Per dare una valutazione della politica tenuta dalla Federal Reserve dopo la crisi occorre innanzitutto comprendere che i funzionari della Fed hanno dovuto affrontare dei problemi che non credevano si potessero verificare[1].
Gli eventi del 2007-2008 assestano un colpo violento al modello teorico in cui essi riponevano la loro fede, e questo è anche il motivo per cui niente era stato fatto per disinnescare la situazione che si andava creando, e gli interventi successivi si sono rivelati in larga misura inefficaci. Se non adotteranno un paradigma diverso, non esistono ragioni per credere che la crisi sia servita da lezione. Pertanto il ripetersi di avvenimenti analoghi resta una possibilità concreta.
Come è noto, la politica della Banca Centrale è costruita sulla teoria neoclassica. Questa teoria sostiene che i sistemi economici sono in grado in buona parte di badare a loro stessi e tendono automaticamente verso la piena occupazione. Anche quegli economisti neoclassici che sono relativamente interventisti, come Christina Romer (che presiede il Council of Economic Advisors del presidente Barak Obama), ritengono che questo felice equilibrio possa non essere raggiunto solo a causa di shock esogeni o di politiche sbagliate (Romer 2008). La loro concezione del mercato finanziario è la seguente: esso è popolato da agenti razionali volti a massimizzare la propria utilità, il cui interesse principale consiste nella prevedere con precisione i prezzi delle attività basandosi sulle determinanti fondamentali del loro valore. Il mercato sarà in grado di disciplinare sia la speculazione selvaggia che i rapporti contrattuali caratterizzati dall’assenza di informazioni. Oltre a ciò, si presume che la concorrenza sia sufficiente a controllare il comportamento di chi emette le attività finanziarie e delle altre istituzioni presenti sul mercato finanziario. Le imprese che ingannano il pubblico o che rifiutano di rendere trasparente la composizione del loro portafoglio si troveranno presto senza clienti. In un mondo siffatto, non possono esistere bolle e, fintanto che manteniamo le nostre interferenze al minimo, il sistema economico dovrebbe tendere verso la piena occupazione e l’allocazione ottimale delle risorse.
In questo contesto, il compito di chi lavora alla Federal Reserve non poteva che essere concepito come un qualcosa di abbastanza minimale. In primo luogo e soprattutto, occorreva stare a guardia dell’inflazione e dell’eccesso di investimenti e, per raggiungere questo obiettivo, si è ipotizzato che i tassi di interesse fossero strumenti sufficientemente potenti. In secondo luogo, sempre grazie alle manovre sul tasso di interesse, la Fed garantiva che le economie in via di sviluppo avrebbero trovato un nuovo vigore. Infine, per ciò che concerne le responsabilità regolatorie tipiche dei cani da guardia, la fede nella ipotesi dei mercati efficienti ha portato non solo al laissez faire sancito dalle norme che sono ancora in vigore, ma anche a sostenere un’ulteriore liberalizzazione (in particolare l’abrogazione del Glass-Steagall Act). I banchieri centrali hanno riposto una grande fiducia in queste regole operative e hanno creduto di riscontrare una prova della validità del loro approccio nella storia (in particolare nella drastica riduzione dell’inflazione nella seconda metà degli anni ’80 e nella crescita senza inflazione degli anni ‘90).
Non sorprende allora che gli eventi del 2007-2008 furono uno shock terribile. La reazione dell’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, è significativa:
“Cosa è andato storto? Perché in pratica tutti gli economisti e i politici di rango sono stati ciechi di fronte al disastro che sopraggiungeva? Come hanno fatto così tanti esperti, me compreso, a non vedere ciò che si avvicinava?” (Greenspan 2013).
Non era solo evidente che il mercato aveva selvaggiamente sopravvalutato molti asset, ma sembrava molto probabile che alcune istituzioni finanziarie fossero impegnate in vere e proprie frodi. Niente di tutto questo si adattava ai preconcetti della Fed e, di conseguenza, gli strumenti tradizionali di politica monetaria restavano impotenti dinanzi al carattere e alla grandezza del crollo. Tuttavia, la gravità della situazione richiedeva un’azione. Sono state allora emanate una serie di politiche di emergenza. Nel 2008, per esempio, sono stati fatti degli sforzi per stabilizzare le istituzioni finanziarie attraverso gli acquisti dei loro asset “in difficoltà” (de Costa 2014). Contemporaneamente, nel tentativo di stimolare la spesa del settore privato, sono stati abbassati i tassi di interesse. A causa delle condizioni economiche tipiche di una depressione, i tassi di interesse sono stati spinti quasi a zero, dopo che il primo round di Quantitative Easing (QE) era stato avviato (novembre 2008). Quest’ultimo è stato progettato per aumentare direttamente la quantità di denaro nel sistema bancario scambiando asset finanziari con moneta sonante. Altre due misure – QE2 e QE3 – sono poi state attivate nel giugno 2010 e nel settembre 2012. Inoltre, in una condizione inusuale che rende difficile individuare i tassi di interesse obiettivo, la Fed ha iniziato a pagare gli interessi sulle riserve in eccesso detenute presso la banca centrale.
