Come potremmo ridurre il debito pubblico con l’aiuto della Banca d’Italia

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

A fine dall’anno appena trascorso, in Italia si è tornato per qualche giorno a parlare di MES, il meccanismo europeo di stabilità istituito per concedere, sotto precise condizioni, assistenza finanziaria ai Paesi membri della zona dell’euro che, pur avendo un debito pubblico sostenibile, incorressero in temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato.

La nostra Camera ha respinto la proposta di ratifica della riforma, con conseguenze – economiche e politiche – che restano tutte da valutare. E, tuttavia, allorché l’agenda europea ci ha fornito un’occasione importante per cominciare finalmente a riflettere su come affrontare “il” problema che sta alla radice della grande vulnerabilità della nostra economia – il suo altissimo debito pubblico – l’occasione non è stata colta. Cosicché del tema si continua a non parlare.

Nemmeno la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, anch’essa avvenuta a fine anno, ne ha sollecitato la discussione o quantomeno la presa d’atto che il tema va affrontato in via prioritaria alla ricerca di una soluzione percorribile.

Il Problema

È vero, vi è condivisone fra la gran parte degli esperti, osservatori e opinionisti economici del nostro Paese circa le gravi conseguenze che derivano per l’economia italiana dall’elevato stock del suo debito pubblico. Ritengo, fra l’altro, che tale condivisione sussista anche fra coloro che sostengono che il debito pubblico di un paese non costituisce un problema se lo Stato può finanziarlo con emissione di moneta nazionale (tesi su cui sono in radicale disaccordo, ma che non è questa la sede per confutare e al cui riguardo rinvio a un mio recente contributo). Tra le conseguenze di un alto debito pubblico, le più rilevanti sono:

  • I limiti alla spesa pubblica: l’alto debito pubblico limita la capacità del governo di investire in infrastrutture, servizi pubblici, istruzione e altre aree cruciali per la crescita economica e il benessere della popolazione. Gran parte delle entrate fiscali deve essere destinata al pagamento degli interessi sul debito stesso, riducendo la quantità di fondi disponibili per altri scopi. Ciò è tanto più grave in una fase nella quale il Paese si trova ad affrontare emergenze sempre più pressanti (cambiamenti climatici, impatto delle innovazioni tecnologiche, diseguaglianze sociali, etc.)
  • La mancanza di flessibilità fiscale: un alto debito pubblico costringe il governo a mantenere politiche fiscali restrittive che ne limitano la capacità di stimolare l’economia in fasi di recessione, e di attuare politiche di redistribuzione delle risorse e sostengo alle fasce più deboli della popolazione. La mancanza di flessibilità fiscale vincola la capacità dello Stato di adottare misure preventive o correttive in risposta a cambiamenti nel contesto economico globale o nazionale. Con una politica fiscale poco flessibile, il governo non ha la capacità di attuare misure adeguate a proteggere l’economia dagli effetti di tali shock.
  • I danni alla credibilità: l’alto debito pubblico danneggia la credibilità internazionale dell’Italia. In situazioni di nervosismo dei mercati o, peggio, di crisi conclamata, gli investitori diventano cauti nel (continuare a) concedere prestiti al Paese, richiedendo tassi d’interesse più alti per i maggiori rischi percepiti. Ciò peggiora il quadro fiscale e si ripercuote negativamente su tutta l’economia nazionale.
  • Le pressioni esterne: l’Italia, come membro dell’UE, è soggetta a regole e limiti di bilancio stabiliti dal Patto di Stabilità e Crescita. Un alto debito pubblico mette il Paese sotto pressione per ridurre il deficit di bilancio e adottare politiche di austerità per rispettare tali regole.

