Ha destato e desta molte perplessità l’atteggiamento governativo (e del ministro Tremonti in particolare) a proposito della Finanziaria 2009, che il Parlamento ha definitivamente varato lo scorso 19 dicembre. Molti commentatori hanno rimproverato all’esecutivo di aver sottovalutato le conseguenze della recessione in atto e molti altri hanno rimproverato al ministro dell’Economia di aver tenuto un approccio “creativo” ai conti pubblici quando non ce n’era (a loro avviso) bisogno e di perseverare, per contro, in un atteggiamento “draconiano” in un momento gravissimo come quello attuale, in cui tanti economisti ed editorialisti si stanno reinventando dispensatori di ricette pseudo-keynesiane.
Crediamo che si tratti di considerazioni errate. Non soltanto perché imputano a Tremonti una sottovalutazione della crisi, quando invece egli è stato tra i pochi a rappresentarsela come evento possibile e anzi imminente, ma soprattutto perché non colgono le reali ragioni dell’insistenza tremontiana sulla necessità di non deflettere dalla linea di rigore sui conti pubblici.
Spiegarlo non è semplice e implica la necessità di risalire un po’ indietro nelle vicende economiche e politiche del nostro Paese. Siamo tuttavia convinti che solo un approccio del genere possa dar conto delle difficoltà e dei rischi della fase di politica economica che stiamo vivendo.
Cominciamo da una considerazione preliminare. È difficilmente contestabile che il nostro sistema industriale stia vivendo da almeno un decennio una marcata marginalizzazione all’interno del quadro europeo e mondiale. Si tratta di una conseguenza dell’arretratezza del modello di specializzazione italiano rispetto ai paesi dov’è localizzato il “cuore oligopolistico” dell’industria manifatturiera europea: la nostra struttura produttiva, infatti, consta per il 95% di imprese con meno di dieci addetti, dove trova impiego il 47% della forza-lavoro occupata (contro il 21% della Germania, il 22% della Francia e il 27% della Gran Bretagna). E lungi dall’essere la “forza economica del Paese”, le piccole e medie imprese italiane condizionano negativamente la capacità del nostro sistema produttivo di evolversi verso una struttura adeguata a cogliere la trasformazione tecnologica in atto: incapaci di avvalersi dei benefici delle economie di scala, con tassi d’utilizzo degli impianti più contenuti rispetto alla media europea e con sistemi arcaici di comando, esse non riescono ad esprimere un volume di investimento in ricerca e sviluppo adeguato a permettere la transizione tecnologica necessaria a invertire la rotta del declino economico e industriale in atto, che si manifesta nel sistematico peggioramento dei nostri conti esteri.
Il problema è stato aggravato dall’inadeguatezza delle risposte che nel tempo gli si sono offerte. Durante gli anni ’80 e fino alla prima metà degli anni ’90, sono state le ripetute svalutazioni della lira a consentire periodicamente alle nostre imprese di azzerare (o quasi) lo svantaggio competitivo accumulato con l’estero. E dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, quando l’ingresso del nostro Paese prima nella banda ristretta e poi nella moneta unica ha reso impossibile la svalutazione, l’unico rimedio che si è sperimentato è stata la precarizzazione del lavoro, in modo da far loro recuperare sul versante del suo costo d’uso i margini di profitto erosi dalla minore competitività dei loro prodotti
Il risultato di queste politiche è oggi sotto i nostri occhi: ci ritroviamo con salari tra i più bassi d’Europa e con un numero di vittime in rapporto al Pil tra i più alti del continente. E nonostante l’elevatissimo prezzo pagato dalla classe lavoratrice, continuiamo comunque a registrare la perdita sistematica di quote di mercato e l’aggravarsi del nostro deficit con l’estero.
