L’Italia s’è destra: la base sociale del consenso politico in Italia

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Political and social notes

Massimo D’Alema sottolinea spesso che l’Italia è un paese strutturalmente di destra, e in effetti la sinistra non è mai andata al di sopra del 35% dei voti, e spesso, come in questa fase, ne è ben al di sotto. Ma quali ne sono le ragioni? La presenza della Chiesa Cattolica e del Vaticano è una motivazione sovente richiamata. Ma forse tale influenza, certamente ingombrante, è un risultato non la causa, e i motivi sono più strutturali, nella composizione sociale del paese. La base elettorale della DC era assai complessa, in una certa misura interclassista, e basata sulla spaccatura del lavoro dipendente fra tute blu, comuniste, e pubblico impiego, bianco. Il PCI annoverava fra le sue fila anche molti artigiani, che si sentivano allora vicini agli operai, mentre sono ora lontani dalla sinistra. Oggi le cose sono infatti cambiate. Le indagini dei politologi ci spiegano che il lavoro dipendente tende ancora a votare a sinistra, ma non tutto, lo fa soprattutto quello del settore pubblico, che ha perduto molti dei privilegi accordatigli dalla DC, quello più istruito e con reddito medio-alto. I politologi affermano con grande certezza che la base elettorale di Berlusconi consiste principalmente di casalinghe (queste caratterizzate da bassi livelli di istruzione) e di lavoro autonomo, ma oscillanti fra i due schieramenti sono anche il lavoro dipendente esecutivo e meno istruito, e i disoccupati[1]. In un mutamento genetico che è lo specchio del cambiamento dei valori dominanti, i giovani istruiti hanno teso a votare a destra nelle ultime elezioni . Lasciando da parte quest’ultimo gruppo, la questione è che lo zoccolo duro di Berlusconi, casalinghe e lavoro autonomo ha nel paese una ampiezza sconosciuta a nord delle Alpi.

La tabella mostra come sia il tasso di attività che quello di occupazione erano nel 2007 assai più bassi in Italia (62,5% e 58,9%, rispettivamente) che nell’Europa a 15 (71,8% e 66,8%), Spagna inclusa. Se si considera poi la solo componente femminile (50,6% e 46,8% in Italia contro 64,6% e 59,5% nell’UE), si capisce come attraverso Mike Bongiorno Berlusconi possa facilmente plasmare la mentalità di milioni di casalinghe poco istruite. Ma indipendentemente dalla televisione, è la stessa condizione di casalinga con il suo portato di isolamento che non favorisce la consapevolezza dei problemi e la maturazione politica. Per molti versi la medesima cosa si può dire per i maschi disoccupati, inoccupati o occupati in lavori precari. La medesima tabella mostra come rispetto a una media europea del 15,8% di lavoratori autonomi, nel nostro paese la quota sale al 26,4%. Senza volerlo demonizzare, il lavoro autonomo è costituzionalmente portato a un atteggiamento più individualista e meno solidale, ciò che si manifesta palesemente con l’elevata evasione fiscale fra esso annidata, tranne usufruire in maniera opportunistica dei servizi pubblici. In sintesi, in Italia lavorano in pochi, e la quota di quelli che lavorano consiste in maniera anomala di lavoratori autonomi. Una radice della debolezza della sinistra è certamente in questo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se questa è la fotografia, quali strategie si prefigurano per la sinistra, quali alleanze? Il tema delle coalizioni è tradizionale nella sinistra, da Gramsci all’esperienza socialdemocratica svedese basata sul sodalizio del partito operaio con quello dei contadini. In un articolo, già opportunamente discusso su E&P da Nicolò Bellanca, Cristiano Antonelli[2] ripercorre le politiche delle alleanze proposte o attuate dalla sinistra nel passato, e propone per il futuro che le nuove professionalità relative alla cosiddetta società dell’informazione diventino nuovo punto di riferimento (p.23), non attardandosi a difendere, da un lato le produzioni “fordiste” (p.14), e dall’altro le rendite che si annidano nel pubblico impiego (p.20). Le nuove professioni sembrano invero una base sociale un po’ ristretta per l’ambiziosa sinistra di orientamento “liberalsocialista” basata su una “coalizione per la crescita” propugnata da Antonelli; così come la sua apologia del passaggio a una società dei servizi – che in Italia sembra fatta di call center più che di terziario avanzato – in luogo della tradizionale manifattura (pp.13-17) appare contraddittoria con l’esaltazione della capacità di esportazione della piccola-media industria manifatturiera italiana, seconda in Europa, ci ricorda l’autore, solo a quella tedesca (p.18)[3]. Tuttavia, il richiamo di Antonelli alla necessità di pensare a coalizioni progressiste è importante, pur nella poco incoraggiante struttura socio-produttiva italiana sintetizzata nella prima parte di questo articolo. D’altronde un proposta politica di sinistra che sia concreta (ammesso che la sinistra sia interessata a questo, cosa che v’è da dubitare), deve puntare a difendere degli interessi e non altri. In questo senso si tratta di capire meglio la struttura del lavoro autonomo, distinguendo fra parassitismo (i topi nel formaggio di Sylos) e professionalità rilevanti per la competitività del paese; comprendendo come si possa recuperare il consenso nel mondo dell’artigianato e della piccola impresa, e così via. Il grande timore di questo mondo è riassumibile in una sola parola: tasse. Si può dire qualcosa di sinistra che consenta tuttavia un recupero di consenso in questa direzione? E alla casalinga di Voghera la sinistra può dire qualcosa di interessante (e farsi capire)? E come venire incontro alle paure del lavoratori indipendenti che sfuggono all’egemonia della sinistra – per esempio nei riguardi dell’immigrazione in maniera equilibrata? l dibattito è aperto: politologi e studiosi del sistema fiscale si facciano avanti[4].

 

[1] Senza pretese di sistematicità, queste tendenze si ritrovano per esempio in una indagine Ipsos-Explorer (http://www.frdb.org/) relativa alle elezioni 2001, dai sondaggi pre-elettorali Ispos citati su Il Sole 24 Ore (9-3-2008) da Roberto D’Alimonte e da Davide Colombo, da Itanes, Il ritorno di Berlusconi, Il Mulino, 2008, cap. 6). Deve risultare chiaro che di tendenze si tratta, vista la molteplicità dei messaggi a cui gli elettori sono sottoposti, e alla poca nitidezza della proposta politica da parte degli opposti schieramenti. Una volta che però si tenga conto di tali elementi, poca e cattiva informazione a fronte di livelli medi di istruzione assai bassi nel paese, a fronte di proposte populiste a destra e rigoriste a sinistra, la influenza della condizione sociale sul voto può risultare rafforzata, non diminuita, sebbene in direzioni “non normali“. Non sorprende cioè che, per dirne una, lavoratori a basso reddito per non dire i disoccupati, tendano a votare per proposte populiste.
[2] Nicolò Bellanca, La politica delle coalizioni per la sinistra italiana, E&P; Cristiano Antonelli, La politica economica delle coalizioni per progettare il futuro e guidare la crescita.
[3] In difesa dell’industria manifatturiera v. Romano Prodi, Chi ha l’industria riparte meglio, Il Sole 24 Ore, 13-3-09.
[4] Bellanca sembra scettico sulla possibilità di coalizioni progressiste, ritenendo praticabile in Italia solo una strategia del conflitto. Speriamo che l’autore voglia specificare meglio in un successivo articolo con quali obiettivi e forze.

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