L’aumento della disoccupazione giovanile, secondo la visione dominante, è da imputarsi al mancato incontro fra la domanda di lavoro espressa dalle imprese e l’offerta di lavoro proveniente dai lavoratori. Questi ultimi – si sostiene – ricevono da scuola e Università una formazione generalista, eccessivamente calibrata sull’acquisizione di conoscenze e poco attenta alla trasmissione di competenze. Le competenze – il saper fare – sono (o sarebbero) quelle di cui le imprese, in un’ottica di breve periodo, hanno bisogno. La linea di politica economica che ne discende fa riferimento alla necessità di riformare i sistemi formativi per renderli funzionali alla produzione di forza-lavoro ‘occupabile’.
Il fatto che alcune imprese, in alcuni particolari segmenti del mercato del lavoro, trovino (o denuncino) difficoltà nel reperire manodopera con il livello e la qualità della formazione richiesta non implica che l’intera disoccupazione giovanile in Italia (superiore al 60% in alcune regioni del Sud) dipenda dal mismatch fra competenze offerte e competenze richieste. Per smentire questa tesi, può essere sufficiente considerare che oltre il 40% delle imprese italiane dichiara di non occupare – o non intendere assumere – laureati, a fronte del 18% della Spagna e del 20% della Germania.
La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007-2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e anche sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.
La teoria del mismatch fa propria una visione della formazione economicistica, funzionalista e di breve periodo: il sistema formativo – stando a questa visione – deve essere sottostare a vincoli propriamente economici. O vincoli relativi al bilancio pubblico, nel qual caso è chiamato a fare a meno di risorse per contribuire a generare risparmi dello Stato (come è accaduto con la straordinaria contrazione dei finanziamenti alle Università nell’ultimo decennio) o vincoli posti nel mercato del lavoro, nel qual caso è chiamato a ‘produrre’ laureati occupabili.
Si badi che non è, questa, la sola visione possibile del ruolo dei sistemi formativi. Questa visione origina – o comunque si rafforza – a seguito dell’ingresso nelle aule universitarie italiane della cosiddetta teoria del capitale umano e, più in generale, di una visione della formazione orientata al mercato. Siamo negli anni novanta e questa teoria prova – riuscendoci – ad accreditare l’idea che l’accumulazione individuale e collettiva di istruzione è un fattore rilevante di crescita economica. Di per sé, si tratta di una tesi difficilmente discutibile. Lo diventa, tuttavia, quando viene declinata in termini di politiche formative, ovvero quando viene declinata in termini normativi: l’istruzione deve contribuire alla crescita economica. E lo diventa anche quando assume che l’istruzione sia unicamente un investimento, che gli individui effettuano in vista di benefici futuri in termini di reddito e posizionamento nel mercato del lavoro.
Una visione alternativa ovviamente esiste. Un’istruzione diffusa è desiderabile in quanto tale e non occorrerebbe trovare motivazioni per finanziarla. In più, un’istruzione diffusa è comunque desiderabile anche per gli effetti indiretti e di segno positivo che essa produce sullo sviluppo economico, in termini di maggiore propensione al rispetto delle norme e minore propensione a delinquere.
La ritirata dello Stato dal settore della formazione è una delle maggiori cause della lunga recessione italiana, dal momento che – proprio a ragione di questo e data l’incapacità o l’impossibilità della gran parte delle nostre imprese di produrre innovazioni – il tasso di crescita della produttività del lavoro (che dipende essenzialmente dalla dinamica degli investimenti) è in caduta libera da oltre vent’anni.
L’economia italiana, per contro, avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata dalla domanda interna e da innovazioni. Si tratterebbe di una misura fattibile ed efficace per l’obiettivo di rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione giovanile, per le seguenti ragioni:
- La spesa per ricerca e sviluppo in Italia, su fonte OCSE, è ferma da oltre un decennio all’1% in rapporto al Pil, a fronte di una media nei Paesi industrializzati superiore al 2% (e del 4% circa della Germania). In più, come certificato dall’OCSE, essa è inferiore alla spesa che lo Stato italiano sostiene per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. La spesa privata per ricerca è prossima allo zero. Le poche innovazioni che le poche imprese private fanno sono per lo più innovazioni incrementali e la gran parte delle innovazioni di cui fanno uso derivano da importazioni di beni capitale ad alta intensità tecnologica.
- Si stima che i giovani laureati disoccupati o sottoccupati residenti in Italia sono circa 1 milione. Si tratta di individui le cui conoscenze sono non utilizzate o sottoutilizzate (si pensi ai casi sempre più frequenti di laureati camerieri) e potenzialmente occupabili in centri di ricerca pubblici. L’assunzione di giovani qualificati nel settore pubblico avrebbe effetti positivi nel breve periodo di espansione della domanda interna e di lungo periodo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. In più, l’aumento degli occupati con elevata qualifica avrebbe ragionevolmente effetti sull’aumento dell’occupazione di lavoratori non qualificati, come risultato dell’aumento della domanda interna conseguente a un aumento dei consumi.
- Il settore pubblico italiano è notevolmente sottodimensionato e, per numero di dipendenti, più piccolo della media europea, a causa di lunghi periodi di blocco delle assunzioni; blocco motivato con l’idea (non saggia, almeno in una prospettiva di lungo periodo) di generare risparmi pubblici tagliando stanziamenti per il settore della ricerca scientifica. Non è una buona idea: è agevole intuire che le inefficienze della pubblica amministrazione italiana derivano anche dalla carenza di personale, peraltro con età media sempre più alta e più alta della media europea.
Si tratta di uno scenario che si pone in radicale controtendenza rispetto a quanto fatto dai Governi italiani degli ultimi decenni, incluso l’attuale, non solo perché gli investimenti pubblici (particolarmente nel settore della ricerca) sono stati irrisori e in notevole riduzione nell’ultimo decennio, ma anche perché – anche quando un aumento degli investimenti è stato previsto nelle Leggi di bilancio – a consuntivo il loro importo si è rivelato di gran lunga inferiore rispetto a quanto stimato.