approdati alla “Draghinomics”, e ci chiediamo non a caso: “Quanto sono affidabili le stime sulla disoccupazione strutturale?”
Non entriamo qui nel dibattito accademico, e neppure nell’area della sua divulgazione.
Ci sembra però qui importante far notare che addirittura il Governatore della Bce, Draghi, nel suo intervento al Jackson Hole Symposium del 22 agosto 2014 abbia così affermato sul tema della disoccupazione strutturale (Mario Draghi, “Unemployment in the euro area”, Bce, 2014):
“The first is that estimates of structural unemployment are surrounded by considerable uncertainty, in particular in real time. For example, research by the European Commission[1] suggests that estimates of the Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment (NAWRU) in the current situation are likely to overstate the magnitude of unemployment linked to structural factors, notably in the countries most severely hit by the crisis“.
[…]
“To sum up, unemployment in the euro area is characterised by relatively complex interactions. There have been differentiated demand shocks across countries. These shocks have interacted with initial conditions and national labour market institutions in different ways – and the interactions have changed as new reforms have been adopted. Consequently, estimates of the degree of cyclical and structural unemployment have to be made with quite some caution. But it is clear that such heterogeneity in labour market institutions is a source of fragility for the monetary union.” (enfasi aggiunta)
Krugman fa notare come Draghi abbia affermato che la Commissione Europea sovrastimi la disoccupazione strutturale, e rimandi invece ad una carenza di domanda. Così anche Krugman riporta un passaggio del discorso di Draghi, questo che segue (Paul Krugman, “Draghi at Deflation Gulch”, New York Times, 23 agosto 2014):
“The most recent GDP data confirm that the recovery in the euro area remains uniformly weak, with subdued wage growth even in non-stressed countries suggesting lacklustre demand. In these circumstances, it seems likely that uncertainty over the strength of the recovery is weighing on business investment and slowing the rate at which workers are being rehired. […] The risks of “doing too little” – i.e. that cyclical unemployment becomes structural – outweigh those of “doing too much” – that is, excessive upward wage and price pressures” (Draghi, 2014)
Ma Krugman non è affatto fiducioso che Draghi possa fare qualcosa: “The point is that even if Draghi is, as I believe he is, a good man and a good economist who gets the situation, the combination of the euro’s structure and the intransigence of the austerians means that the situation remains very grim”. D’altra parte, se la disoccupazione strutturale fosse aumentata così tanto da ridurre il gap con la disoccupazione effettiva, perché non vi è evidenza di alcune pressione verso l’alto sui salari e sui prezzi, anzi, questi sono in discesa?: “So he’s effectively saying the same thing as Janet Yellen: if unemployment is structural, where are the wage gains?”, si domanda Krugman.
Noi siamo meno ottimisti di Krugman che vede nel Draghi pensiero segnali positivi ed attribuisce la mancanza di politica espansiva della Bce ai vincoli da cui la Bce stessa è frenata, vincoli istituzionali e vincoli politici. Istituzionali perché la Bce non è legittimata ad operare come la Fed americana per ragioni statutarie, politiche in quanto pur nei limiti statutari l’intervento della Bce è sotto costante monitoraggio del governo tedesco, della Deutsche Bundesbank, ed anche della Corte Costituzionale Federale (Bundesverfassungsgericht – BverfG) di Karlsruhe che è già intervenuta sul fondo salva stati (ESM – Meccanismo Europeo di Stabilità).
Non vi è dubbio che con il discorso di Jackson Hole, Draghi abbia segnato una discontinuità con il refrain sulle riforme strutturali, argomentando che l’Eurozona soffre di un problema serio dal lato della domanda effettiva e che interventi di sostegno pubblico su scala europea siano oggi imprescindibili, pur operando entro le regole fiscali fissate dal Patto di Stabilità e Crescita.
“On the demand side, monetary policy can and should play a central role, which currently means an accommodative monetary policy for an extended period of time. I am confident that the package of measures we announced in June will indeed provide the intended boost to demand, and we stand ready to adjust our policy stance further.
[…]
Turning to fiscal policy, since 2010 the euro area has suffered from fiscal policy being less available and effective, especially compared with other large advanced economies. This is not so much a consequence of high initial debt ratios – public debt is in aggregate not higher in the euro area than in the US or Japan. It reflects the fact that the central bank in those countries could act and has acted as a backstop for government funding. This is an important reason why markets spared their fiscal authorities the loss of confidence that constrained many euro area governments’ market access. This has in turn allowed fiscal consolidation in the US and Japan to be more backloaded.
Thus, it would be helpful for the overall stance of policy if fiscal policy could play a greater role alongside monetary policy, and I believe there is scope for this, while taking into account our specific initial conditions and legal constraints. These initial conditions include levels of government expenditure and taxation in the euro area that are, in relation to GDP, already among the highest in the world. And we are operating within a set of fiscal rules – the Stability and Growth Pact – which acts as an anchor for confidence and that would be self-defeating to break.”
