Il Patto di Stabilità e Crescita e le sue criticità
La riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), recentemente approvata dal Parlamento Europeo su proposta della Commissione Europea, arriva a valle di un processo di discussione sull’argomento durato ventisette anni, ossia dal 1997, anno della sua stipula da parte degli Stati membri dell’Unione Europea. L’obiettivo della discussione, finora non raggiunto (o raggiunto con molte criticità), era quello di generare un coordinamento ex-post delle politiche di bilancio, nell’intento di rendere l’Eurozona un’area valutaria ottimale, secondo quanto previsto dalla teoria di Mundell (1961).
In verità, a nostro avviso, il PSC contiene due importanti errori strutturali, che non sono stati scalfiti (se non in minima parte) né dalle modifiche apportate al PSC fin dagli inizi degli anni 2000 né tantomeno dalla riforma di recente approvazione. Il primo dei summenzionati difetti attiene al fatto che tutte le prescrizioni relative ai parametri di finanza pubblica da rispettare, sia da parte dei Paesi candidati all’ingresso nell’Euro sia da quelli già presenti nella Moneta Unica, partono dalla misurazione del rapporto Debito Pubblico/Prodotto Interno Lordo (PIL); mentre il secondo importante vulnus, insito nel PSC, attiene all’uso pro-ciclico del bilancio pubblico, in palese contraddizione con le più autorevoli dottrine sull’argomento (Musgrave, 1959).
In effetti, per quanto concerne il rapporto Debito Pubblico/PIL, ci troviamo dinanzi a una comparazione tra due grandezze altamente disomogenee: il Debito Pubblico è una variabile stock o fondo, ossia l’accumulazione nel tempo di indebitamenti, mentre il PIL è una variabile flusso, misurata su una singola annualità. Dunque, perché confrontare l’indebitamento accumulato dall’unità di Italia con il valore della produzione di beni e servizi in un singolo anno? Quale senso avrebbe?
In realtà, il principio alla base di questo confronto tra grandezze strutturalmente dissimili risiede nella capacità dei flussi di reddito (PIL), che si generano nell’economia, di sostenere l’onere annuale del debito e di contribuire al rimborso di una parte dello stesso. Tuttavia, tale spiegazione risulta parziale, in quanto tiene conto di un orizzonte temporale limitato (l’anno) nei confronti di una grandezza, quale lo stock di debito pubblico, che si è accumulata nel corso di lungo tempo. Inoltre, non si tiene adeguatamente conto del fatto che una parte del debito viene rimborsata attraverso l’emissione di nuovo debito (c.d. rollover). Eppure, è proprio dal rapporto Debito Pubblico/PIL che discende la soglia del 3% ammessa per il rapporto tra Indebitamento netto e PIL del PSC.
In particolare, il target del rapporto Debito Pubblico/PILfu fissato al 60% sin dalla nascita del PSC, essendo la risultante media del rapporto in questione di Francia e Germania, sebbene, già nel 1997, l’intera Eurozona si attestasse su una media del 74.2% (fonte: Servizio Studi Camera dei Deputati).
In tale contesto, il valore della soglia per il rapporto tra Indebitamento netto e PIL fu una combinazione tra il tasso di crescita medio reale del 3% del PIL dell’Eurozona a cui venne sommato il 2%, rappresentante il target di inflazione della politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE) e il 60% del rapporto Debito/PIL. Pertanto, fermo restando il rapporto Debito Pubblico/PIL fissato al 60%, data una crescita del PIL nominale al 5%, si credette che la crescita del Debito Pubblico – l’indebitamento netto – in termini di PIL, non dovesse eccedere il 3%.
