Come e perché potenziare la pubblica amministrazione italiana

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The aim of this paper is twofold: (i) to highlight the macroeconomic benefits of strengthening public administration, with particular reference to the provision of welfare goods and services; and (ii) to propose finding resources for its financing through the rationalization of the system of tax incentives provided to the private sector, in view of the main findings of the available empirical evidence attesting to their ineffectiveness with regard to employment impacts and their redistributive effects to the detriment of wage labor and the South.

1 – Introduzione

A fronte del drammatico sottodimensionamento della pubblica amministrazione italiana, denunciato dalla Banca d’Italia (Aimone Gigio et al, 2022), dalla CGIL (CGIL FP, 2022) e da ricercatori indipendenti (Ortona, 2023), il Governo Meloni risponde con un micro-provvedimento di assunzione di soli 2200 funzionari nelle amministrazioni pubbliche. Non solo il provvedimento citato non risolve minimamente il problema, ma la Legge di Bilancio addirittura lo accentua disponendo un nuovo blocco del turnover nella misura del 75% (con probabile esclusione del solo settore della Difesa). Si stima che, a seguito dei ripetuti blocchi del turnover, il settore pubblico italiano è il più sottodimensionato in Europa, con riferimento al rapporto fra numero di dipendenti pubblici e popolazione residente[1]. Il primo blocco del turnover, nella storia recente della politica economica italiana, si realizza con la Legge Finanziaria del 2007 e viene reiterato fino al 2019. Palomba (2021) rileva che negli anni compresi fra il 2008 e il 2019 l’occupazione nel settore pubblico italiano si è ridotta di circa 193.000 unità, che la massima riduzione è avvenuta fra il 2008 e 2012 e che il turonover è rimasto bloccato per circa 8 anni. CGIL (2022) stima un fabbisogno addizionale di oltre 1 milione di nuove assunzioni, seguendo un piano pluriennale di graduale espansione della P.A, per adeguare il settore pubblico italiano – per numero di dipendenti in rapporto alla popolazione residente – ai valori medi europei, anche in considerazione dell’elevato numero di imminenti pensionamenti Per effetto della reiterazione del blocco del turover, infatti, l’età media dei dipendenti pubblici è considerevolmente aumentata negli ultimi anni e si approssima ai 60 anni. Il titolo di studio in loro possesso, nella gran parte dei casi, risulta inadeguato rispetto agli obiettivi che la P.A. è chiamata a perseguire.

In quanto segue, ci soffermeremo sui seguenti aspetti: (i) l’analisi delle motivazioni utilizzate per legittimare le politiche di riduzione del perimetro della P.A., (ii) l’individuazione dei benefici macroeconomici che, per contro, deriverebbero dal suo potenziamento e (iii) l’indicazione delle possibili fonti di finanziamento.

2 – I meccanismi di complementarietà pubblico-privato

I benefici macroeconomici di un efficiente sistema di Welfare pubblico sono ben noti, intuitivamente ovvi, diffusamente analizzati nella tradizione dell’economia post keynesiana (cfr. Myrdal, 1958). Dal lato dalla domanda, l’impatto macroeconomico derivante dall’aumento delle assunzioni nel settore pubblico attiene all’aumento dei consumi e all’attivazione di effetti moltiplicativi sul Pil. Dal lato dell’offerta, l’espansione del settore pubblico agisce sul tasso di crescita della produttività del lavoro (in continua riduzione, in Italia, nell’ultimo trentennio) per l’operare dei seguenti meccanismi:

