Chi salverà l’Italia?

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Abbiamo ceduto sovranità all’Unione Europea senza che a ciò sia seguita una maggiore integrazione politica, su base democratica. Oggi la politica monetaria è controllata da una istituzione impermeabile alle sollecitazioni dei governi eletti dal popolo, mentre la politica fiscale è imbrigliata dai vincoli di finanza pubblica. Bisogna cambiare l’Europa, ma nel frattempo chi cura l’Italia?

La lettura dell’ultima nota mensile dell’Istat sull’andamento dell’economia italiana (aprile 2015) è un bagno nella realtà che fa piazza pulita della retorica e degli strombazzi istituzionali sulla «fuoriuscita dal tunnel». Il quadro che ne viene fuori è, beninteso, denso di chiaroscuri, ma, nell’insieme, racconta di un Paese ancora in difficoltà, stazionario nella sua precaria condizione di salute, lontano da una prospettiva di vera ripresa a breve termine. Oltretutto, essa costituisce una certificazione di sostanziale fallimento delle recenti misure assunte a livello europeo e dal Governo italiano per imprimere una svolta all’economia e combattere la disoccupazione dilagante. Ma andiamo con ordine.

In Europa l’avvenimento più importante dall’inizio dell’anno, che ha innovato il rapporto tra l’autorità monetaria ed il sistema economico nel suo complesso, è stato l’avvio del Quantitative easing (Qe), l’arma “impropria” di Draghi per ridare ossigeno al settore del credito e, di conseguenza, a quello degli investimenti e dei consumi. A due mesi dal suo lancio, nondimeno, lo scenario che la zona Euro ha davanti è ancora quello di un’economia in affanno, tra crisi di fiducia dei sui attori e magri risultati sul versante della produzione. Chiarissimo il rapporto dell’Istituto di statistica: «Nell’area dell’euro, dopo tre mesi di risalita, ad aprile lindicatore complessivo del clima di fiducia per larea euro (ESI) si è mantenuto sui livelli del mese precedente. Il miglioramento dell’indice nei servizi si è contrapposto alla sostanziale stabilità nell’industria e al peggioramento del clima di fiducia dei consumatori». E se la produzione industriale ha fatto registrare un accenno di ripresa,  «le vendite al dettaglio hanno invece segnato una pausa (-0,2% su gennaio), dopo i vivaci incrementi dei quattro mesi precedenti»[1]. In compenso il deprezzamento dell’Euro ha fatto fare un passo in avanti alle esportazioni extra-Ue, ma non ha impedito una nuova rincorsa del prezzo del petrolio (59,4 dollari a barile, +5% rispetto a marzo). Ciò, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto inchiodato al di sopra dell’11%, senza variazioni di rilievo da inizio anno[2]. Di cosa parliamo? Bè, senz’altro dell’insufficienza (o dell’inutilità) di politiche monetarie espansive in assenza di politiche fiscali di segno corrispondente. E’ la storia dell’economia che ce lo dice, c’è poco da fare. A meno che il fine di queste operazioni non sia un altro rispetto a quello ufficialmente dichiarato[3].

In Italia, su base congiunturale (rispetto al mese di marzo), si registra un maggiore dinamismo dell’attività industriale (+0,6%), ma a trainarla sono solo i beni strumentali (+1,1%) e il comparto energetico (+3,6%). Tutta l’industria trasformatrice, vera spina dorsale del sistema Italia, resta al palo, con una caduta per i beni intermedi (-0,4%). E se la contrazione dell’export verso i paesi Ue è stata compensata da un incremento dei volumi commerciali col resto del mondo, ciò che non accenna a risalire è la fiducia dei consumatori, che scende da quota 110,7 a quota 108,2. La vera doccia fredda, tuttavia, arriva dai dati sulla disoccupazione. A fine marzo, tra squilli di tromba, il Governo aveva annunciato che grazie agli effetti della decontribuzione, nei primi due mesi dell’anno, c’erano stati «79mila contratti stabili in più». Poi venne fuori che, al netto delle cancellazioni e dei rapporti di lavoro scaduti (e non prorogati), i “nuovi” contratti, nello stesso periodo, non erano stati più di 13. Ora l’Istat mette la parola fine a questa telenovela, attestando che «dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio e la lieve crescita a febbraio, a marzo il tasso di disoccupazione sale ancora di 0,2 punti percentuali, arrivando al 13%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4% (+138 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,5 punti». Per la disoccupazione giovanile, invece, chiudiamo la classifica europea insieme a Grecia, Spagna e Croazia, con un allarmante 43%. Il ministro Poletti si è subito affrettato a dire che questi dati «vanno letti in un quadro complessivo dove ci sono segnali positivi», ma, per quanto si voglia minimizzare, essi dimostrano la totale inefficacia delle misure adottate finora dal Governo sul versante del mercato del lavoro.

