1.Quando un partito di centrosinistra, come il Pd, esce da sette anni di larghe intese nel nome delle riforme e dell’austerità, forse ci si sarebbe aspettato un messaggio di speranza che parlasse di lavoro e di protezione sociale (entrambi in crisi già da diversi anni) che da parte di una socialdemocrazia europea sarebbe quantomeno augurabile. Ebbene, a questi livelli di disoccupazione, con i molteplici fallimenti delle imprese e una disuguaglianza distributiva sempre più accentuata, a chi si è rivolto il Pd quando ha parlato di aver fatto “cose buone” citando un Pil in crescita e un rapporto debito/Pil leggermente in discesa? A nessuno. Perché perdere le elezioni il 4 marzo, dopo aver fatto a suo dire “cose buone”, è un’aggravante e non una scusante, perché significa che si è perso sul campo più importante, cioè quello della rappresentanza politica.
Dall’inizio dell’esperienza repubblicana tutte le forze politiche, sia di destra che di sinistra, si sono contese l’egemonia della sovrastruttura statale mediando gli interessi economici di quella parte della popolazione che nella composizione sociale, se letta en marxiste, si pone tra la borghesia e il proletariato e che costituisce il cosiddetto ceto medio: impiegati privati e pubblici, liberi professionisti, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, artigiani e commercianti. Per lungo tempo visto a sinistra come l’arma, niente affatto scarica, che la borghesia puntava contro il proletariato per tenere in mano l’equilibrio della distribuzione del reddito in una economia capitalistica, il ceto medio ha approssimato il suo credo politico agli ideali della classe sociale che mostrava di essere la migliore rappresentante dei suoi interessi, condividendo quindi per lungo tempo con la borghesia le aspettative di benessere economico e la coscienza d’elevazione sociale e culturale, sia pure subendo, come il proletariato, lo stato di sottomissione agli stessi rapporti di lavoro coercitivi validi in un mercato concorrenziale.
Costituitosi nel Novecento a seguito dell’affermarsi del regime di produzione fordista e dell’intervento dello Stato nell’economia, questo ceto medio ha preso ad espandersi socialmente, assorbendo nel corso del secolo gran parte dell’occupazione espulsa dalle campagne (in Italia soprattutto nel secondo dopoguerra) ed ingigantito dal processo di “burocratizzazione” della società (che ha provocato una crescita della domanda di servizi) fino a diventare la maggioranza della popolazione (esemplari sono stati gli studi di Paolo Sylos Labini che ne hanno documentato statisticamente la “presa di potere”).
2. Le vicende politiche che si sono succedute dal secondo dopoguerra ad oggi in Italia sono il fedele ritratto di una società caratterizzata da una forte e rapida mobilità sociale trainata dallo sviluppo capitalistico: sul principio il Psi e il Pci, i due partiti di “parte operaia” coalizzati nel Fronte popolare, hanno spinto la borghesia a convergere a sua volta, accantonando il secolare conflitto tra percettori di rendita agricola e di profitto industriale, sul simbolo unico della Democrazia cristiana. Ma poi la Dc è riuscita a cooptare al governo il Psi sulla base delle politiche riformistiche del centrosinistra, provocando la frattura nel fronte opposto di classe ed isolando il Pci che, per evitare l’insignificanza politica, ha dovuto concedere, a sua volta, un compromesso storico alla Dc. Fallito però quest’ultimo tentativo di rivalsa, a seguito del crollo del muro di Berlino nel 1989 con la relativa perdita del referente internazionale sovietico il Pci si è affrettato ad abbandonare sia il nome che il simbolo, trasformandosi dapprima in Pds e poi in Ds pur di recidere, quanto più possibile, il cordone ombelicale con la sua origine rivoluzionaria comunista (a Livorno nel 1921).
A seguito poi dello scandalo di Mani pulite del 1992, anche le correnti più sociali della Dc, scomparsa per infamia la loro “gran mamma”, sono confluite avventurosamente con i Ds in quel progetto dell’Ulivo che è stato l’occasione per la “mutazione genetica” dei Ds nel Pd, mentre a loro volta i cascami destrorsi della Democrazia cristiana si sono dati quell’ultima rappresentanza partitica della borghesia che è stata Forza Italia, poi Popolo delle libertà e adesso di nuovo Forza Italia.