La procedura analitica alla base di tale risultato è piuttosto intuitiva:
dove Dt indica lo stock di debito pubblico al tempo t, mentre Dt-1 è lo stock di debito pubblico al tempo t-1 e dt è l’indebitamento netto al tempo t. Andando a dividere entrambi i membri dell’equazione (1) per yt-1, ossia il PIL nominale al tempo t-1, e moltiplicando solo Dt e dt per yt/yt si perviene all’equazione (2):
Il termine yt⁄yt-1 =1+gt con gt stante ad indicare il tasso di crescita del PIL nominale. Pertanto, essendo al tempo dell’istituzione del PSC, gt=5% e Dt⁄yt fissato al 60%, è possibile ricavare dalla (2) dt⁄yt , ossia il rapporto indebitamento netto/PIL:
Peccato che le summenzionate premesse, oltre ad essere concettualmente sbagliate (rapportare uno stock ad un flusso induce erroneamente a credere che quel flusso debba avere una qualche capacità intrinseca di “ripagare” totalmente quello stock), si basavano su valori assolutamente inverosimili non solo per gli anni avvenire (come provano i dati) ma anche per gli stessi anni in cui il PSC vide la sua istituzione. Basti pensare che l’Italia, nel 1996, aveva un rapporto Debito Pubblico/PIL pari al 120.6%, ridotto di appena 2 punti percentuali nel 1997 (fonte: Servizio Studi Camera dei Deputati); mentre nell’Eurozona il rapporto Debito Pubblico/PIL ha sistematicamente superato il 60% a partire dal 2007, anno della great recession indotta dai titoli tossici. Senza dimenticare, inoltre, il tasso di crescita del PIL reale dell’Eurozona che, a partire dal 2001, non ha mai più raggiunto i 3 punti percentuali, se si eccettua l’anno 2021, in cui si ebbe un fisiologico rimbalzo a seguito della pesante recessione pandemica (figure 1 e 2):
Figura 1: Tassi di crescita del PIL reale Eurozona in termini percentuali
Figura 2: Debito pubblico/PIL in termini percentuali
L’ottusa regola del 3%, poi, ha generato sistematicamente a livello europeo un indebitamento netto pro-ciclico (si veda Bossone, 2024), lasciando agli Stati membri un’arma spuntata per contrastare le fasi avverse del ciclo economico, come evidenziato in Figura 3:
Figura 3: Andamento prociclico dei bilanci pubblici dell’Eurozona
La variazione del disavanzo primario (scala destra del grafico) e i tassi di crescita del PIL reale (scala sinistra del grafico) presentano andamenti in larga parte sovrapponibili a partire dal 1996 fino al 2022 nell’Eurozona, di fatto annullando la capacità delle politiche fiscali nazionali di contrastare le fasi avverse del ciclo economico.
Tali premesse dimostrano come il PSC abbia sostanzialmente frenato le capacità fiscali limitandosi prettamente alla sola stabilità dei conti pubblici.
Ciononostante, la riforma del PSC di recente approvazione resta saldamente ancorata al rapporto Debito pubblico/PIL al 60%, prevedendo che gli Stati con un debito particolarmente alto saranno tenuti a ridurlo in media dell’1% all’anno se il loro debito è superiore al 90% del PIL, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%, stabilendo con le autorità europee dei piani di spesa individuali della durata di quattro anni, prorogabili fino a sette anni.
Anche la regola del 3% sul rapporto deficit/PIL, derivata – come sopra dimostrato – da quella del 60% sul rapporto Debito pubblico/PIL, resta invariata. Tuttavia, viene aggiunta una clausola: nelle fasi espansive del ciclo economico, ovvero l’unico momento in cui si tiene conto dell’andamento ciclico dell’economia, se il deficit supera il 3%, deve essere ridotto fino al raggiungimento dell’1,5% in termini strutturali, ossia al netto del ciclo economico e delle operazioni una tantum.
L’obiettivo di tale dettato normativo è creare una riserva di spesa per le fasi avverse del ciclo economico. Sebbene tale modifica possa sembrare favorevole alla anti-ciclicità delle politiche fiscali, di fatto essa stabilisce un ammontare prestabilito di contenimento del deficit senza aver riguardo alla magnitudo dell’espansione del ciclo economico, mantenendo comunque il target del 3%.
La proposta: superare il singolo criterio della crescita del PIL
Sulla base di quanto sopra esposto, viene allora da chiedersi quale sarebbe l’alternativa possibile.
In primo luogo, tenuto conto che il debito pubblico è una grandezza stock, esso andrebbe rapportato ad una variabile con le medesime caratteristiche; ad esempio, con lo stock di ricchezza detenuto dalle famiglie e dalle organizzazioni non profit, come evidenziato dalla Figura 4:
Figura 4: Debito Pubblico/Ricchezza privata delle famiglie in termini percentuali
Dal 2011 al 2022, il valore medio del rapporto Debito Pubblico/Ricchezza privata delle famiglie nell’Eurozona oscilla intorno al 30%, con Italia, Francia e Germania che si attestano su livelli ad esso inferiori. Tuttavia, è possibile asserire che un valore del 30% del rapporto Debito pubblico/Ricchezza privata delle famiglie possa essere sostenibile? Naturalmente lo stesso quesito potrebbe essere posto con riguardo al valore del 60% del rapporto Debito pubblico/PIL.
Come noto, la sostenibilità non è un concetto statico ma dinamico, definendosi come la capacità di sostenere un onere nel tempo. Qualora il debito pubblico fosse rapportato al PIL, partendo dall’equazione (2) e scorporando la componente degli interessi dall’indebitamento netto, è possibile ricavare la condizione di sostenibilità del rapporto Debito pubblico/PIL ossia:
con rt che indica l’onere del debito[1].