Ne risulta un’Italia bloccata. Non è un caso che le forze politiche che a ogni tornata elettorale si contendono la guida del Paese a suon di generose promesse, o che dai banchi dell’opposizione vantano ambiziosi programmi di governo alternativi, una volta giunte al governo si ritrovino a fare i conti con la ferrea logica del debito, che disvela loro spazi di manovra angusti e ne raffredda gli ardori elettorali, costringendole tutte a perseguire lo stesso – stretto – percorso di bilancio.

Da questa situazione occorre uscire. È l’alto debito pubblico il vero nemico della sovranità nazionale: condiziona le scelte di un’economia globalmente integrata, come la nostra, che per sua causa ha finito per consegnare ai ”Diavoli” le proprie sorti.

D’altra parte, se vi è condivisione circa le conseguenze dell’alto debito, non ve n’è riguardo alle modalità del suo rientro. Le alternative sono diverse:  si va dal sostenere la necessità di politiche fiscali volte al conseguimento di robusti e stabili surplus primari per assorbire il debito, all’idea opposta di abbattere il rapporto debito/PIL aumentando gli investimenti pubblici, quella di creare una imposta sulla ricchezza finanziaria e quella di sottoscrivere un patto fiscale che contempli la combinazione di una tassa patrimoniale con l’alleggerimento della tassazione dei redditi e dei consumi (finanziata dai risparmi sul pagamento degli interessi), per continuare la serie con proposte di riforme strutturali per accelerare la crescita economica e diminuire il peso relativo del debito rispetto al PIL, sino all’idea di interventi più drastici quali la ristrutturazione del debito e persino la considerazione di un suo repudio.

Ma il costo politico e sociale delle scelte da compiere fanno sì che non si scelga, così che il problema perdura e si aggrava. E tanto la politica quanto la società civile continuano a non affrontarlo, avvinte da un senso di fatalità che lo fa apparire come un destino inalterabile.

Eppure, una soluzione alternativa esiste. Essa è, sì, radicale, e purtuttavia coerente con le norme e le istituzioni europee e non lesiva dei diritti dei creditori. Essa potrebbe incontrare un consenso forte e trasversale nel nostro Paese, a patto che Governo e Parlamento vi aderiscano con determinazione e vi investano il capitale politico necessario per portarne avanti con fermezza le linee in tutte le opportune sedi opportune.

Si tratta, però, di una soluzione che può applicarsi soltanto una tantum nella lunga storia di un paese, e che, pertanto, dev’essere accompagnata da un impegno permanente a non riprodurre ciò che ne ha causato i presupposti: l’accumularsi di un nuovo alto debito. 

La soluzione

La soluzione qui discussa elabora la proposta PADRE che nel 2013 Pierre Pâris e Charles Wyplosz idearono per gli Stati membri dell’Eurozona altamente indebitati. In Italia se ne accennò al momento dell’uscita e, sparutamente, in anni successivi e anche più recenti, ma nessuna forza politica, né tanto meno nessun governo, le ha mai dato la giusta considerazione.

Applicata all’Italia, la soluzione richiederebbe un accordo tra lo Stato e la BCE, in base al quale la Banca d’Italia acquista sul mercato secondario quote di debito pubblico al valore nominale secondo le modalità sotto illustrate.

Sebbene non specificato nella formulazione originale della proposta, per restituire margini di manovra fiscale al Paese, l’operazione di acquisti dovrebbe mirare ad abbattere significativamente lo stock del debito pubblico.

Il debito acquistato si trasforma in obbligazioni statali perpetue a tasso zero. Si tratta quindi di un’operazione di ristrutturazione del debito acquistato dalla Banca d’Italia, che non incide sulla parte di debito che rimane al mercato.

Su scelta dei titolari di debito interessati a vendere proprie quote, la Banca d’Italia può acquistarle:

  1. in cambio di danaro, emettendo contestualmente sul mercato un pari ammontare di obbligazioni proprie (Note), cosa che il suo statuto le consente di fare (Art. 35), oppure
  2. direttamente in cambio delle predette Note.