Draghi afferma certo che interventi sulla domanda ed sull’offerta devono andare di pari passo, ma rimane ambiguo per cosa intenda per interventi dal lato della domanda, mentre è esplicito su cosa intenda per interventi sull’offerta. Sulla politica monetaria dichiara di impegnarsi (ma lo aveva già detto) per contrastare i rischi della deflazione (purtroppo la deflazione c’è già e la Bce avrebbe dovuto anticiparne l’avvento), inducendo anche l’importazione dell’inflazione mediante il ribasso del valore dell’Euro, che aiuterebbe pure le esportazioni. Sulla politica fiscale, richiama ancora la necessità del coordinamento europeo nella politica economica ma anche del rispetto delle regole di bilancio, quelle regole che sono causa del progredire della crisi. Si esprime a favore di un (ri)lancio di un piano europeo di investimenti pubblici, ma lamenta che il budget europeo irrisorio ed afferma anche che comunque le politiche fiscali non possono transigere dal rispetto del pareggio di bilancio pubblico, per cui meno tasse compensate da meno spese, anche se sa bene che questo ha effetti recessivi. Quale modello Draghi abbia in mente non appare chiaro. Intende realizzare una azione per la crescita modello tedesco, ovvero una ripresa via esportazioni ma con un poco di inflazione, e quindi accompagnata da deflazione salariale, e con il rischio di esporre di più l’Europa alla instabilità economica e geopolitica globale? Oppure mira ad un azione via domanda interna dell’eurozona, tramite investimenti europei e detassazione del lavoro e dell’impresa con riduzione delle inefficienze pubbliche tagliando la spesa, quindi con bilanci pubblici sotto controllo, con effetti però dubbi sulla domanda aggregata dati i moltiplicatori fiscali? La prima rischia anche di avere come ingrediente la deflazione salariale, che mail si concilia con la seconda, che invece riceverebbe uno stimolo dalla inflazione salariale.
Così l’enfasi sulla domanda non oscura affatto quello dominante sull’offerta; anzi sia la modalità di intervento sulla domanda, sia il rimarcare la necessità impellente delle riforme strutturali dimostrano quanto l’azione suggerita da Draghi sia lontana dallo spirito keynesiano che suggerisce stimoli dal lato della domanda pubblica.
“At the same time, such aggregate demand policies will ultimately not be effective without action in parallel on the supply side.
[…]
No amount of fiscal or monetary accommodation, however, can compensate for the necessary structural reforms in the euro area.
[…]
Without higher aggregate demand, we risk higher structural unemployment, and governments that introduce structural reforms could end up running just to stand still. But without determined structural reforms, aggregate demand measures will quickly run out of steam and may ultimately become less effective.” (Draghi, 2014, enfasi aggiunta)
Il paradigma nell’ambito del quale si muove Draghi è quello dell’«offerta che crea la sua propria domanda», ovviamente come sempre rimodernato. Draghi sostiene che le flessibilità di bilancio necessarie sono già comprese nelle regole europee esistenti, non occorre modificarle per estendere lo spazio della politica di domanda. I paesi dell’Eurozona possono usare questi margini di flessibilità delle regole europee solo a condizione che essi abbiano fatto progressi nel processo di consolidamento fiscale, il che equivale a rinnegare l’esigenza stessa di politiche di domanda. È proprio il rispetto di quelle regole, in particolare di quanto stabilito nel Fiscal Compact, ad esacerbare il problema della carenza di domanda. Inoltre, Draghi propone per sostenere la domanda, una politica di riduzione delle tasse coperta con i tagli alla spesa pubblica, considerata inefficace ed inefficiente, ritenendo che ciò sia neutrale sul bilancio pubblico, e favorevole per la domanda[2], una tesi questa non certo molto dissimile da quella dell’«austerità espansiva 2.0» del trio Alesina-Favero-Giavazzi[3], o dalla versione divulgativa dal duo Giavazzi-Tabellini[4]. Draghi non sembra aver imparato la lezione degli effetti sottostimati dal FMI ed il successivo ravvedimento sui moltiplicatori fiscali[5].
Infine, il leit motive di Draghi sulle riforme strutturali è sempre centrato sul mercato del lavoro. Le riforme per realizzare maggiore flessibilità sul mercato abbasserebbero la disoccupazione strutturale, accrescerebbero la crescita potenziale, e quindi lascerebbero spazio a incrementi salariali non inflazionistici ed anche a politiche di domanda. La prima area di intervento raccomandata da Draghi è, non casualmente, la seguente:
“The first is policies that allow workers to redeploy quickly to new job opportunities and hence lower unemployment duration. Such policies include enabling firm-level agreements that allow wages to better reflect local labour market conditions and productivity developments; allowing for greater wage differentiation across workers and between sectors; reductions in employmentadjustment rigidities and especially labour market dualities; and product market reforms which help to speed up the reallocation of resources and employment to more productive sectors.” (Draghi, 2014, enfasi aggiunta)
È evidente come le raccomandazioni del Governatore confermino quanto da lui già sostenuto nel passato[6]: le retribuzioni nominali del lavoro devono riflettere in tutto le condizioni di mercato, al livello più microeconomico possibile, l’impresa. Nessuno spazio è assegnato alla sfera distributiva fuori dal livello aziendale, e di politiche re-distributive non vi è traccia. La contrattazione ha ragion d’essere solo se pone in relazione salari, produttività e le condizioni dei mercati del lavoro locali, con le opportune differenziazioni salariali tra lavoratori e tra settori produttivi. La flessibilità del lavoro, negli ingressi e nelle uscite, assicurano poi quella mobilità dei fattori che le condizioni di domanda e di offerta richiedono.
