Sono rimasti in pochi a non riconoscere che le misure europee di austerity si sono rivelate quantomeno dannose. Ora, il vero nodo della discussione è un altro: l’Unione economica e monetaria europea (Uem) è riformabile o no? È possibile risolvere dall’interno dell’euro quei problemi che hanno portato al collasso la Grecia e che hanno drasticamente ridotto la base industriale e impoverito la gran parte della popolazione dell’eurozona? Vogliamo provare a rispondere a questa domanda basandoci sui nudi fatti, partendo dall’esperienza del governo di Syriza in Grecia e del Quantitative easing (Qe) della Bce.
Un governo sotto ricatto
Il governo Tsipras è stato eletto con il mandato di eliminare l’austerity che sta soffocando la Grecia. A tale scopo, ha intrapreso una strada tutt’altro che estremista, la rinegoziazione dei vincoli di bilancio con i governi europei. A distanza di qualche mese i referenti diretti del governo greco continuano ad essere organismi “tecnici” sovrannazionali, il Fondo monetario internazionale (FMI) e soprattutto la Bce. Quindi, non i governi nazionali, bensì una delle istituzioni europee, priva della seppur minima legittimazione democratica. Il governo greco è stato costretto, sin dall’inizio, all’interno di un ricatto da parte della Bce, che ha rifiutato di accettare dalle banche greche i titoli di stato come collaterale per avere accesso alla liquidità emessa con il Qe. L’erogazione della liquidità necessaria a far funzionare la macchina dello stato è stata condizionata alla accettazione di un piano di “riforme”, che comprendono l’ulteriore riduzione delle pensioni (ora a stento pari al 50% dell’ultima retribuzione) e della spesa sociale, e che suonano provocatorie in una situazione di emergenza sociale come quella greca. Tali controriforme contraddirebbero in pieno il mandato degli elettori, determinando il suicidio politico di Syriza stessa, per usare le parole di Panagiotis Lafazanis, esponente dalla sinistra di Syriza e ministro del governo Tsipras.
Dopo mesi di trattative, la Bce ha recentemente riaffermato il medesimo concetto: sta al governo greco, mediante l’accettazione dei diktat europei, risolvere i problemi di liquidità che stanno per strangolare la Grecia. Infatti, il Paese mediterraneo, tra maggio e giugno dovrà restituire 2,5 miliardi sempre all’FMI e tra luglio e agosto ben 7,5 miliardi alla Bce. Visto che il governo greco al momento avrebbe in cassa circa 2 miliardi, c’è poca scelta. O l’insolvenza (e il default) o pagare gli stipendi e le pensioni. A meno che il governo greco non riceva altri fondi dall’Europa, dopo aver presentato un piano di “riforme” che siano accettabili per la Bce, ma non ovviamente per il suo elettorato. C’è da domandarsi se da parte della Bce e degli altri governi europei non ci sia l’intenzione deliberata di spingere la Grecia verso l’uscita dall’euro. Un segnale in questo senso sarebbe la valutazione da parte del governo greco della possibilità di emettere dei “pagherò”, con cui verrebbero corrisposti gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni[1]. Ciò significherebbe l’avvio di una valuta parallela e forse l’anticamera del ritorno alla dracma. È possibile anche che i mercati dei capitali, cioè banche e fondi, valutino che l’enorme liquidità che la Bce getterà sul mercato fino all’autunno 2016 possa offrire il contesto adatto a liberarsi della Grecia. Del resto, i debiti greci non sono più detenuti dalle banche tedesche e francesi, come nel 2012, ma dagli Stati europei (l’Italia detiene crediti per 40,9 miliardi). La liquidità immessa dalla Bce permetterebbe di gestire il contagio sui titoli di stato degli altri Paesi determinato da una uscita della Grecia, eliminando il contagio più pericoloso, quello politico rappresentato da un paese il cui elettorato ha messo oggettivamente in discussione i meccanismi di funzionamento della Uem.
Un Qe che si conferma per i profitti e i guadagni di borsa
Come avevamo previsto[2], l’impatto del Qe sull’inflazione e sullo spread tra titoli tedeschi e italiani si sta rivelando quasi nullo, mentre gli effetti sulla occupazione e sull’economia saranno, bene che vada, minimi. Il problema è che la liquidità non si sta indirizzando verso il sostegno alla domanda interna, ma verso il sostegno all’export e, quindi, ai profitti delle imprese multinazionali e alla capitalizzazione di borsa.
