La Commissione europea ha di recente imposto al governo italiano di approvare una nuova manovra correttiva per ridurre il proprio deficit di bilancio. In altre parole, ci viene chiesto ancora una volta di rispettare rigidi vincoli sui conti pubblici con l’obiettivo dichiarato di abbattere progressivamente il debito pubblico[1].
1. Politica fiscale e Commissione europea
Dietro queste “raccomandazioni” si celano teorie economiche di ispirazione neoclassica che la stessa Commissione europea ha richiamato espressamente nei propri documenti ufficiali[2]. Secondo queste teorie, infatti, un’espansione del deficit finanziata a debito può influenzare negativamente la crescita principalmente attraverso due canali:
(1) L’effetto “spiazzamento” (o crowding out), secondo cui una politica fiscale espansiva (come, ad esempio, un incremento della spesa pubblica) non fa che “spiazzare” la spesa privata, facendola ridurre talmente tanto da controbilanciare gli effetti positivi della manovra economica. La politica fiscale espansiva finirebbe, infatti, col determinare in vario modo un aumento dei tassi di interesse, con la conseguenza di scoraggiare gli investimenti (che sono diventati appunto più costosi da finanziare) e i consumi (diventati una scelta meno conveniente rispetto al risparmio, ora remunerato con tassi più alti)[3].
(2) Le dinamiche descritte dal teorema dell’equivalenza di Barro-Ricardo, secondo cui un maggiore debito pubblico necessario a finanziare politiche fiscali espansive indurrebbe famiglie e imprese a prevedere un futuro aumento della pressione fiscale per ripianare il debito. Queste previsioni si tradurrebbero in una riduzione dei consumi e in un incremento del risparmio nel presente, chiaramente con effetti negativi per la domanda complessiva e la crescita.
Alla luce di queste tesi, molti paesi industrializzati continuano ad adottare politiche di austerity oppure, anche quando adottano politiche espansive per rilanciare la crescita, lo fanno cercando di contenere il più possibile l’espansione del deficit e controllare la crescita del debito pubblico.
2. Austerità, crescita economica e debito pubblico
Molti sono stati i tentativi di dimostrare la dannosità di un elevato debito pubblico, ma anche con risultati molto opinabili. Si pensi soprattutto al celebre Growth in a time of debt (2010) di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, secondo cui un debito superiore al 90% del Pil generalmente si associa a tassi di crescita economica negativi. Come già spiegato su Economia e Politica, lo studio è stato clamorosamente smentito e rovesciato nelle sue conclusioni da Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin che vi hanno individuato addirittura errori di calcolo e di metodo[4].
Alla base di queste discutibili tesi neoclassiche vi sono, infatti, ipotesi teoriche parecchio ardite come l’esistenza di aspettative razionali e la convinzione che investimenti e risparmi dipendano quasi esclusivamente dal tasso di interesse. Nella realtà, invece, gli agenti economici non utilizzano sempre in modo efficiente le informazioni a disposizione e, al contrario, le loro scelte vengono effettuate per lo più in condizioni di “incertezza”[5]. Risparmi e investimenti, inoltre, sono influenzati in modo rilevante da fattori diversi, oltre che dal tasso di interesse. Il risparmio, ad esempio, dipende dal reddito disponibile degli individui, prima che dal suo rendimento, e gli investimenti dipendono dalle aspettative di profitto degli imprenditori, prima che dal costo del denaro[6].
Ma se vengono a mancare le ardite ipotesi teoriche neoclassiche, è chiaro che le sequenze descritte in precedenza per l’effetto spiazzamento e per il teorema dell’equivalenza ricardiana non sono più valide[7]. Di conseguenza, gli impianti teorici che stanno alla base di normative come quelle dei vincoli europei o del tetto al debito pubblico degli Usa non possono che venir meno[8].
