Prosegue il dibattito suscitato dallo studio di Realfonzo e Viscione che ha messo in luce gli effetti positivi di una uscita dall’euro ma anche i rischi per il mondo del lavoro. Dopo gli interventi di Salvatore Biasco e del Keynes blog, secondo i quali è necessario permanere nell’euro per evitare conseguenze a loro avviso molto gravi, pubblichiamo un intervento diametralmente opposto di Gennaro Zezza. L’autore considera “apocalittiche” le posizioni di Biasco e del Keynes blog, ma ritiene anche eccessive le preoccupazioni di Realfonzo e Viscione sui rischi salariali e occupazionali, sostenendo che l’euroexit sia necessaria per praticare politiche di pieno impiego.
L’intervento di Realfonzo e Viscione sulle possibili conseguenze di una uscita dell’Italia dall’eurozona sta suscitando un certo dibattito. Il commento di Salvatore Biasco prefigura scenari apocalittici, dati dalle ripercussioni sui bilanci bancari del deprezzamento delle attività finanziarie in “nuove valute”. La redazione di Keynes blog sembra concordare con Biasco sulle conseguenze catastrofiche, per il sistema finanziario internazionale, di una rottura della eurozona, ed enfatizza il modesto impatto che la svalutazione di una “nuova valuta” avrebbe sulla crescita.
Uno dei motivi di maggiore preoccupazione, per Realfonzo e Viscione, è dato dall’impatto che la svalutazione conseguente all’uscita dall’eurozona avrebbe sui salari, preoccupazione confortata dalla loro analisi storica di precedenti episodi di crisi valutarie. Su questo punto c’è però da valutare quanto il permanere nell’eurozona costituisca un beneficio per i lavoratori, almeno in termini di salario. La risposta, come è evidente dal caso greco, è senz’altro negativa, ma su questo torneremo nel seguito.
Un aspetto che accomuna le diverse analisi citate è la convinzione per cui l’uscita di un Paese – in particolare dell’Italia – dall’ eurozona implicherebbe certamente una svalutazione della nuova lira, svalutazione di grandezza imprecisata, ma che molti indicano del trenta per cento rispetto all’euro (nel caso in cui l’Italia sia l’unico Paese ad uscire) o alla nuova valuta della Germania. Non c’è dubbio che vi siano dei differenziali di competitività di prezzo tra i Paesi dell’eurozona, ma questi sono dovuti in larga parte alla politica di compressione dei salari attuata in Germania nei primi anni dell’euro, mentre i divari di competitività tra Italia e Francia, o Italia e Spagna, sono molto più contenuti. Nel caso in cui l’eurozona si dissolva, è quindi altamente probabile che il nuovo marco tedesco si rivaluterebbe in modo consistente rispetto alla nuova lira, ma che la lira debba perdere valore rispetto al nuovo franco, o la nuova peseta, o al dollaro statunitense, è tutto da dimostrare.
Il tasso di cambio di una valuta dipende dalla sua domanda sui mercati internazionali rispetto all’offerta, e queste a loro volta dipendono dal saldo commerciale, da un lato, e dagli investimenti di portafoglio dall’altro. Per quanto riguarda il saldo commerciale italiano, non è affatto evidente che questo spingerebbe verso il deprezzamento della lira. Il saldo delle partite correnti italiane è migliorato sia per gli effetti della crisi – che deprime le importazioni – ma anche per la buona tenuta delle imprese italiani sui mercati internazionali, soprattutto quelli esterni alla zona euro. Ad esempio, in una ricerca recente[i] del Fondo Monetario Internazionale si nota che – nonostante gli indicatori di competitività basati sul costo del lavoro per unità di prodotto dovrebbero suggerire un tracollo dell’export italiano – la performance delle nostre imprese è stata di tutto rispetto, relativamente a quella di Paesi simili. La domanda di lire connessa alle nostre esportazioni potrebbe dunque più che compensare l’offerta di lire contro valuta necessaria per le importazioni.
La nuova lira potrebbe invece svalutarsi – dopo l’euroexit – se si consentono operazioni speculative sui mercati finanziari. E’ noto come questo tipo di scommesse speculative possano autorealizzarsi: se i mercati si aspettano una svalutazione della lira rispetto al nuovo marco tedesco, venderanno titoli in lire per acquistare titoli in marchi, aumentando quindi l’offerta di lire contro marchi e spingendo verso la svalutazione. A mio avviso, è questo il motivo per cui di recente il governo tedesco è riuscito a collocare titoli a tassi di interesse negativi: se l’acquirente americano si aspetta una rottura dell’euro, e una rivalutazione del nuovo marco del trenta per cento, il guadagno in conto capitale è elevato anche in presenza di tassi di interesse nulli.