  1. Il buon funzionamento del servizio sanitario nazionale ha ovvie ricadute positive sul benessere psico-fisico dei lavoratori, dunque sul loro rendimento e aumenta le ore lavorate[2];
  2. Un sistema formativo pubblico adeguatamente finanziato accrescere la produttività del lavoro (sia per effetto dell’aumento del grado di specializzazione, sia come conseguenza della migliore attitudine ad imparare ad apprendere) e migliora la coesione sociale[3].  
  3. Il settore pubblico agisce in modo complementare al settore privato, attraverso fondamentalmente due canali. In primo luogo, il potenziamento quantitativo e il miglioramento qualitativo delle prestazioni offerte dal settore pubblico è una pre-condizione essenziale per ottenere guadagni di efficienza nel settore privato. Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, al problema dei ritardi dei pagamenti della P.A. o alla scarsa dotazione – quantitativa e qualitativa – del sistema dei trasporti e agli impatti di segno negativo che ciò produce sui costi di produzione nel settore privato. Ci si riferisce anche alla necessità, di breve periodo, di ampliare gli organici della P.A. per consentire la transizione digitale e la efficace e rapida conclusione dei progetti del PNRR, evitando che questi obiettivi debbano essere realizzati da dipendenti in età avanzata e poco scolarizzati. Si consideri anche la palese irrazionalità di un’impostazione di politica economica che, a fronte di un aumento degli infortuni sul lavoro (stimato dall’ISTAT in aumento dal primo semestre del 2023 al primo semestre del 2024), l’Ispettorato sul lavoro resta con una insufficiente dotazione di organico, stimata nell’ordine di 3000 unità.

Nei suoi termini più generali, il rapporto di complementarietà fra settore pubblico e settore privato si traduce nel fatto che il primo riduce l’incertezza, stabilizzando la domanda e, dunque, creando le condizioni per l’aumento degli investimenti privati.  In secondo luogo, l’operatore pubblico svolge il ruolo di datore di lavoro – ed eventualmente di produttore di innovazioni – di ultima istanza: il che significa, soprattutto nel Mezzogiorno, fornire uno strumento rilevante di contrasto ai flussi migratori. Inoltre, l’aumento dell’occupazione pubblica riduce il tasso di disoccupazione e, per conseguenza, rende difficile per le imprese private guadagnare competitività mediante strategie di moderazione salariale e di precarizzazione del lavoro. In tal senso, l’aumento dell’occupazione tende ad associarsi a incrementi di produttività, dal momento che le imprese sono costrette a reagire a un aumento dei costi introducendo innovazioni e a cercare di realizzare incrementi di efficienza mediante la formazione professionale (Colacchio e Forges Davanzati, 2020; Dutt, 2006).  

3 – Gli argomenti a favore del blocco del turnover

Gli argomenti utilizzati per legittimare il blocco del turnover e, dunque, il sottofinanziamento della P.A. italiana sono riconducibili ai seguenti.

  1. Si ritiene che queste misure siano le uniche possibili in una condizione nella quale, stando al Patto di Stabilità e Crescita (e ai nuovi vincoli che impone in particolare per i Paesi, come il nostro, con debito pubblico/Pil maggiore del 90%,) il Governo italiano è tenuto ad adottare misure di disciplina fiscale. L’argomento per il quale la disciplina fiscale è la più efficace strategia per ridurre l’indebitamento pubblico è stato dimostrato falso sul piano teorico ed empirico, per numerose ragioni[4], che convergono nel mostrare come l’austerità fiscale produca effetti recessivi e, al tempo stesso e contrariamente agli obiettivi che si dichiara di voler perseguire, aumenta il rapporto debito pubblico/Pil.
    In più, nel caso italiano, è stato fatto rilevare – a partire dagli studi di Augusto Graziani (1998) – che l’aumento del debito pubblico in rapporto al Pil è imputabile principalmente all’aumento dei tassi di interesse conseguente alla necessità di riequilibrare la bilancia dei pagamenti mediante l’attrazione di capitali speculativi, a fronte di squilibri delle partite correnti, così che si dimostra che l’elevato debito pubblico in rapporto al Pil, in Italia, non dipende né è storicamente dipeso dall’elevata spesa pubblica.
  2. Si aggiunge che i dipendenti pubblici godono di tutele eccessive e che le garanzie offerte dai loro contratti di lavoro agiscono come disincentivo all’impegno. Questa tesi non considera l’ormai ampia mole di studi scientifici che mostra come, soprattutto nel settore pubblico, gli effetti di demotivazione dipendano principalmente da un’organizzazione del lavoro pubblico largamente disfunzionale – con forti e crescenti connotati gerarchici – dalle basse retribuzioni[5] e dal diffuso ricorso a rapporti di lavoro precari (Coin, 2023, De Vivo e Russo, 2021).
4 – Il settore pubblico e le politiche industriali