Si deve peraltro precisare che l’orientamento di fondo delle politiche industriali e del lavoro ha subito delle differenziazioni in relazione ai governi di volta in volta in carica. Mentre infatti gli esecutivi di centrodestra, in virtù del consolidato legame con la piccola imprenditoria del Nord, hanno agito in modo che alla compressione dei salari e delle tutele si affiancasse una relativa elasticità sul versante della gestione del disavanzo pubblico, in modo da lasciar circolare moneta nel tessuto produttivo interno e garantire liquidità e accesso al credito alle piccole imprese, i governi di centrosinistra – i cui referenti principali sono stati invece i grandi gruppi industriali e bancari – hanno optato nettamente per l’abbattimento del disavanzo statale: non certo perché il nostro debito fosse in sé “insostenibile” (rimandiamo sul punto alle inoppugnabili ragioni dell’appello degli economisti), quanto piuttosto per affamare il settore pubblico e comprimere la spesa interna, in modo da innescare da un lato crescenti “lenzuolate” di privatizzazioni e dall’altro la scomparsa delle imprese marginali o la loro acquisizione da parte dei gruppi più forti.
Nessuna delle due varianti di politica economica è tuttavia riuscita a risolvere la tendenza del nostro Paese ad accumulare disavanzi esteri. Ed è proprio in quest’ottica che, a nostro avviso, bisogna valutare la scelta di “rigore” sottesa all’attuale Finanziaria.
Secondo la testimonianza di autorevoli esponenti del governo, c’è un rapporto che nella sede del Ministero dell’Economia è oggetto di particolare attenzione, ed è il cosiddetto spread dei titoli del debito pubblico italiano rispetto a quelli del debito tedesco. Si tratta di un fenomeno sul quale in molti si sono soffermati, ma che – anche stavolta contrariamente a quanto solitamente si scrive – non ha nulla a che fare con l’ammontare del nostro debito: lo dimostra il fatto che un analogo aumento dei differenziali si registra sui titoli del debito pubblico di Portogallo, Spagna e Grecia, che hanno stock di debito nazionale assai eterogenei tra loro (e, come nel caso della Spagna, di gran lunga inferiori al nostro).
Alcuni studiosi, forti di una tradizione di pensiero che individua la variabile rilevante nei conti esteri piuttosto che nei conti pubblici, hanno perciò suggerito che la crescita dei differenziali nei titoli pubblici investirebbe Portogallo, Italia, Grecia e Spagna perché si tratta dei paesi che, nell’ambito della moneta unica, soffrono di più sul piano della competitività estera. I mercati finanziari insomma sconterebbero il fatto che il deterioramento dei conti con l’estero mette capo solitamente a cospicui problemi politici, dal momento che si traduce in una pressante richiesta di allentamento monetario che potrebbe portare al limite ad una fuoriuscita dei paesi più compromessi dalla moneta unica e dunque, in prospettiva, ad un ripudio del debito pubblico in euro.
La nostra impressione è che l’esecutivo in carica stia giocando la carta del timore che sui mercati prenda corpo un convincimento del genere esattamente allo scopo di imporre le misure necessarie ad evitare l’abbandono della moneta unica. Da un punto di vista macroeconomico, infatti, la strada è segnata e – a parità di specializzazione produttiva – passa per l’abbattimento sia dei salari che del deficit pubblico. Una strada del genere dovrebbe implicare con buona probabilità una deflazione così intensa da ridurre le nostre importazioni entro margini compatibili con il deficit estero e, da un punto di vista squisitamente politico, potrebbe saldare in un nuovo accordo gli interessi della piccola e della grande impresa, con la prima che beneficerebbe di nuovi gradi di libertà nell’uso della forza-lavoro e la seconda che si troverebbe agevolata nella consequenziale corsa alle privatizzazioni e alle acquisizioni, a cominciare dalle public utilities. E se è chiaro che di questa linea
D’altra parte, è pur vero che una strategia del genere potrebbe sovrapporsi alla recessione globale e aggravarne gli effetti interni, anziché mitigarli. E se è vero che il combinato disposto delle due potrebbe indubbiamente giovare alle grandi imprese, che in una fase di crisi potrebbero più facilmente procedere con le acquisizioni, molti piccoli imprenditori rischierebbero comunque di essere espulsi dal mercato nonostante lo schiacciamento dei salari. Fermo restando che a pagarne le conseguenze peggiori sarebbero i lavoratori e i beneficiari della spesa pubblica, con il rischio di un’esplosione della protesta sociale.
Se quest’analisi è plausibile, si può avere un’idea della complessità della partita in corso fra i principali attori del quadro politico, economico e sindacale. C’è solo da sperare che dell’importanza della posta in gioco essi abbiano davvero consapevolezza.