Nel frattempo è stato approvato il Documento di Economia e Finanza (Def) 2015, che conferma, sostanzialmente, la linea del rigore fin qui seguita dagli ultimi governi. Da un lato, infatti, si dichiara la volontà di imprimere una «forte discontinuità» nella politica economica del Governo, per dare «una decisa accelerazione a investimenti e consumi», dall’altro vengono «confermati tutti gli obiettivi di finanza pubblica»[4] tendenti al pareggio di bilancio entro il prossimo triennio ed annunciati nuovi tagli alla spesa per non meno di 10 miliardi. La botte piena e la moglie ubriaca, verrebbe da dire! E la crescita? Per l’anno in corso viene stimata una crescita del Pil dello 0,7%, che si fa più ottimistica per l’anno prossimo (+1,4%). Stime ancora basse e comunque più alte di quelle fornite dal Fondo Monetario Internazionale[5] e da altri organismi internazionali. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece, si parla genericamente di una «graduale riduzione del tasso di disoccupazione», ovviamente tutta da verificare e per nulla scontata, come lo stesso Governo riconosce, un po’ fatalisticamente, nel Documento.

Appare evidente, a questo punto, che senza un cambiamento di rotta reale nella politica economica del Governo per il nostro Paese saranno dolori nei prossimi anni. Balliamo sul crinale tra recessione e stagnazione, mentre l’area del disagio si estende a macchia d’olio ogni giorno che passa. Come ci ricorda Eurispes nel suo ultimo Rapporto «la condizione economica delle famiglie è la vera e propria emergenza e il mantenimento degli standard di qualità della vita risulta compromesso anche per i ceti medi prima garantiti»[6]. Il potere d’acquisto è sceso notevolmente per il 70% degli italiani negli ultimi 4 anni e per più del 40% di essi curarsi è diventato un problema. Come se non bastasse, proprio in questi giorni, l’Ocse ci ha fatto sapere che il debito delle famiglie italiane è salito al 94,2% del reddito disponibile e che negli ultimi anni si è allargato enormemente il divario tra i più ricchi ed i più poveri[7].

Che fare, allora? L’idea che la ripresa e l’occupazione, un miglioramento delle condizioni di vita delle persone, possano derivare da un abbassamento del livello delle tutele per i lavoratori e della soglia minima dei diritti e dei salari, è stata già ampiamente verificata e si è rivelata errata[8], a maggior ragione nel ciclo avverso. Né si può pensare (ed illudere) che una fuoriuscita dalle secche in cui ci troviamo possa avvenire nel rispetto fideistico dei vincoli del vigente patto di bilancio europeo, che impongono ancora tagli alla spesa pubblica e la rinuncia a nuovi investimenti. Anche qui la storia viene in soccorso: tutte le grandi crisi del passato, sicuramente quelle del secolo che abbiamo alle spalle, sono state risolte, dopo un primo e fallimentare approccio deflattivo, ispirato ad una logica di rigore, con un massiccio intervento pubblico in economia e con politiche fiscali espansive, dal lato della domanda. E’ stato così nella continuità democratica, ma anche nel passaggio da regimi democratici (o presunti tali) a regimi totalitari. Nel nostro caso c’è di mezzo un problema che si chiama Unione economica e monetaria (Uem), alla quale abbiamo ceduto uno delle prerogative fondamentali di uno stato: battere moneta (le altre due prerogative, storicamente, sono state quelle di fare la guerra e imporre le tasse). A questa cessione di sovranità, però, non è seguita una maggiore integrazione politica, su base democratica, del sodalizio europeo. E così, mentre la politica monetaria la fa un’istituzione formalmente impermeabile alle sollecitazioni del potere politico, quella economica è totalmente imbrigliata nel meccanismo di «sostenibilità della finanza pubblica»[9], architrave su cui poggia l’odierno potere sovrabbondante della finanza speculativa. E’ possibile cambiare questa Europa? Sarebbe fortemente auspicabile. Qualcuno ha iniziato, tra mille difficoltà, anche a provarci. Nel frattempo, però, chi pensa al malato – Italia?

[1] Istat, Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, aprile 2015
[2] Eurostat, Harmonised unemployment rate by sex, 30 april 2015
[3] Luigi Pandolfi, Quantitative easing, bazooka o pistola ad acqua?, Huffington Post, 27 gennaio 2015
[4] Documento di Economia e Finanza 2015 (Def), Sez.I Programma di Stabilità dell’Italia
[5] International Monetary Fund (Imf), World Economic Outlook (WEO), April 2015
[6] Eurispes, Rapporto Italia 2015
[7] Ocse, Rapporto OECD360 Italia 2015
[8] Realfonzo: “La precarietà crea lavoro? Falso, intervista a cura di Carlo Di Foggia, Il fatto Quotidiano, 14 maggio 2014
[9] Trattato sull’Unione europea (TUE), art.140 Paragrafo 1

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.