Se si accetta la terapia della riduzione del rapporto debito/Pil mediante austerità fiscale, ne deriva che la principale possibilità di reperire fonti di finanziamento risiede nella riduzione degli sprechi. Questa linea di intervento – praticata da decenni mediante le c.d. spending review – è stata sempre declinata nella forma dell’individuazione degli sprechi all’interno del settore pubblico, producendo, risultati molto modesti nella sua lunga storia (Scinetti, 2024). Per le ragioni che verranno indicate a seguire, sussistono buoni argomenti per ritenere che gli sprechi si generano anche nel settore privato e si producono soprattutto attraverso i numerosi sconti fiscali che i governi degli ultimi decenni hanno concesso alle imprese.

Occorre, dunque, chiedersi se queste agevolazioni costituiscano un buon uso del denaro pubblico o se, per contro, non si possano annoverare fra le allocazioni inefficienti e inefficaci della spesa pubblica, dalle quali – razionalizzandole – sia possibile ricavare gettito per finanziare interventi di maggiore impatto sulla domanda interna e sulla crescita della produttività del lavoro.  

Per inquadrare correttamente il problema, sono necessarie tre premesse:

  1. La prassi di sussidiare le imprese confligge con l’impostazione teorica liberista che il Governo Meloni dichiara di voler perseguire, dal momento che gli sconti fiscali producono effetti distorsivi della concorrenza e dal momento che, nella prospettiva teorica e politica nella quale l’Esecutivo dichiara di volersi muovere, le imprese meno efficienti dovrebbero essere lasciate fallire, attenendosi al meccanismo della selezione naturale operata dal mercato.
  2. Le agevolazioni fiscali costituiscono, di fatto, una forma di protezionismo occulto, che viene praticato nell’asssenza di politica industriale. La previsione di aumento dei dazi da parte degli Stati Uniti, combinata con il rispetto della disciplina di bilancio disposta dal Patto di Stabilità e Crescita, rischia, stando a questa interpretazione, di generare una spirale perversa fatta di aumento degli sconti alle imprese per preservarne la competitività, contestuale compressione della spesa pubblica e, dunque, della domanda interna e del tasso di crescita della produttività del lavoro.
  3. L’evidenza empirica disponibile mostra che gli sconti fiscali alle imprese sono molto costosi e poco efficaci, se non controproducenti. INPS stima un costo annuale medio relativo alle diverse forme di agevolazione nell’ordine dei 15 miliardi. L’utilizzo degli incentivi è aumentato, a fronte di una propensione all’investimento sostanzialmente stabile negli anni più recenti. L’Ufficio Valutazione del Senato, nel 2021, ha rilevato (ed è l’ultima stima ufficiale disponibile) una perdita di gettito fiscale derivante dalle agevolazioni fiscali alle imprese pari a circa il 4% del Pil (https://www.senato.it/4746?dossier=37321). Brunetti e Ricci (2024) rilevano che la maggiore diffusione dei benefici fiscali riguarda le imprese che operano nel settore industriale e che sono localizzate a Nord. Per alcune di queste misure – p.e. Decontribuzione Sud – si riscontra un aumento della propensione, da parte delle imprese beneficiarie, a ridurre le spese per la formazione dei loro dipendenti, come rilevato in uno studio condotto da INAPP e curato da Irene Brunetti e Andrea Ricci