L’idea che il mercato del lavoro sia una istituzione sociale (Robert Solow, The labor market as a social institution,1990), in cui le prestazioni lavorative non possono essere intese come una qualsiasi merce, al pari delle patate, da scambiarsi in base ad offerta e domanda, ed il cui salario risponde a norme sociali ed è superiore a quello di equilibrio di mercato (George Akerlof, Efficiency Wage Models of the Labor Market, 1986, scritto con Janet Yellen, sua moglie ed attuale Governatore della Fed americana) non è concepibile dal Governatore della nostra banca centrale. Abbiamo citato non a caso due premi Nobel all’economia (nel 1987 il primo e nel 2001 il secondo[7]).
Invero, le politiche suggerite da Draghi hanno la loro efficacia nell’esercitare pressioni verso il basso sui salari e quindi sui prezzi, con effetti negativi certi sui redditi e sulla domanda di beni dei salariati, ed effetti incerti sulla competitività in un mercato globale ove da un lato la competitività è sulla qualità più che sul prezzo, e qualora fosse sul prezzo si potrebbe risolvere in un gioco a somma zero dove ogni paese cerca di “fregare il proprio vicino” perché tutti sono chiamati a fare nella stessa fase le stesse riforme strutturali che portano deflazione salariale. Per non considerare anche che le pressioni sui prezzi verso il basso risulterebbero aggravare il rischio di deflazione già ampiamente presente, spingendo i tassi di interesse verso il basso, ma oltre al limite realizzabile per essere già nella situazione di trappola per la liquidità, indebolendo così ancora più l’efficacia della politica monetaria.
Si potrebbe così concordare con quanto osserva Janssen: “When analysed more closely, ‘Draghinomics’ boils down to continuing fiscal consolidation, dismantling welfare states, and further deregulating wages and worker rights. The combined result will be to push our economies further in the direction of outright deflation and triple dip recession” (Ronald Janssen, “Why Mario Draghi’s Policy Ideas Won’t Work”, Europe Social Journal, 3 settembre 2014). Il comportamento della Bce che non contrasta adeguatamente la deflazione e la depressione non sembra essere attribuibile semplicemente ad errori previsivi, oppure a vincoli statutari posti alla Bce medesima, od ancora al monitoraggio attivo esercitato dalla Germania sull’operato della banca centrale, se non anche a minacce tedesche – di dubbia credibilità – di abbandonare l’Euro. Una ulteriore spiegazione risiede forse nella condivisione di una visione della politica economica e dell’intervento pubblico derivante dagli schemi teorici fondanti il liberismo.
Quindi nulla di nuovo sotto il sole? No, tutt’altro; molto di nuovo. Una ulteriore tappa nella rimessione dei peccati, del “mea culpa” da parte delle istituzioni che sono complici della depressione e che l’hanno governata finanche alimentata. Giungerà questa pratica ad un cambiamento di rotta nelle politiche economiche? Ne dubitiamo, se pensiamo ai primi passi della Commissione Juncker!
Conclusioni
Con la Draghinomics sul lavoro si ritorna quindi all’Ocse che reitera le sue ricette, nonostante la sua analisi possa condurre altrove.
Ci sembra una narrazione già letta e già provata, che non ha generato nulla di buono, su occupazione, disoccupazione, produttività e retribuzioni, ma solo effetti negativi sia sull’equità che sull’efficienza nel mercato del lavoro e nel sistema economico. Non ci aiuta ad invertire la tendenza a zero della produttività, né a sostenere un innalzamento del livello di conoscenza e preparazione delle forze attive di oggi e di domani, né a distribuire la ricchezza in modo da aumentare la domanda, né tantomeno ad aumentare la ricchezza prodotta. Drammaticamente, non fa bene a nessuno!
Perché allora perseverare?, è la domanda che ci poniamo. Chi ci guadagna da questa politica senza principi economici fondanti? Quali sono quegli «interessi costituiti» di cui parlava John Maynard Keynes nella Teoria generale (1936, p.340) che disegnano la politica economica contro la «progressiva estensione delle idee»? Ha forse ragione Krugman quando afferma che «quando i miti economici persistono, di solito la spiegazione risiede nella politica, ed in particolare negli interessi di classe» (Paul Krugman, “Hawks Crying Wolf”, New York Times, 21 agosto 2014).