Nel loro insieme, tutte queste politiche avevano lo scopo di ridurre il costo del denaro, aumentando al contempo il volume dei fondi disponibili e rafforzare le banche e le altre istituzioni finanziarie. Questo, si riteneva, avrebbe creato gli incentivi necessari per stimolare gli investimenti e le altre forme di spesa, stimolando così la ripresa. Tuttavia così non è stato, a meno di considerare come un successo, il lento, irregolare ritorno al livello di disoccupazione vigente nell’ottobre 2008. La spesa per gli investimenti reali deve ancora tornare ai massimi pre-crisi e la fiducia dei consumatori continua ad essere in ritardo. La tensione riguarda tutti i partecipanti al mercato e a tutti i livelli. Ogni nuovo dato che viene comunicato è guardato con ansia. Le ragioni di una risposta tanto debole sono molte e varie, ma sono definitivamente radicate nel fatto che anche le misure di emergenza più pragmatiche messe in atto dai funzionari della Fed si sono basate sulla stessa discutibile concezione del sistema finanziario che aveva caratterizzato la loro politica prima della crisi. In particolare, è degno di nota il fatto che l’accento viene posto sui prezzi, piuttosto che sulle variabili del reddito. Questa è una pratica normale nell’approccio neoclassico e si estende in generale all’analisi condotta dalla Fed. Deriva dalla convinzione che la scienza economica riguarda la scarsità e i trade off e che i volumi della produzione e dell’occupazione non costituiscono dei focus importanti. Naturalmente, la ragione di fondo è che la piena occupazione è un assunto. Se così non fosse, non esisterebbero trade off poiché si potrebbe sempre produrre di più, semplicemente attivando risorse precedentemente disoccupate. Come sosteneva Keynes, questa teoria si applica solo a un caso particolare, cioè quello in cui è già stata raggiunta la piena occupazione.
Non c’è da stupirsi che le politiche derivate da un modello che trascura la disoccupazione fossero inadeguate di fronte alla peggiore crisi economica che si è avuta dai tempi della Grande Depressione. Una risposta basata sull’idea che se il costo dell’indebitamento potesse essere spinto abbastanza in basso, allora emergerebbe una domanda latente sufficiente, era destinata al fallimento. La verità è che la domanda non c’era perché i redditi e le vendite erano crollati. Per essere onesti, la Federal Reserve non ha potuto impegnarsi in ciò che era realmente necessario, vale a dire la politica fiscale. Tuttavia, anche tralasciando questo punto, è evidente che ci si aspettava molto di più dalla politica monetaria: basta considerare gli allarmi lanciati sul fatto che le banche non stavano ancora facendo prestiti, anche dopo che queste politiche erano in vigore.
Tuttavia, questo non sarebbe mai accaduto attraverso i cambiamenti dei prezzi. Questo perché, come scrive Jan Kregel,
“Solo quando le banche hanno redditi sufficienti, esse saranno in grado di ripristinare il loro capitale e ritornare a concedere prestiti. Solo quando le famiglie hanno un reddito sufficiente per pagare i loro debiti, esse saranno in grado di tornare a spendere. Fino ad ora è stata la Fed che è stata disposta ad operare sullo stato patrimoniale delle banche, ma solo scambiando un asset con un altro, non aumentando i guadagni delle banche … Il modo migliore è quello di aumentare il reddito a sufficienza in modo che le famiglie possano coprire il servizio del debito sui prestiti superiori al proprio reddito e le imprese abbiano un reddito sufficiente per soddisfare il proprio indebitamento” (enfasi aggiunta; Kregel 2009, p.662).
Le prospettive di austerità fiscale gettano ancora più dubbi sul futuro degli Stati Uniti.
Così, nonostante tutta la pubblicità che circonda le politiche dei tassi di interesse a zero, il Quantitative Easing, il Troubled Asset Relief Program, ecc. , non molto è stato fatto dalla politica monetaria post crisi negli Stati Uniti. Peggio ancora, la Fed ha comunicato che tornerà alla normalità una volta che il peggio è passato. Né vi è stato alcuno sforzo per regolamentare di nuovo i settori responsabili del collasso. È come se non si fossero tratti insegnamenti dalla crisi. Albert Einstein una volta disse: “Se è possibile osservare una cosa o no, dipende dalla teoria che si utilizza” (Salam 1990, p.99). Questo sembra tanto più evidente nel caso della politica monetaria statunitense successiva alla crisi.
*Professor of Economics, Texas Christian University