Per molti economisti la crisi del 1929 fu in gran parte causata dalla decisione della Federal Reserve (Fed), adottata due anni prima, di abbassare il saggio di sconto dal 4 al 3,5 per cento. Con questa politica monetaria accomodante, la maggiore liquidità a disposizione delle banche fu utilizzata per finanziare (con mutui) l’acquisto di titoli azionari da parte dei privati alimentando nei due anni seguenti il boom speculativo di Wall Street. Anche oggi di fronte a questa grave crisi finanziaria la storia sembra ripetersi. La ricerca del capro espiatorio, sport preferito dall’opinione pubblica americana, conduce alla responsabilità della Fed, o più precisamente alla politica accomodante e di deregulation che ha caratterizzato la gestione di Alain Greenspan, alla guida della Fed tra il 1987 e il 2006.
Al di là delle precise responsabilità che sono ancora oggetto di dibattito, il rapporto tra l’opinione pubblica statunitense e la “sua” banca centrale è stato sempre controverso.
Gli Stati Uniti sono tra gli ultimi paesi ad economia di mercato ad aver istituito una banca centrale. Il sistema della Fed fu varato solo nel 1913, dopo che due precedenti esperienze di central banking (tra il 1791 e il 1836) erano state drasticamente “chiuse” dal Congresso perché entrate in conflitto con il potere delle banche locali. Il central banking negli Stati Uniti per tutto il XIX secolo fu considerato dai politici come un usurpazione delle funzioni fondamentali del Congresso (a cui la costituzione affida la responsabilità della politica monetaria) e dal mondo finanziario uno strumento di ingerenza nella liberta di impresa. La legge del 1864-1865, dopo un periodo di sfrenato free banking, confermando l’autonomia monetaria dei singoli Stati dell’Unione, si limitò ad istituire un Controllore Generale della circolazione di nomina presidenziale.
L’assenza di una banca centrale in un importante mercato monetario come gli Stati Uniti fu una delle principali cause di instabilità finanziaria mondiale per tutta la seconda metà del XIX. La frequente carenza di liquidità dovuta alla mancata sincronizzazione dei flussi monetari tra i territori dell’Est, dove si concentrava il settore industriale, e l’Ovest agricolo, e l’estrema frammentazione del sistema bancario, esposero il mercato finanziario degli Stati Uniti a crisi ricorrenti, che furono la caratteristica peculiare della storia monetaria americana nel XIX secolo.
Fu solo dopo la grave crisi finanziaria del 1907 che il Congresso si convinse ad istituire nel 1913 il Federal Reserve System, che appare nella sua struttura un compromesso tra l’esigenza di autonomia del sistema creditizio privato e la necessità del controllo e della vigilanza in nome dell’interesse pubblico. Il sistema infatti associa alle dodici banche della riserva federale anche le banche private, distinte rigidamente in base alla tipologia operativa. E non si tratta di una partecipazione formale, perché le banche della Riserva Federale in ogni distretto sono amministrate da un Consiglio dei Direttori che è nominato per un terzo dalle banche private, per un altro terzo dai rappresentati del settore agricolo, industriale e commerciale del distretto e per una altro terzo dall’organo centrale di governo della Fed, il Board of Governors. Per questo motivo la Fed è stata definita come government entity with private components, o come un’istituzione quasi-public. I suoi poteri rispetto al sistema finanziario si sono accresciuti sempre in seguito a gravi crisi. Così, tra il 1932 e il 1933, il suo carattere di istituzione pubblica fu decisamente accentuato con l’inserimento nello Statuto degli obiettivi della politica monetaria rivolta alla massima occupazione, alla stabilità dei prezzi, al mantenimento di tassi di interesse moderati nel lungo termine, e alla promozione di una crescita economica sostenibile.
Negli anni Sessanta la Fed divenne il pilastro della politica interventista “keynesiana” dell’amministrazione democratica, suscitando le proteste del mondo finanziario che lamentavano l’asservimento della politica monetaria a obiettivi di natura politica. Alla fine degli anni Settanta con la svolta che portò Paul Volker alla presidenza del Board of Governors, la Fed accentuò maggiormente la sua indipendenza dal potere politico divenendo l’attivo protagonista delle politiche di rientro dall’inflazione (ridotta drasticamente tra il 1981 e il 1983 dal 13,5% al 3,2%), assumendo il ruolo di “paradigma” delle severe politiche monetariste e dell’implacabile offensiva neo-conservatrice. Anche se Volcker era fondamentalmente un “uomo di Wall Street”, la drastica riduzione dell’offerta di moneta (la cui conseguenza fu una recessione che ridimensionò fortemente il peso dei sindacati dando via libera alla restaurazione neoconservatrice) e la maggior regolamentazione del mercato creditizio furono mal sopportate dagli ambienti finanziari che cominciarono ad elaborare strumenti alternativi per aggirare le restrizioni. Proprio all’inizio degli anni Ottanta cominciò a delinearsi la cosiddetta nuova finanza, costituita da mercati paralleli a quello ufficiale che si ponevano al di fuori di qualsiasi forma di regolamentazione. Anche quando la Fed si è presentata come lo strumento più importante per garantire l’attuazione di politiche sociali conservatrici, il mondo degli affari degli Stati Uniti ha quindi sempre giudicato con diffidenza il suo ruolo perché sostanzialmente al di fuori del contesto naturale del libero gioco delle forze di mercato.