Infatti, l’effetto principale del Qe, attraverso l’immissione di una massiccia liquidità, è stato il deprezzamento dell’euro rispetto alle valute dei suoi partner commerciali. In particolare, l’euro ha perso rispetto al dollaro il 12%, dall’annuncio del Qe nell’agosto scorso, e il 5%, dall’inizio del Qe il 9 marzo, arrivando a toccare 1,04, il livello di cambio sul dollaro più basso dal 2002. La svalutazione dell’euro ha ridotto i prezzi delle merci prodotte in Europa, determinando un aumento delle esportazioni[3] e, di conseguenza, una crescita dei profitti delle grandi imprese multinazionali, in cui sono concentrate la gran parte delle esportazioni, soprattutto extra-Ue[4]. Minimi sono, invece, i vantaggi per le micro-imprese e Pmi, che sono attive soprattutto sui mercati domestici e che, però, generano la maggior parte dell’occupazione[5]. Secondo gli analisti di S&P Capital Iq, nel 2015 i profitti delle prime 350 società quotate europee aumenteranno del 14%, a fronte del +0,32% delle prime 500 società statunitensi. Era dal 2011 che in Europa non si registrava una crescita generalizzata dei profitti per azione. La previsione di alti profitti ha determinato un aumento dei valori azionari e il boom delle borse dell’area euro, la cui capitalizzazione complessiva è cresciuta di 280 miliardi. Tranne Atene, tutte le borse hanno guadagnato, con in testa la borsa tedesca (+26,2% da gennaio, +7,13% nell’ultimo mese), seguita a ruota dalla borsa italiana ( +25,59% da gennaio). In aggiunta, il Qe ha determinato, mediante i massicci acquisti di titoli di stato, anche una crescita del loro prezzo, portando ad rivalutazione complessiva dei titoli della zona euro di ben 80 miliardi di euro. Sommando la crescita del valore delle borse e quella dei titoli di stato sono 360 miliardi di euro, creati dal Qe di Draghi, che i detentori di azioni e titoli di stato hanno incamerato in un solo mese[6].
Il Qe dimostra che la crisi di profittabilità, nella quale da tempo si dibatte il centro più sviluppato del mondo capitalistico, viene affrontata sempre con il medesimo strumento, la leva finanziaria. Si tratta di una momentanea boccata di ossigeno, che porta alla creazione di bolle, che prima o poi scoppiano, restituendoci una situazione economica e sociale peggiore di prima. Oggi tocca all’Europa e al Giappone dare questa boccata di ossigeno, mentre dallo scoppio della crisi fino a poco tempo fa era toccato agli Usa e alla Gran Bretagna. I veri beneficiari del Qe sono i grandi investitori di borsa, che spostano centinaia di milioni attraverso i mercati finanziari mondiali, e le imprese transnazionali, che hanno un piede in tutte e due le sponde dell’Atlantico. L’importante, affinché il gioco duri, è che ci sia sempre qualcuno che immetta liquidità da una parte o dall’altra delle due sponde oceaniche.
Una Uem irriformabile
La Grecia è più esposta sia ai colpi della crisi sia ai ricatti della Bce a causa della fragilità della sua struttura economica. Infatti, l’economia greca registra, tra i Paesi dell’eurozona, la più bassa incidenza della manifattura sul totale del valore aggiunto dell’economia, il 9,7% contro il 16,1% medio dell’eurozona (2012), e si basa su settori come il commercio e il turismo, che hanno un incidenza del 20,2% contro il 15,2% dell’eurozona, e che danno un minore contributo alla crescita del Pil e delle esportazioni[7].
Comunque, a parte le specificità strutturali della Grecia, il dato principale che emerge dai fatti esposti sopra è quello dell’impotenza del governo greco, dovuta all’aver perso il controllo sulla emissione di valuta. Tale controllo, con l’adesione all’Uem, è stato delegato alla Bce, che statutariamente è indipendente. Ciò provoca due tipi di problemi al governo greco e a qualunque altro governo europeo. Il primo sta nel fatto che è la Bce a decidere se, quando e quanti titoli di stato acquistare, sottraendo così ai governi una leva fondamentale per alleggerire la pressione del debito. Il secondo sta nel fatto che, se la Bce svaluta, si generano effetti benefici solo tra la Uem e l’esterno e non all’interno della Uem stessa, dove c’è una medesima valuta, malgrado la contabilità sia nazionale e i divari di competitività siano accentuati. La svalutazione, quindi, non può più essere usata per riequilibrare gli squilibri tra le bilance dei conti correnti e degli scambi commerciali tra i Paesi all’interno dell’eurozona. Anzi, la svalutazione dell’euro avvantaggia in proporzione di più quelli che sono già forti esportatori manifatturieri, come la Germania. Il vero problema, infatti, non risiede nella bilancia commerciale tra eurozona e estero, che è da sempre in attivo[8], ma negli squilibri interni all’eurozona, che vedono la Germania, e pochi altri Stati suoi satelliti, avere forti attivi commerciali e delle partite correnti e il resto dei Paesi dell’eurozona avere viceversa forti deficit commerciali, specie nei confronti della Germania, che si ripercuotono negativamente anche sul Pil e sulla gestione del debito.
Dunque, stando a quanto abbiamo osservato, la possibilità di una riforma dall’interno della Uem appare molto improbabile se non impossibile. I meccanismi della Uem sono congegnati in modo tale da impedire ai singoli governi di forzare i limiti che l’Uem stessa si è data. Non è possibile pensare di vincere in un gioco in cui le regole e il perimetro del campo sono definiti da uno solo dei giocatori. Pensare ad una Europa che sia altra da quella attuale non può non fare i conti con il problema della riformabilità o irriformabilità della Uem.