La natura d’istituto d’emissione della Banca d’Italia fa sì che le Note abbiano rischio zero, pagando così tassi inferiori a quelli che lo Stato riconosce sul suo debito. Tali interessi comportano costi che la Banca d’Italia recupera nel lungo termine trattenendo per sé gli utili da signoraggio che essa trasferisce ogni anno allo Stato, nonché le tasse che essa versa annualmente allo Stato, e beneficiando di eventuali entrate straordinarie che lo Stato stabilisse di destinare al rimborso del costo delle Note.

Nella variante della formulazione originale che qui si propone, l’operazione prevede una terza modalità secondo cui: 

  • per sostenere o stimolare l’economia, ove necessario, il Governo può riacquistare quote del suo debito in cambio di “Buoni digitali di sconto fiscale”.

Questi titoli non di debito, proposti al Parlamento in un disegno di legge depositato a inizio di quest’anno, rappresentano diritti a riduzioni fiscali che i titolari possono esercitare a partire dai due anni successivi alla data di emissione, ma che, per esigenze di spesa, possono utilizzare come mezzi di pagamento su una piattaforma nazionale all’uopo istituita. In pratica, in situazioni di stagnazione, crisi o recessione economica, lo Stato interviene convertendo su richiesta dei portatori (senza penalità e a vista) titoli di debito pubblico con Buoni fiscali immediatamente spendibili.

Impatto

Il recupero del costo delle Note richiede diversi decenni. Al crescere del PIL, i costi diminuiscono (in proporzione) e i ricavi da signoraggio e da tasse trattenute aumentano, sino a quando essi prima eguagliano e poi eccedono i costi. Secondo le stime di Pâris e Wyplosz, con dinamiche normali dei tassi d’interesse e di crescita del PIL, i futuri utili da signoraggio – in valore attualizzato – risultano sufficienti a compensare il costo dell’operazione.

Contabilmente, alle Note iscritte al passivo del bilancio della Banca d’Italia corrisponde all’attivo il valore attualizzato del “rimborso” a termine, che ne protegge il capitale dalle perdite o dai minori profitti incorsi. Inoltre, finanziariamente, la natura d’istituto d’emissione della Banca d’Italia ne pone l’operatività al riparo dagli effetti delle perdite o dei minori profitti, ed elimina per i possessori delle Note i rischi di default e di liquidità.

L’operazione accresce la capacità di ripagamento dello Stato italiano e ne migliora il profilo di rischio, riducendo il costo del debito residuo (sottoforma di tassi sensibilmente più bassi). Inoltre, rimuove le conseguenze negative dell’alto debito prima discusse e accrescerebbe di colpo e assai significativamente il potenziale di crescita economica della nazione.

Si osservi che gli acquisti della Banca d’Italia con danaro non comportano monetizzazione del debito, giacché ogni acquisto è sterilizzato con emissione di Note. Inoltre, i riacquisti di debito con Buoni fiscali non danno luogo a creazione di moneta o emissione di nuovo debito. Essi possono, in linea di principio, causare deficit di bilancio negli anni di scadenza dei titoli, sempre che siano utilizzati come sconti fiscali e non continuino invece a circolare come mezzi di pagamento. D’altra parte, il disegno di legge prevede che lo assuma provvedimenti fiscali correttivi per compensare eventuali riduzioni di gettito. In ogni caso, tuttavia, con moltiplicatori di spesa non negativi, i deficit causati dai Buoni non potrebbero eccedere il debito riacquistato con loro emissione. Dunque, l’emissione di Buoni fiscali agevola la capacità di spesa dei beneficiari senza aggravare (e presumibilmente) diminuendo lo stock di debito.

Si osservi, infine, che l’operazione spalma il costo del debito ristrutturato sulle generazioni future, diluendolo sottoforma di minor gettito fiscale nel tempo, ma non impone costi ai creditori né implica trasferimenti da Paesi terzi: è l’Italia stessa che ripaga il suo debito.   