Tuttavia una simile narrazione a “partiti di classe bipolari” non sarebbe esaustiva non tenendo conto che sulla scena politica, dal secondo dopoguerra in poi, si è agitato pure l’elettorato trasversale di quel ceto medio. sempre più plastico oltre che più numeroso, su cui si sono puntati gli occhi sia del partito “borghese” (prima la Dc e poi Fi) che del partito “operaio” (prima il Pci e poi Pds-Ds-Pd). Ora non c’è dubbio che il ceto medio sia una parte sociale politicamente instabile perché incapace di esprimersi in una forma propria di partito e quando ha provato a farsi valere, appoggiandosi alla borghesia agraria negli anni ‘20 del secolo scorso, ha prodotto la mostruosità del fascismo; così ben si capisce la cura straordinaria dei partiti politici “usciti dalla Resistenza” per catturarsene il consenso, “educandolo” alla democrazia col venire incontro alle sue esigenze particolari sia di benessere che di sicurezza. Inizialmente la conquista è riuscita a “mamma Dc”, ma in seguito, con un paziente lavoro di egemonia culturale, anche al Pci che ha promosso quel ceto medio, strappato alla subalternità al partito avversario, alla denominazione elogiativa di “ceto medio riflessivo”.
3.Tutto questo è però cambiato con l’ultimo accentuarsi della complessità della società capitalistica odierna per ragioni che vanno dai cambiamenti demografici (come l’immigrazione e l’invecchiamento della popolazione) ai mutamenti tecnologici (come globalizzazione e informatizzazione) che hanno portato al superamento della “forma” della produzione fordista (ma non alla sua “sostanza” capitalistica). Da questa trasformazione è allora emerso, come illustrato nella definizione dei gruppi sociali del Rapporto Istat 2017, un ceto medio, pur sempre tutt’altro che omogeneo e definibile, ancor più frammentato al suo interno, ma soprattutto attraversato dalla paura di molte sue componenti di precipitare verso gli strati più bassi della società. Non sentendosi più tutelato né dalla sicurezza del reddito, né dalla garanzia del titolo di studio né dallo status socio-economico guadagnato, esso ha avvertito di essere sempre più ostacolato nella sua sopravvivenza sociale dall’eccesso della fiscalità, sia generale che locale, dalle scarse opportunità d’investimento e d’occupazione, nonché dall’imporsi sul mercato del lavoro di soluzioni contrattuali di “flessibilità” che costringono molti lavoratori autonomi, seppur scolarizzati, ad una condizione di precariato che minaccia di essere addirittura permanente (si dice che “l’ascensore sociale si è rotto”).
Il risultato delle elezioni del 4 marzo è stata la conseguenza di questa insicurezza diffusa che ha portato alla luce una realtà politica assolutamente inedita che potrebbe anche leggersi come la insubordinazione di un ceto medio, deluso dalle forze partitiche da cui si era fatto rappresentare in precedenza, che si è sottratto alla doppia sudditanza a Fi (il partito della “borghesia”) e al Pd (il partito del “proletariato”) per riversare i suoi voti sulla Lega (non più Padana) e sui Cinque Stelle (non più Movimento), da utilizzare come “veicoli politici” allo scopo di esprimere, senza più mediazioni, il proprio “interesse di classe”. E valgano i dati assoluti: rispetto a quelle del 2013, alle ultime elezioni il Pd ha perso più di 2,6 milioni di voti, Fi ne ha ceduti quasi 2,8 milioni, M5S ne ha guadagnati più di 1,8 milioni e la Lega oltre 4 milioni (cfr. Istituto Cattaneo, Elezioni politiche 2018. Chi ha vinto, chi ha perso, in rete).
Si dice che sia il Partito democratico che Forza Italia hanno perso i loro “popoli” per colpa di quella malattia perniciosa per la democrazia che sarebbe il populismo. Ma, di grazia, che razza di “popolo” è quello che si è perso? Alberto Asor Rosa, che di “sinistra e popolo” se n’è sempre inteso, ha suggerito (su “La Repubblica”, 6.4.2018) di parlare piuttosto di “masse”, analogizzando con quella Ribellione delle masse descritta negli anni trenta del secolo scorso da Josè Ortega y Gasset. Però non pare che a sostituire “popolo” con “masse”, che sono entrambe categorie sociologiche a valenza generica e indeterminata, si vada molto più avanti nella comprensione della deriva elettorale in corso. Perché non ricorrere allora alla vecchia nomenclatura delle classi e dei ceti sociali, così da riconoscere nel risultato del 4 marzo una sorta di vendetta personale di un ceto medio che, messo alle strette da una recessione pesante e prolungata (analoga, questa volta sì, a quella degli anni ’30), si è preso nei confronti di una “sinistra” e di una “destra” che non l’hanno tutelato dalle conseguenze nefaste della crisi, prima dei mutui subprime e poi del “debito sovrano”?