A tale riguardo, è opportuno evidenziare che ciò che ha reso particolarmente vulnerabili i debiti pubblici in alcuni Paesi è stata proprio la bassa crescita posta a confronto con saggi di interesse spesso elevati in conseguenza del combinato di politiche monetarie restrittive e della speculazione internazionale. Di conseguenza, Paesi che presentavano elevati livelli di debito pubblico con bassi tassi di crescita economica sono stati costretti ad accumulare considerevoli livelli di avanzo primario[2].
Ad ogni modo, esaminando il saggio medio di variazione della ricchezza delle famiglie in confronto all’onere medio implicito dei debiti pubblici nell’Eurozona, si nota come, dal 2015 al 2022, il primo sia sempre stabilmente superiore al secondo, come mostrato in Figura 5:
Figura 5: Crescita ricchezza vs onere del debito in termini percentuali
A nostro avviso, una proposta di politica economica più coerente ed equilibrata per valutare la sostenibilità del debito pubblico dovrebbe integrare, in maniera combinata, il tasso di crescita dell’economia, valorizzando così la componente di flusso legata al PIL, e la variazione dello stock di ricchezza[3], che include la componente fondo. Tuttavia, è evidente che, in ogni periodo, alcune variazioni degli stock sono legate alla crescita del PIL. Ad esempio, la crescita del valore delle attività finanziarie (misurato dall’aumento della ricchezza) può derivare sia da un mutamento dei corsi finanziari sia da un incremento di reddito disponibile (misurato dalla crescita del PIL). Pertanto, la variazione della ricchezza al tempo “t” deve essere depurata, disaggregando al massimo i settori istituzionali, dalle componenti legate alla variazione del PIL nel medesimo periodo, al fine di evitare un doppio conteggio.
Considerazioni finali
In conclusione, la riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) recentemente approvata continua a reiterare i medesimi errori strutturali che hanno afflitto il quadro fiscale dell’Eurozona fin dalla sua nascita, ignorando le lezioni inflitte dalle due recessioni: quella del 2009, legata alla crisi dei debiti sovrani indotta dall’uso disinvolto dei titoli tossici, e quella del 2020, connessa allo shock pandemico. La rigidità nel mantenere il rapporto Debito Pubblico/PIL al 60% e la soglia del 3% per il deficit pubblico/PIL, senza considerare adeguatamente le dinamiche cicliche dell’economia e la variazione dello stock di ricchezza, limita gravemente la capacità degli Stati membri di adottare politiche fiscali efficaci in risposta alle fasi avverse del ciclo economico. Un approccio più sensato e realistico dovrebbe, invece, considerare congiuntamente il tasso di crescita dell’economia e la variazione dello stock di ricchezza, per fornire una misura più accurata della sostenibilità del debito pubblico. Solo attraverso una revisione profonda e coraggiosa delle regole esistenti si potrà costruire un sistema fiscale in grado di promuovere non solo la stabilità, ma anche una crescita economica sostenibile e una maggiore resilienza agli shock futuri. È auspicabile che la nuova Governance europea recentemente insediatasi riconsideri l’adozione di una visione più flessibile e innovativa, abbracciando nuove prospettive economiche volte a favorire il benessere dell’intera Eurozona. Questo rappresenterebbe un passo propedeutico ad una reale integrazione fiscale.
Bibliografia
- Bossone, B. (2024) Come potremmo ridurre il debito pubblico con l’aiuto della Banca d’Italia. Economia e Politica
- Domar, E. D. (1944) The “burden of the debt” and the national income. The American Economic Review, 34(4), 798-827.
- Mundell, R. A. (1961) A theory of optimum currency areas. The American economic review, 51(4), 657-665.
- Musgrave, R.A. (1959) The Theory of Public Finance: A Study in Public Economy. McGraw-Hill, New York.
- Servizio Studi Camera dei Deputati – Dipartimento affari esteri (A), U.R. con l’Unione E. (2012) I contenuti del trattato sul fiscal compact, Camera dei deputati Dossier ES1178. https://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/es1178.htm?utm_source=chatgpt.com (data ultima consultazione: 20 luglio 2024).
[1] L’onere del debito può essere espresso in termini reali o nominali in maniera corrispondente rispetto al tasso di crescita dell’economia.
[2] A tale riguardo il modello di Domar (1944) fissa tale livello di avanzo primario in g-r⁄1+g Dt-1
[3] Per completezza andrebbe anche considerato lo stock di ricchezza pubblica. In questo saggio, per difficoltà di reperimento di dati omogenei relativi allo stock di ricchezza pubblica, ci siamo limitati allo stock di ricchezza detenuto dalle famiglie.