Come ha dovuto ammettere ormai anche la maggior parte degli economisti mainstream, l’austerità ha avuto effetti negativi sulla crescita economica e la ricetta giusta per uscire dalla crisi è sopperire alla carenza di domanda privata con la politica fiscale[9]. In altre parole, in un periodo durante il quale consumi ed investimenti privati faticano a crescere, è lo Stato che deve intervenire con politiche espansive, in particolare aumentando la spesa pubblica per stimolare direttamente la domanda. Date le attuali condizioni di sottoutilizzo della capacità produttiva, è altamente probabile che lo stimolo fiscale incrementi a sua volta anche consumi ed investimenti privati, perché l’impatto positivo dell’aumento del reddito sarebbe superiore all’impatto negativo dell’aumento dei tassi di interesse. Effetti quindi opposti al crowding out. Dal punto di vista teorico, ed in completa contrapposizione al pensiero neoclassico, il debito pubblico può mostrarsi quindi associato ed effetti di crowding in. Per usare la definizione di Baumol e Blinder (2010, p. 311), “il crowding in si verifica quando la spesa pubblica, aumentando il PIL reale, induce incrementi anche nella spesa in investimenti privati”. Grazie all’effetto moltiplicatore, infatti, la politica espansiva genera un aumento più che proporzionale dell’output, innescando un circolo virtuoso: maggiore produzione, maggiori investimenti e maggior capacità produttiva. Negli ultimi anni, infatti, anche economisti mainstream come Stiglitz e istituzioni “rigoriste” come il Fondo monetario internazionale stanno facendo appello al concetto di crowding in per incoraggiare i policy maker a fare più deficit per finanziare investimenti pubblici e stimolare la crescita economica[10].
3. Debito pubblico e crescita
Queste tesi, inoltre, hanno trovato un recente riscontro empirico in uno studio condotto da Mattia Guerini, Alessio Moneta, Mauro Napoletano e Andrea Roventini, The Janus-Faced Nature of Debt: Results from a Data-Driven Cointegrated SVAR Approach (Guerini et al. 2017). Gli autori fanno una stima degli effetti del debito pubblico e privato sull’attività economica negli USA, utilizzando una metodologia innovativa sull’identificazione di relazioni causa-effetto. Vengono utilizzati modelli SVAR (Structural Vector Autoregressive) cointegrati e le relazioni strutturali vengono identificate usando algoritmi di ricerca causali data-driven, in modo da identificare gli shock del debito pubblico “lasciando parlare i dati” e senza ricorrere a procedure ad-hoc fondate su teorie economiche scelte a priori.
I risultati dello studio suggeriscono che gli shock del debito pubblico influenzano in modo positivo e persistente l’output. In particolare, maggior debito pubblico avrebbe un effetto di crowding in su consumi ed investimenti privati stimolando la crescita economica sia nel breve che nel medio periodo. Secondo la ricerca, infatti, le possibili minacce alla crescita di medio-lungo periodo non provengono dal debito pubblico ma da quello privato. Come precisano gli autori dello studio, la stessa crisi del 2008 non è stata provocata da conti pubblici in disordine, ma dallo scoppio della bolla del debito privato che, solo successivamente ai necessari salvataggi pubblici, si è tramutata in una crisi del debito sovrano.
Alla luce del fatto che il dibattito sugli effetti del debito pubblico sulla crescita economica è aperto e per nulla univoco, è necessario che autorità politiche come la Commissione europea mettano da parte teorie controverse come quelle di ispirazione neoclassica descritte in precedenza e, seguendo una tendenza che timidamente hanno cominciato ad abbracciare anche gli economisti mainstream, riconoscano l’esigenza di politiche espansive nei paesi in difficoltà[11]. Il debito pubblico rappresenta certamente una variabile importante che va stabilizzata in una lungimirante ottica di lungo periodo, ma non dev’essere usata come pretesto per giustificare politiche economiche che si sono mostrate dannose e controproducenti.