Azzardo morale

Insito nell’operazione è il rischio di “azzardo morale”: forte di un ritrovato ampio spazio fiscale, lo Stato potrebbe riprendere a rindebitarsi irresponsabilmente. È irrealistico pensare di poter concludere con la BCE un accordo come quello sopra prospettato, senza un impegno credibile da parte italiana a evitare di incorrervi. Ed è altrettanto irrealistico pensare che l’impegno che ci sarebbe richiesto non s’incentri sull’impianto di regole dettate dal Patto di Stabilità e Crescita, comunque rivisto.

Una soluzione proponibile, pertanto, può essere quella che, a partire dal varo dell’operazione, lo Stato italiano assuma un impegno formale che vincoli i Governi della Repubblica (presente e futuri) a non eccedere la soglia di deficit prevista dal Patto (se non per ragioni legate a eventi straordinari), pena la ritrasformazione delle Note in cui è stato trasformato il debito acquistato dalla Banca d’Italia titoli a tasso di mercato, per un controvalore equivalente all’eccesso di deficit registrato. In altri termini, quelle Note si ritrasformano in debito pubblico tout court che lo Stato è tenuto a onorare, con tutte le conseguenze penalizzanti che ne conseguirebbero. Ciò scoraggerebbe i Governi dal violare l’impegno.  

Considerazioni conclusive

È tempo che l’Italia si liberi dal debito che la inchioda all’impossibilità di operare una politica economica efficace, volta allo sviluppo dell’economia nazionale, e che comporta per l’economia costi enormi e crescenti per sostenerne il peso. Ridurre il debito dovrebbe costituire “la” priorità del Paese.

Naturalmente, considerando l’appartenenza dell’Italia all’UE e il ruolo chiave che la BCE dovrebbe svolgere nel rendere possibile l’operazione sopra illustrata, a ciò non è immaginabile poter arrivare se non matura il necessario consenso non solo nel Paese ma nel più ampio ambito europeo. A tal riguardo, è anche da mettere in conto la riluttanza da parte di molti che non vorrebbero nemmeno considerare una soluzione come quella prospettata, nel convincimento che “tanto l’Europa non ce la farà fare”.

Il consenso non è da dare per scontato. Altri paesi, in special modo quelli più grandi, potrebbero nutrire una forte preferenza a che l’Italia permanga soggiogata dal cappio del debito e non sprigioni l’enorme potenziale economico che una sua forte riduzione le consentirebbe di liberare. Tenere l’Italia a “bagnomaria” potrebbe essere per loro una soluzione di gran lunga preferibile: un’Italia sufficientemente indebitata sì da essere costantemente tenuta al cappio, epperò anche indotta a contenere il debito che, diventando insostenibile, diverrebbe un problema per tutti. D’altra parte, un’Italia a bagnomaria fa comodo: commercialmente meno temibile come concorrente e politicamente debole e sempre ricattabile come partner.

È anche vero che altri paesi dell’eurozona altamente indebitati (tra i quali la stessa Francia) potrebbero voler adottare essi stessi la soluzione in parola, contando sulla propria banca centrale nazionale – così come, d’altra parte, Pâris e Wyplosz avevano originariamente proposto. In questo caso, l’Italia potrebbe contare su partner allineati dal medesimo interesse.

Sia quel che sia, il nostro Governo dovrebbe assumere con coraggio la responsabilità di un’azione radicale come quella sopra esposta, e la Banca d’Italia, nel rispetto delle regole del sistema europeo belle banche centrali di cui è parte, dovrebbe essere disposta a fare quanto è in suo potere per interpretare il ruolo di banca centrale “nazionale” del nostro Paese e sostenerlo nel conseguimento di questo suo obiettivo prioritario e vitale.

Le opinioni qui espresse sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono minimamente le Istituzioni con le quali collabora.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.