A ciò occorre aggiungere che le misure di agevolazione fiscale hanno contribuito, nel caso italiano, a strutturare un sistema fiscale che tende progressivamente a ridurre il suo grado di progressività (Guzzardi et al., 2022). Per effetto di questa scelta, si sono determinati due risultati di segno negativo. In primo luogo, l’Italia è venuta gradualmente a collocarsi fra i primi Paesi OCSE per livello delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, sia fra gruppi sociali, sia su basi regionali. L’indice di Gini, convenzionalmente utilizzato per calcolarle, è pari, nel nostro Paese, a 0,366, in continuo aumento dagli anni Settanta e solo di poco inferiore alle economie avanzate più diseguali al mondo: in particolare, a quella con maggiori diseguaglianze fra i Paesi OCSE, ovvero gli Stati Uniti (con un indice di concentrazione – stando alle ultime stime OCSE – pari a 0,415). Le diseguaglianze sono aumentate, in Italia, anche su basi regionali, a ragione della maggiore incidenza del fisco locale rispetto ai trasferimenti nazionali. Prima dell’introduzione dell’addizionale IRPEF, la fiscalità locale dipendeva per circa l’80% da finanziamenti nazionali sostanzialmente uniformi su scala nazionale: oggi, in misura crescente, il finanziamento dei servizi pubblici locali viene a dipendere dal gettito locale, che è ovviamente minore nelle aree meno sviluppate del Paese. In secondo luogo, l’effetto delle modifiche delle strutture tributarie sulla distribuzione del reddito ha anche prodotto – in Italia e non solo – il rallentamento della mobilità sociale e, dunque, una sempre minore eguaglianza di opportunità. Si può ricordare che un’elevata mobilità sociale è una condizione per la quale chi nasce in una famiglia con basso reddito può affrancarsi dall’iniziale condizione di povertà e contribuire alla crescita economica – e, dunque, al benessere collettivo – attraverso soprattutto la libera iniziativa privata in un’economia di mercato: si tratta, in sostanza, del mito fondativo del liberismo, soprattutto statunitense, e della retorica che accompagna la figura del del self-made man.


Riferimenti bibliografici

Aimone Giglio, L., Bolis, M., Chiades, P., Lo Nardo, A., Marangoni, D. e Massimiliano Paolicelli, M. (2022). Il personale degli enti territoriali. Il Mezzogiorno nel confronto con il Centro NordN. Banca d’Italia – Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanzna – Occasional paper n. 677

Brunetti, I e Ricci, A. (2024). Incentivi per investimenti: chi li usa e chi dovrebbe usarli, “Lavoce. info”, 10 maggio.

CGIL – Funzione Pubblica (2022). Piano straordinario per l’occupazione. Roma.

Coin, F. (2023). Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita. Torino: Einaudi.

Colacchio, G. and Forges Davanzati, G. (2020). Modern money theory: A critical assessment and the proposal for the State as innovator of first resort, “Review of Political Economy”, 32 (1), pp.77-98.

De Vivo, P. e Russo, A. (2021). Pubblica amministrazione, ceti medi e divari di cittadinanza nel Mezzogiorno, “Meridiana”, No. 102, pp. 119-142.   

Dutt, A.K. (2006). Aggregate Demand, Aggregate Supply and Economic Growth, “International Review of Applied Economics”, Vol. 20, No. 3, pp.319–336, July.

Graziani, A. (1998). Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea. Boringhieri.

Guzzardi, D., Palagi, E., Roventini, A., Santoro, A. (2022). Reconstructing Income Inequality in Italy: New Evidence and Tax Policy Implications from Distributional National Accounts, “World Inequality Lab”, n.2.

Myrdal, G. (1958). Beyond the welfare state. Economic planning in the welfare states and its international implications. London: Methuen.

Ortona, G. (2023). I dati non lasciano dubbi: i dipendenti italiani sono troppo pochi, “Volere la luna”,  29 Marzo.

Palomba, R. (2021). Blocco e sbocco del turnover: gli effetti sulla P.A., Osservatorio sui conti pubblici italiani, 10 aprile.