*Dottorando in Economia Politica all’Università del Sannio
Riferimenti bibliografici
Allsopp, C. and Vines, D. (2015), “Monetary and fiscal policy in the Great Moderation and the Great Recession”, Oxford Review of Economic Policy;
Barrios S., Iversen P., Lewandowska M., Setzer R. (2009). “Determinants of Intra-Eurozone Bond Spreads During the Financial Crisis.” European Economy, Economic Paper 388;
Baumol J. and Blinder S., “Macroeconomics: Principles and Policy, 11th Edition”, 2010 Update, South-Western, Cengage Learning;
Blanchard O., Leigh D., “Are We Underestimating Short-Term Fiscal Multipliers?” in International Monetary Fund, World Economic Outlook: Coping with High Debt and Sluggish Growth, Washington, 2012, pp. 41-43;
Cavalieri D., “Teoria economica. Un’introduzione critica, II Ed.”, Giuffrè Editore, 2009, p. 418;
Davanzati G. F., Pacella A., Realfonzo R. (2009). “Fiscal policy in the monetary theory of production: an alternative to the ‘new consensus’ approach, Journal of Post Keynesian Economics”, Vol. 31, No. 4 605, p. 617;
European Commission (2010), Public Finances in EMU, European Commission: Brussels, Belgium, p. 2;
Guerini M., Moneta A., Napoletano M., Roventini A. (2017). The Janus-Faced Nature of Debt: Results from a Data-Driven Cointegrated SVAR Approach, available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=2903143 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2903143;
Gros D. (2013). “Foreign debt versus domestic debt in the euro area”, Oxford Review of Economic Policy, Oxford University Press, Oxford University Press, vol. 29(3), pages 502-517, AUTUMN;
Hemming R., Kell M., Mahfouz S. (2002). “The Effectiveness of Fiscal Policy in Stimulating Economic Activity: A Review of the Literature”, Working Paper no. 02/208, International Monetary Fund, Washington DC, p. 36;
International Monetary Fund (2010). Global Financial Stability Report (April). Washington, DC;
International Monetary Fund (2014).World Economic Outlook, Chapter 3: Is it time for an infrastructure push? The macroeconomic effects of public investment, pp. 75-114;
Stiglitz, J. E. (2012), “Stimulating the Economy in an Era of Debt and Deficit”, The Economists’ Voice, 9;
Taylor, J (1993). “Discretion versus policy rules in practice”, CarnegieRochester Conference Series on Public Policy, no 39, pp 195–214.
[1] Il complesso quadro normativo prevede in particolare parametri istituiti con il Trattato di Maastricht nel 1992 come il vincolo di un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil, oltre che il c.d. Six Pack entrato in vigore nel 2011 che ha dato maggiori poteri di controllo preventivo alla Commissione europea ed introdotto sanzioni per chi non rispetta le regole che possono arrivare fino allo 0,5% del Pil (7/8 miliardi per un Paese come l’Italia). Sulla stessa linea si muove il Fiscal Compact approvato nel 2012 che introduce l’obbligo di pareggio di bilancio in termini strutturali (cioè al netto dell’andamento del ciclo economico) allo 0,5% del Pil.
[2] Ad esempio in: European Commission (2010), p. 2.
[3] Uno dei meccanismi sarebbe ad esempio il seguente: la manovra espansiva provoca una crescita dell’output e delle aspettative di inflazione che spingerebbero la Banca centrale ad aumentare i tassi di interesse per contrastare la crescita dei prezzi. La sequenza descritta è quella presente nella maggior parte dei modelli economici adottati oggi da banche centrali ed istituzioni nazionali e sovranazionali e trova le sue basi nella c.d. “Regola di Taylor” (Taylor 1993). Un’altra modalità con cui una politica fiscale espansiva potrebbe provocare un aumento dei tassi di interesse riguarda la crescita della domanda di moneta stimolata dall’incremento del Pil; gli individui desiderosi di spendere il maggior reddito prodotto vendono titoli in portafoglio con la conseguenza di provocarne un eccesso di offerta e quindi una riduzione del prezzo; data la relazione inversa fra le due variabili, la riduzione del prezzo dei titoli spinge in alto i tassi di interesse. Infine, vale la pena citare anche il seguente meccanismo: l’emissione di titoli di Stato entrerebbe in concorrenza con i titoli emessi dai privati. Dato che lo Stato viene generalmente classificato come un debitore maggiormente solvibile rispetto ad un’impresa privata, i costi di finanziamento che dovranno affrontare i privati sono destinati a crescere. In tutti questi casi, l’effetto finale è sempre lo stesso: i tassi di interesse crescono e, secondo i teorici dell’effetto spiazzamento, scoraggerebbero consumi e investimenti.
[4] Esistono poi numerosi altri studi dedicati ad individuare una soglia oltre la quale il debito pubblico può essere considerato dannoso per la crescita economica. Secondo Guerini, Moneta, Napoletano, Roventini (2017), però, questi lavori presentano di solito problemi di carattere econometrico a causa dei consueti problemi di endogeneità e dell’utilizzo di dati panel che assumono, implicitamente, una certa omogeneità tra paesi diversi negli effetti causali tra le variabili in questione.
[5] Secondo il pensiero di Keynes, infatti, “l’instabilità del sistema è intrinseca e legata in larga misura all’incertezza delle aspettative” (Cavalieri D. 2009, p. 418).
[6] Questa visione parte dall’assunto teorico secondo il quale il tasso di interesse corrisponda al prezzo al quale la domanda e l’offerta, ossia gli investimenti e il risparmio, si equilibrano. Secondo gli economisti più vicini al pensiero di Keynes, al contrario, il tasso d’interesse costituisce una variabile esogena, essendo difficile stabilire un nesso causale tra investimenti e risparmi, non determinata dall’uguaglianza tra le due variabili.
