La penisola balcanica e stata per lunghi anni un luogo d’incontro e scontro tra culture ed etnie diverse. Le pressioni internazionali da parte delle grandi potenze hanno inciso sulle politiche economiche e di sviluppo dell’area con conseguenze significative: una buona parte degli stati balcanici è ancora oggi caratterizzata da un futuro incerto sia per quanto riguarda la stabilità economica interna sia per quanto riguarda l’integrazione internazionale. È interessante notare che i primi stati balcanici che non hanno sofferto la dominazione turca sono stati anche i primi che sono entrati nell’UE (Slovenia nel 2004; Bulgaria e Romania nel 2007 e Croazia nel 2013). Macedonia, Montenegro, Serbia e ultimamente l’Albania hanno ottenuto lo status di paese candidato. Kosovo e Bosnia-Erzegovina devono fare ancora molta strada prima di iniziare il processo di integrazione. Bisogna comunque dire che tranne il Montenegro, che ha avviato i negoziati per far parte dell’UE, gli altri paesi con lo status di candidato non hanno ancora aperto i negoziati.
L’opinione pubblica interna ai paesi balcanici considera l’integrazione nell’UE come l’inizio di una nuova era. I nessi causali sottesi a questo ragionamento sono i seguenti: l’integrazione porterebbe alla stabilità politica, alla stabilità economica, alla riduzione della corruzione, all’aumento degli investimenti diretti esteri, alla crescita dell’occupazione e del benessere sociale per i cittadini.
Tuttavia, se si guarda ai rapporti intercorsi tra i paesi balcanici e i paesi dell’Unione Monetaria Europea negli ultimi anni, le ragioni di questo ottimismo dovrebbero molto ridimensionarsi. Nonostante una politica monetaria autonoma e un sistema bancario apparentemente incontaminato dai colossi globali della finanza, la crisi europea ha finito per coinvolgere anche i paesi balcanici.
In primo luogo, le istituzioni finanziarie italiane, greche e in alcuni casi anche quelle austriache e tedesche, nel corso degli ultimi 15 anni hanno svolto un ruolo molto importante in questi paesi, gestendo le privatizzazioni delle banche esistenti oppure tramite il finanziamento dell’economia. Sono oltre 2000 gli sportelli bancari con capitale sociale made in UE presenti nei Balcani. Le banche che hanno risentito della crisi hanno reso i finanziamenti più difficili, con criteri più rigidi spostando in alcuni casi i capitali verso i confini nazionali.
In secondo luogo, la maggior parte del commercio internazionale dei paesi Balcanici si svolge con i paesi dell’UE. Secondo i dati riportati dal Trade Map, oltre il 60% del volume dell’import-export va proprio nei paesi UE. Ciò ha rappresentato un canale di trasmissione della crisi che ha colpito i paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea.
In terzo luogo, si è assistito ad una riduzione degli investimenti sia interni sia diretti esteri. Ciò è avvenuto nonostante il persistere di politiche fiscali caratterizzate da aliquote molto basse per attirare gli investitori stranieri, come mostrano i dati del World Tax nel 2013.
Il calo degli investimenti interni si è verificato soprattutto nel periodo 2008-2010. Soffermiamoci su alcuni casi: in Albania gli investimenti erano 4,7 miliardi di dollari nel 2008, nel 2012 sono scesi a 3,9 miliardi di dollari, lo stesso ammontare del 2006. In Grecia sono passati da 82 miliardi nel 2008, a 52 nel 2010 per arrivare nel 2012 a 34 miliardi (lo stesso ammontare del 2002). La Serbia è passata da 14 miliardi nel 2008, a 6.4 miliardi nel 2010 per poi crescere di nuovo lievemente a 8.2 miliardi nel 2012[3]. Gli investimenti diretti esteri, hanno seguito un andamento incerto che, con l’eccezione della Bosnia-Erzegovina, appare preoccupante.
Oltre alla riduzione dell’esportazione verso UE e alla riduzione degli investimenti diretti esteri, in quasi tutti i paesi dei Balcani si nota un calo notevole delle rimesse dagli immigrati: in alcuni paesi come Albania, Kosovo e Macedonia dal 2007 fino al 2013 le rimesse sono dimezzate[4]
Anche il consumo ha registrato un calo molto importante: in Albania è sceso da 3484 dollari procapite nel 2008, a 2973 dollari procapite nel 2012.In Grecia il consumo procapite è passato da 22286 dollari nel 2008 a 16449 nel 2012 (lo stesso livello del 2006). In Macedonia il consumo procapite è passato da 3764 dollari nel 2008 a 3419 nel 2012. In Montenegro il consumo procapite è passato da 6624 nel 2008 a 5475 nel 2012. Infine in Serbia il consumo procapite è passato da 5034 dollari nel 2008 a 4004 dollari nel 2012. I tassi di disoccupazione dell’area appaiono preoccupanti e addirittura drammatici nei casi seguenti: in Kosovo è al 45%, in Macedonia al 23%, in Bosnia-Herzegovina al 25%, in Serbia al 21%.
I consigli che le istituzioni internazionali riservano ai paesi balcanici per uscire dalla crisi riguardano per lo più il controllo della finanza pubblica (i debiti pubblici sono aumentati in tutta l’area) e l’incentivo a privatizzare le public utilities. Lo scrittore francese Chamfort diceva: “gli economisti sono ottimi anatomisti e pessimi chirurghi perche lavorano alla meraviglia sul morto e massacrano il vivo”. In alcuni casi (Albania e Montenegro) ad esempio i processi di privatizzazione non sono correlarti con una riduzione della corruzione.
Non è semplice dettare ricette certe per uscire da uno stato di crisi. Stimolare gli investimenti in quei settori che generano occupazione e che producono soprattutto per il mercato interno non sembra tuttavia un consiglio da scartare a priori nell’area balcanica. Concentrarsi sull’integrazione dei singoli stati balcanici nelle strutture dell’UE, oppure aspettare gli aiuti economici esterni, rischia di rafforzare una dipendenza malata delle economie balcaniche da variabili esogene che invece andrebbero trasformate in strumenti di politica economica. L’aumento degli scambi commerciali nell’area CEFTA (l’accordo commerciale tra i paesi esterni all’UE del sud-est Europa) per evitare che i paesi balcanici siano dipendenti al 100% dall’UE, dunque l’aumento della cooperazione economica fra i paesi balcanici, dovrebbe tornare al centro del dibattito politico dei governi di questi paesi.
*Università dell’Insubria e University of Gjirokastra