Paterlesi Meloni e Stirati (2018). Austerità in Italia: i sacrifici alimentano il debito, “EconomiaePolitica”, 23 aprile. 

Samarani, M (2020). Spesa sanitaria, austerità e «malattia dei costi» di Baumol, “Economiaepolitica”, 28 aprile.

Scinetti, F. (2024). Come procede la spending review in Italia?, “Osservatorio sui conti pubblici”, 21 marzo.


[1] Si fa qui riferimento a quello che viene correntemente definito il settore pubblico allargato, ovvero il complesso della pubblica amministrazione in senso stretto e gli enti esterni alla P.A., la cui attività di produzione di beni e servizi ricade sotto il controllo dello Stato. Per semplificità espositiva, in quanto segue, si fa riferimento al sotto-dimensionamento , in particolare, dei comparti della P:A. direttamente coinvolti nella produzione di beni e servizi di Welfare. Sul tema, si rinvia a https://www.treccani.it/enciclopedia/welfare-state/.

[2] Sul sottofinanziamento della sanità pubblica in Italia esiste un’ampia letteratura. Per una ricostruzione del problema, si rinvia, in questa rivista, a Samarani (2020).

[3] I tagli al settore della formazione – in particolare all’Università pubblica – si inscrivono in una traiettoria di lungo periodo, che data a partire dal secondo Governo Berlusconi (la cosiddetta riforma Gelmini è del 2010) e che porta il nostro Paese ad avere poche sedi universitarie e una bassa percentuale di laureati nel confronto con la media OCSE. Il comparto dell’istruzione è quello nel quale le retribuzioni medie sono più basse nell’ambito del settore pubblico italiano. Il Governo Monti ha contribuito in modo significativo al ridimensionamento del nostro sistema universitario e dell’alta formazione, con un calo del 17.9% del fondo ordinario. Al momento, la spesa italiana per le Università è inferiore all’1% del Pil, a fronte di una media OCSE dell’1.6%. I tagli al sistema universitario hanno natura selettiva e penalizzano soprattutto le sedi meridionali e ancor più quelle periferiche. Il meccanismo utilizzato per differenziare, di fatto, le sedi universitarie consiste nell’aumento della cosiddetta quota premiale, che finisce per avvantaggiare le Università localizzate in aree con maggiore sviluppo economico. Dal 2009 la quota base si è progressivamente
ridotta, passando dal 91%, all’80,5% del 2012, al 46,95% del 2023. Non aumentano gli stipendi del personale universitario e si incentiva il recupero dei finanziamenti attraverso fonti esterne, in un meccanismo equiparabile a un moderno mecenatismo (è il committente a stabilire i temi della ricerca). L’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR) si occupa di quantificare il merito, secondo metodologie estremamente discutibili, che finiscono per equiparare la quantità delle pubblicazioni scientifiche con la loro qualità e incentivano, di fatto, il conformismo della ricerca e le peggiori pratiche di autocitazione. Si rinvia al blog roars.it per approfondimenti sul tema.La spesa pubblica per l’istruzione aumenta costantemente a partire dal secondo dopoguerra, con forte accelerazione negli anni Settanta. Fra il 1971 e il 1984 passa dal 2.9% del Pil al 4.8%, raggiungendo nel 1984 il valore più alto. Da allora si stabilizza intorno a una percentuale del 4.5% per ridursi dopo il 2009 in modo consistente. Un leggero aumento dei finanziamenti si registra solo dopo il 2016, ma non si recupera il livello precedente ai tagli dei primi anni Duemila e soprattutto aumenta il precariato della ricerca.

[4] Sul tema, si rinvia, fra gli altri, a Paternesi Meloni e Stirati (2018)

[5] CGIL (2022) stima, a riguardo, che la spesa per redditi da lavoro dipendente in relazione al PIL è sistema­ticamente più bassa in Italia (10,7%) rispetto ai principali Paesi europei: è del 13.5% in Francia, del 13.2% in Spagna, dell’11.1% nel Regno Unito e dell’11.6% nella media europea.

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