[7] Il teorema dell’equivalenza ricardiana e l’effetto spiazzamento non trovano un gran riscontro neanche dal punto di vista empirico. Secondo Hemming, Kell e Mahfouz (2002), “ci sono poche prove a sostegno di un crowding-out diretto o tramite tassi di interesse e tasso di cambio. Neanche la piena equivalenza ricardiana o una significativa compensazione parziale ottiene molto sostegno dalle prove” (Hemming R., Kell M., Mahfouz S., 2002, p. 36).
[8] Un’altra tesi spesso chiamata in causa è quella dell’incremento del rischio percepito sulla solvibilità di un debito pubblico sempre più elevato. Un rischio più alto porta ad interessi più elevati che lo Stato deve corrispondere ai suoi finanziatori e, dunque, ad un indebitamento maggiore che innesca un circolo vizioso. Si noti però che la relazione tra crescita del debito pubblico e crescita del rischio percepito non è affatto così diretta e scontata. È sufficiente, ad esempio, chiamare in causa il possibile intervento della Banca centrale che può garantire domanda ai titoli del debito pubblico e, di conseguenza, può garantire anche il contenimento dei tassi di interesse con cui lo Stato remunera i propri finanziatori. Senza contare che per quanto riguarda il rischio default, l’attenzione va spostata su altre variabili come ad esempio il debito estero. Numerosi studi sottolineano infatti l’importanza del debito estero come indicatore di potenziale insolvenza di un Paese e l’esistenza di un collegamento tra partite correnti e spread. Si pensi, ad esempio, a Barrios, Iversen, Lewandowska e Setzer (2009), al Global Financial Stability Report di aprile 2010 del Fondo Monetario Internazionale oppure, con riferimento all’eurozona, a Gros (2013).
Vale la pena ricordare anche la tesi del c.d. conflitto intergenerazionale, secondo cui un aumento di spesa pubblica oggi comporta sempre e solo un impoverimento dei propri figli domani. Quello che questa ipotesi trascura è il fatto che un incremento del reddito oggi corrisponde comunque a maggiori lasciti domani e soprattutto che “è impossibile prevedere quando, come, e in favore di quali i gruppi sociali la fiscalità verrà messa in funzione per ridurre il debito pubblico di oggi” (Davanzati, Pacella e Realfonzo 2009, p. 617).
[9] Celebre l’ammissione dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, nel 2012, quando riconosce gli errori di valutazione commessi dal suo istituto nello stimare gli effetti dell’austerità durante la crisi ed, in particolare, il valore del c.d. “moltiplicatore fiscale” (Blanchard e Leigh 2012). Di recente, alcuni economisti mainstream si sono spinti fino a rivedere i propri modelli teorici. Allsop e Vines (2015), ad esempio, non rigettano in toto il proprio modello teorico di riferimento ma, alla luce dell’evidente fallimento delle ricette mainstream nell’affrontare la crisi economica, propongono modifiche importanti in cui il ruolo della politica fiscale diventa centrale per uscire dalla crisi. In questo modello adattato alle condizioni economiche attuali, la sopracitata “Regola di Taylor” viene omessa e, adottando l’assunto di imperfezione del mercato dei capitali e dell’esistenza di individui ed imprese con vincoli di liquidità, anche la tesi dell’equivalenza ricardiana viene rifiutata.
[10] Stiglitz (2012) chiede, ad esempio, maggiori investimenti pubblici in infrastrutture, tecnologia e istruzione rivendicando la capacità di investimenti pubblici ben definiti di aumentare anche il rendimento degli investimenti privati. Inoltre, nel World Economic Outlook del 2014 del Fondo Monetario Internazionale sono presenti studi in cui si dimostra come investimenti pubblici in infrastrutture hanno in genere effetti di crowding-in sugli investimenti privati nel lungo periodo grazie alla loro complementarietà.
[11] È chiaro, inoltre, che con la crescita bassa o negativa alimentata dall’austerity è difficile anche ridurre lo stesso debito pubblico che si vorrebbe controllare. Minor crescita comporta infatti minori entrate fiscali e maggiori spese sociali contro disoccupazione e povertà, senza contare che il Pil rappresenta il denominatore del famoso rapporto Debito pubblico – Pil (rapporto destinato a crescere se si riduce la variabile al denominatore).