La gestione di Greenspan (alla guida della Fed tra il 1987 e il 2006) non è stata altro che il punto terminale di una tradizione che considera l’esercizio del credito come una normale attività imprenditoriale, che è quindi preferibile lasciare alle libere forze del mercato. Una visione che negli ultimi decenni è stata rafforzata da teorie che tendevano a riaffermare la validità del free banking di fronte all’ingerenza del potere pubblico regolatore. Dalla fine degli anni Settanta si è svolto un serrato dibattito, ispirato da alcuni lavori pionieristici di Hayek, sulla natura delle banche centrali: vari contributi (sulla scia dell’importante saggio di Klein del 1974 sull’offerta di moneta “competitiva”) hanno messo in discussione la necessità dell’esistenza e delle funzioni di un organismo regolatore come la banca centrale. Questa letteratura teorica è stata accompagnata da una grande quantità di studi storici (sulle orme dei lavori di Rockoff sul periodo del free banking) che hanno analizzato esperienze concrete di free banking e riflettuto sulle circostanze che hanno portato al loro fallimento rendendo necessaria la “scomoda” tutela di una banca centrale. E non a caso l’esempio più studiato è l’esperienza storica degli Stati Uniti.
La “discrezione” con cui Greenspan ha sorvegliato lo sviluppo tumultuoso dei mercati finanziari negli ultimi due decenni, attraversando tre bolle speculative (nel 1987, nel 1998-2000 e ancora tra il 2003 e il 2005) non è quindi avulsa dal contesto storico ed è stata molto funzionale ai desideri delle lobby finanziarie e dei loro rappresentati al Congresso, e ha raccolto ampio consenso nell’opinione pubblica affascinata dal mito della ricchezza facile. Greenspan ha perseguito una politica tollerante per ridurre al minimo il peso e il ruolo dell’istituzione che era chiamato a dirigere. Sotto la sua discreta vigilanza i mercati dei derivati e di strumenti finanziari sempre più complessi hanno goduto di una assoluta deregolamentazione; le banche d’affari hanno avuto una straordinaria libertà d’azione; la crescita anormale degli indici azionari è stata volutamente sottovalutata e benevolmente considerata come una manifestazione di esuberanza irrazionale. Una politica monetaria in grado di assicurare liquidità abbondante in un contesto di inflazione contenuta e di una costante, anche se moderata, tendenza alla crescita, ha creato un ambiente favorevole alle tendenze speculative che hanno caratterizzato il mercato finanziario americano. Con una certa soddisfazione gli ambienti di Wall Street indicavano la politica del governatore con l’espressione Greenspan put per indicare il “senso di “protezione” che la Fed forniva alle esuberanti attività dei mercati finanziari (il put, infatti, è una opzione che permette al possessore di un titolo di venderlo a terzi a prezzo prefissato in qualsiasi circostanza) e che si esprimeva attraverso riduzione dei tassi d’interesse e iniezioni di liquidità ai primi segni di rallentamento. Una politica che portava vantaggi anche al resto del mondo, dato che gli Stati Uniti assumevano il ruolo di “grande consumatore” mondiale di capitali e merci, favorendo quello che lo stesso Bernanke non ha esitato a definire un nuovo equilibrio monetario mondiale (significativamente chiamato Brettoon Woods 2) .
Ma ormai il Greenspan party è finito, e la gestione della sua pesante eredità spetta al suo successore Bernanke. Studioso ossessionato dal problema della deflazione, Bernanke, fino ad ora, non si è discostato molto nella gestione di questa crisi dal modello Greenspan (e per questo si è parlato anche di un Bernanke put), adottando gli stessi strumenti del suo predecessore con il ricorso ad iniezioni di liquidità e alla riduzione dei tassi d’interessi. Una strategia che è stata spinta al suo estremo dalla Banca del Giappone (proprio su consiglio della Fed) che per un decennio tra il 1995 e il 2006 ha tenuto i tassi di sconto in prossimità dello zero con l’obiettivo di contrastare una grave crisi finanziaria innescata dal crollo del mercato immobiliare (con una dinamica che per certi aspetti è simile a quella attuale). La riduzione del tasso sui Fed Fund, portato il 16 dicembre 2008 in una banda di oscillazione tra 0 e 0,25%, il minimo storico negli Usa, appare del tutto in linea con questo modello ampiamente sperimentato, sulla cui efficacia il dibattito è ancora aperto. E’ comunque chiara la volontà di promuovere una politica monetaria espansiva, una scelta che in un altro contesto avrebbe “assicurato” Wall Street, ma che di fronte al grande falò distruttivo acceso dalla crisi dovrà esser necessariamente accompagnata da altre più radicali misure. Quello che è certo che Bernanke è ancora il miglior garante dell’autonomia di Wall Street. Nello scorso novembre, di fronte alla richiesta di una Commissione del Congresso di conoscere i nomi delle banche che hanno fatto ricorso ai programmi speciali di prestito, Bernanke si è rifiutato di collaborare, chiedendo alle autorità politiche di derogare a ogni obbligo di trasparenza in nome della “difesa” dell’immagine delle istituzioni bancarie coinvolte. Una affermazione che molti hanno definito sconcertante di fronte al disastro che è sotto i nostri occhi.
Saremo molto probabilmente testimoni di una nuova fase della vita della Fed e di una rinnovata stagione di regolamentazioni, indotte dalla circostanze drammatiche della crisi, ed è molto probabile che in seno alla nuova leadership si apriranno delle contraddizioni sul ruolo da attribuire a quella che sarà la nuova Fed, ed è a questo che lascia pensare il peso attribuito a Volcker nella nuova amministrazione di Obama. Ma si può essere certi che passata la tempesta, il mondo della finanza americana vorrà liberarsi di ogni soffocante tutela per gettarsi ancora a capofitto nell’esuberanza irrazionale del libero mercato.