Nella prima fase successiva all’euroexit, queste operazioni devono quindi essere regolamentate. Una volta stabilizzati i mercati finanziari, e mostrata la possibile stabilità della nuova lira rispetto al dollaro e alle altre valute (e ad un nuovo marco tedesco rivalutato), le regolamentazioni dei mercati finanziari possono essere riviste.
Se questo scenario di stabilità del valore della nuova lira è realistico, le argomentazioni di Biasco ed altri sui cataclismi nei bilanci bancari sono prive di fondamento. Come anche sono poco motivate le preoccupazioni di Realfonzo e Viscione sulla perdita di potere d’acquisto dei salari che seguirebbe la svalutazione della nuova lira.
Poiché alcuni argomentano a favore dell’euroexit perché ritengono indispensabile un riallineamento dei cambi, lo scenario che ho prospettato potrebbe deludere: se non si svaluta, perché abbandonare l’euro?
Perché un governo che intenda perseguire la piena occupazione (a salari dignitosi) come obiettivo primario non può farlo nell’ambito dei Trattati.
Nonostante gli sforzi per adeguarsi ai vincoli del Trattato di Maastricht, le economie periferiche dell’eurozona, al momento dell’adozione dell’euro, facevano registrare dei differenziali di inflazione con la Germania. In aggiunta, la Germania ha adottato – nei primi anni di vita dell’euro – una compressione dei salari e una precarizzazione del lavoro che ha comportato un periodo di bassa crescita, e ha ampliato i divari di competitività di prezzo. Nel mentre, la periferia dell’eurozona, che poteva beneficiare di tassi di interesse reali più bassi, ha fatto registrare tassi di crescita più elevati. Le differenze nei tassi di crescita e, in misura minore, nei divari di competitività, hanno implicato crescenti squilibri commerciali tra il “centro” (la Germania) e la “periferia”, che hanno retto fin quando il sistema finanziario del centro era disponibile a finanziare i crescenti debiti del settore privato greco, spagnolo, ecc. In assenza di meccanismi automatici di trasferimento fiscale nell’eurozona, e in mancanza di una seria politica di investimenti mirata a ridurre la dipendenza dall’estero di economie come quella greca, questi processi avrebbero portato ad una crisi anche in assenza di shocks esterni come la Grande recessione del 2007/8.
In aggiunta, la proibizione alla BCE del suo potenziale ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti dei governi costringe all’adozione di politiche di austerità fiscale come unico strumento per ridurre il rapporto tra debito e PIL dove questo è elevato, come in Italia.
Come fa notare Jan Kregel[ii], se consideriamo la nota identità contabile data dai saldi settoriali
S-I = DEF+CA
Dove S-I è il saldo tra risparmi ed investimenti del settore privato, uguale all’acquisizione netta di attività finanziarie; DEF è il deficit pubblico, e CA il saldo delle partite correnti, una politica di austerità fiscale che riesca ad annullare il deficit – a parità di saldo con l’estero – implica una caduta dei risparmi rispetto agli investimenti. Se questi ultimi si riducono, rafforzano l’effetto recessivo dell’austerità fiscale. Se viceversa a cadere sono solo i risparmi, la differenza investimenti e risparmi va inevitabilmente finanziata da parte del settore estero. Ma il settore privato sta oggi cercando di ridurre il suo livello di indebitamento, e cioè sta cercando di aumentare il saldo tra risparmi e investimenti. L’austerità fiscale può quindi funzionare solo se il saldo dei conti con l’estero migliora in modo da più che compensare l’austerità fiscale e il deleveraging del settore privato.
Queste compatibilità macroeconomiche sono ben chiare, e da qui l’enfasi sulle “riforme” che dovrebbero portare ad un aumento della competitività tramite la caduta dei salari e lo smantellamento del sistema del welfare. L’adesione all’euro non ha comportato solo la cessione della sovranità monetaria, ma anche la rinuncia all’utilizzo della politica fiscale (su questo punto sarà interessante verificare gli esiti delle trattative del nuovo governo greco) e l’adozione di politiche dei redditi che deprimono il salario, come dimostrato in modo eclatante dalla lettera di Trichet e Ordones a Zapatero nel 2011, da poco resa pubblica, in cui venivano elencati gli interventi da implementare con urgenza sul mercato del lavoro spagnolo.
Ma la contestuale riduzione dei salari nominali – e dei salari reali – in tutte le regioni di un’area commerciale integrata come l’eurozona lascia invariata la competitività di ogni Paese rispetto ai partners dell’area: l’unico impatto potenziale sull’export è dato quindi dal miglioramento nella competitività di prezzo rispetto ai Paesi extra-EZ.
La riduzione nei salari nominali è probabilmente più efficace nell’aumentare i margini di profittabilità, ma che questo implichi un aumento negli investimenti e nella crescita è tutto da dimostrare.
Un governo “di sinistra” che voglia rovesciare le priorità di policy non può quindi sopravvivere nelle regole dei Trattati: l’uscita dall’euro è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per ipotizzare politiche che ripristinino la centralità del lavoro.