L’apertura del semestre italiano di presidenza dell’Unione e l’insediamento di Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione non hanno introdotto elementi di novità sostanziale nell’approccio alle questioni europee più stringenti.
Lo stesso dibattito che si è sviluppato sul tema della crescita non innova il tradizionale cliché sulla “naturalità” delle politiche di rigore. Di più c’è soltanto l’accento che viene posto sulla necessità che paesi come l’Italia accelerino con le cosiddette «riforme strutturali», poste a condizione per un’improbabile flessibilità da applicarsi alla gestione dei conti pubblici (dall’«austerità espansiva» all’«austerità flessibile», per utilizzare l’espressione coniata da Riccardo Realfonzo). Il che costituisce un’aggravante, se si considerano gli effetti recessivi ed antisociali che tali riforme potrebbero avere.
Intanto i dati che provengono dall’economia annunciano burrasca e smentiscono le pur prudenti previsioni del governo di qualche mese addietro. Secondo Bankitalia il 2014 farebbe registrare una crescita vicina allo zero (0,2%), dunque molto al di sotto delle recenti stime dell’Istat (+0,6%), decisamente lontana dallo 0,8% prefigurata nell’ultimo Documento di Economia e Finanza (Def). E c’è da giurare che tale sarà l’andamento della nostra economia nei prossimi anni se non si metterà fine alle politiche di austerity, le quali, è bene ricordarlo, hanno messo benzina nel motore della crisi anziché frenarne la corsa.
Se si pensa che lo slittamento di un anno del pareggio strutturale di bilancio (Mto) era stato chiesto sulla base di stime sul Pil ben più rosee dei dati che si stanno effettivamente materializzando, come farebbe il nostro paese ad assicurarne il conseguimento nelle condizioni date e, addirittura, alla scadenza originaria del 2015?
Stante l’andamento dell’economia, inoltre, è possibile che il nostro paese soddisfi nei tempi richiesti (valutazione di conformità della Commissione fissata al 2015) la «regola del debito», avviando l’abbattimento della quota del rapporto debito/PIL in eccesso rispetto al valore del 60%?
E’ del tutto evidente, a meno che non si voglia scientemente trascinare il paese in una situazione di estremo disfacimento economico e sociale, che tali impegni non sono sostenibili, né oggi né nel prossimo futuro: si imporrebbero surplus primari per i prossimi anni ben più consistenti di quelli già parecchio ambiziosi fissati nel Def 2014.
In questo quadro il referendum promosso da un gruppo di economisti, che si prefigge l’abrogazione di alcune parti della legge 243/2012, quella che ha dato attuazione al principio del pareggio di bilancio di cui all’articolo 81 della Costituzione (non potrebbe riguardare il Trattato in quanto tale e sarebbe inammissibile per la norma costituzionale), assume un duplice significato positivo.
Nel merito mira a conseguire, nell’immediato, alcuni obiettivi “minimi”, ancorché sostanziali, di revisione dell’attuale quadro normativo interno che ha inasprito i vincoli derivanti dal fiscal compact (margini del saldo strutturale, obiettivo di medio termine, meccanismi di correzione automatica) e ad aprire spazi di flessibilità “reale” a governance invariata (ricorso all’indebitamento per realizzare operazioni relative alle partite finanziarie anche in assenza di casi straordinari).
Soprattutto, però,potrebbe servire ad aprire una grande discussione pubblica nel paese sul futuro delle nostre istituzioni, della nostra economia, della nostra partecipazione al processo di costruzione dell’Europa unita. Non solo: servirebbe anche a “democratizzare” ex post il processo decisionale sulle grandi scelte che hanno vincolato il nostro paese all’Unione economica e monetaria, ovvero al modello di costruzione europea che si è venuto ad affermare da Maastricht in giù.
Non dimentichiamo che l’adesione, con annessa ratifica parlamentare, del nostro paese alle regole del nuovo patto di bilancio europeo è avvenuta in assenza di un dibattito politico adeguato e senza il coinvolgimento, anche solo indiretto, dei cittadini. Nemmeno le recenti elezioni per il rinnovo del parlamento di Strasburgo, che pure hanno fatto fare un passo in avanti al dibattito sulla prospettiva europea, sia in Italia che negli altri paesi dell’Unione, sono servite ad aprire un confronto democratico serio sulle cause e sugli effetti delle politiche di austerità e sulla sostenibilità dell’attuale modello di integrazione comunitaria.
Eppure le regole di cui parliamo, che strutturano l’attuale governance economica europea, hanno di fatto esautorato i governi ed parlamenti nazionali nelle loro fondamentali prerogative costituzionali in materia di bilancio e di politiche economiche.
Il referendum potrebbe rimediare ad un deficit di consapevolezza dei cittadini sulle implicazioni del nostro «stare in Europa» alla condizioni date, rompendo il muro del silenzio e della mistificazione che è stato costruito intorno a questo tema, aprendo parimenti la strada ad un radicale ripensamento dell’attuale modello di costruzione euro-monetaria.
In ciò la penso esattamente come Luciano Gallino: «Più se ne parla, meglio è. E’ importante che un buon numero di cittadini si renda conto dei problemi in cui siamo, oscurati dal silenzio dei media».