Sono stati soprattutto i governi “tecnici” e di “larghe intese”, che si sono succeduti dal 2011 in avanti, ad aver cavalcato quelle politiche di “austerità espansiva” (che comunque espansiva non s’è affatto mostrata) che sono state adottate su istigazione europea: costretti dal cappio micidiale del fiscal compact, hanno varato la Legge Fornero per ridimensionare il debito pensionistico e poi il Jobs Act che ha peggiorato il mercato del lavoro e infine la Buona Scuola che ha sconvolto il mondo dell’insegnamento nell’illusione che una maggiore mobilità occupazionale avrebbe incoraggiato il flusso degli investimenti esteri in Italia. Il peso di tutte queste manovre si è scaricato sui pensionati, sugli impiegati, sugli insegnanti, ossia su quelle componenti del ceto medio più esposte (ma non disposte) a perdere il proprio potere negoziale in un mercato sempre più concorrenziale, anche internazionalmente. E se non è andata meglio alla classe operaia, in questo caso essa, sebbene delusa dalle politiche governative “venute da Bruxelles”, è però rimasta abbarbicata alle proprie rappresentanze sindacali tradizionali quale sua ultima e necessaria “zattera di salvataggio”.
4. Alla base di questa rivolta elettorale dei ceti medi c’è un paese la cui governabilità ed autonomia decisionale sono state sempre più messe in discussione sia dalla Commissione europea che dall’euro come moneta, e pertanto il ceto medio reagisce nelle due forme (siamo sicuri che siano antitetiche?) del sovranismo leghista e della anti-politica pentastellata.
A destra, infatti, cosa è successo? Che a tutelare l’interesse di coloro che un tempo si erano sentiti rappresentati da una destra liberale di estrazione borghese, adesso si è sostituita una forza nazional-popolare autarchica, sostenuta da un sentimento di anti-statalismo reazionario che rivendica la parola d’ordine di “Primagliitaliani” per favorire il rilancio di quella imprenditorialità medio-piccola del Nord che subisce troppa pressione fiscale (da cui l’invocazione ad una flat tax, o almeno ad una decisa riduzione delle tasse), mentre lotta per difendersi dalla concorrenza estera con velleità protezionistiche perfettamente in linea, tra l’altro, con le politiche trumpiste. A questa imprenditoria in sofferenza si somma poi quel “precariato operaio” che non è in grado di competere con la manodopera a basso costo generata dai flussi migratori, oppure che rischia il licenziamento per eccesso di fiscalità sulle imprese, venendo così a convergere, da sinistra, sul programma politico leghista.
E a sinistra? E’ tutta di sinistra quella parte del ceto medio che vota Cinque Stelle? Non necessariamente. Ciò su cui i pentastellati sono intervenuti “nel sociale” è stata la realtà di un livellamento verso il basso prodotto dalle riforme inutilmente “necessarie”, se non per l’Europa. Essi hanno saputo cogliere le difficoltà di quei settori del ceto medio che, soprattutto al Sud, hanno sempre vissuto delle elargizioni monetarie pubbliche, come i pensionati, i dipendenti statali, i disoccupati, i cassaintegrati e quant’altro. Ed è proprio da questi strati sociali che il M5S ha potuto sottrarre buona fetta di elettorato al Pd rivendicando un reddito di cittadinanza che poi non sarebbe altro che l’estensione (questa sì necessaria) del troppo scarso “reddito d’inclusione” governativo, anche violando gli accordi europei che impongono un assurdo vincolo di pareggio al bilancio pubblico.
E siamo così al post-voto. Come il proletariato ebbe la forza, alla fine dell’Ottocento, di prendere coscienza di sé e darsi una forma partitica propria (quel Partito socialista che fu capace di collegare con intelligenza gli interessi dei salariati dell’industria con quelli dei braccianti delle campagne), così dalle elezioni del 4 marzo potrebbe essere nata la coscienza di “classe per sé” di un ceto medio proiettato addirittura verso una convergenza, sia pure ambigua e contraddittoria, tra le sue due “anime” di Lega e M5S pur di perseguire i propri scopi senza più la tutela dei partiti delle altre parti sociali, sia “borghese” che “proletaria”. Se così sarà, sarebbe veramente un inedito nella storia da osservarsi con attenzione sia per la consistenza programmatica che, soprattutto, per la durata temporale.