L’inizio della recessione globale segna non soltanto l’inizio della parabola discendente del ciclo economico attuale, ma anche la fine del regime di crescita economica degli ultimi vent’anni. Questo regime (di “finanziarizzazione”) è caratterizzato dalla crescente importanza dei motivi finanziari, dei mercati finanziari, degli operatori finanziari e delle istituzioni finanziarie nel funzionamento del sistema economico “globalizzato”.
Questo regime emerse all’inizio degli anni 1990. In esso, la crescita economica è indotta dall’aumento delle spese di consumo finanziate dall’indebitamento personale in quanto fenomeno di massa. Questa specificità dell’attuale regime di crescita economica è alla base della crisi del capitalismo finanziario e ne costituisce il difetto principale. Infatti, la recessione in atto sarà tanto diffusa e prolungata da provocare la crisi del regime di crescita economica che l’ha generata, in quanto nessuna istituzione finanziaria sarà disposta a erogare nuovi crediti alle categorie di persone il cui reddito disponibile non permetterà di finanziare il livello delle spese di consumo mantenuto sotto questo regime. Dato che la progressione delle spese di consumo è indispensabile per la crescita economica, e che tali spese non saranno più finanziate con il credito erogato dagli operatori finanziari, il regime di crescita basato sulla finanziarizzazione viene meno ai suoi presupposti ed è dunque destinato a essere rimosso dopo la crisi.
La finanziarizzazione conferisce ai principali azionisti delle società quotate in Borsa un controllo maggiore sulle stesse, inducendole prima di tutto a massimizzare il rendimento dei fondi propri e da qui gli utili da versare quale dividendo agli stessi azionisti. Questa strategia aziendale implica la riduzione sistematica dei costi di produzione, primi fra tutti i salari – facendo eccezione dei lauti stipendi degli alti dirigenti e dei lavoratori molto qualificati. I contratti collettivi di lavoro e i sindacati sono stati così sostituiti dal decentramento dei negoziati salariali sul piano aziendale e dalla personalizzazione dei contratti di lavoro sulla base delle qualifiche dei lavoratori assunti, permettendo in tal modo di ridurre i costi di produzione abbattendo il costo del lavoro – anche grazie alle scelte di politica monetaria orientate prioritariamente alla stabilità dei prezzi anziché alla lotta contro la disoccupazione. Si giunge così alla “grande moderazione” salariale per effetto della liberalizzazione e delle innovazioni finanziarie, che hanno consentito di sostituire gli aumenti salariali con varie forme di credito al consumo per mantenere una crescita economica sostenuta e duratura nel tempo.
Il caso degli Stati Uniti è emblematico a questo riguardo. Nell’economia statunitense, la parte dei salari nel reddito nazionale è tendenzialmente diminuita, da circa 75 per cento negli anni Settanta del secolo scorso a circa 67 per cento nel 2006. Questa diminuzione implicò inizialmente anche la diminuzione del tasso di crescita economica, ma la tendenza si ribaltò negli anni 1990: da quella data si osserva uno scollamento tra l’andamento della crescita economica e l’evoluzione dei salari. I consumi non sono più finanziati soltanto dai salari, ma anche e soprattutto dal credito erogato dalle banche e da società finanziarie non-bancarie, che trovano in questa loro attività la fonte di ulteriori guadagni nella forma di compensi e commissioni per il solo fatto di concedere prestiti, anche ipotecari, ed emettere carte di credito al consumo.
Negli Stati Uniti il credito al consumo mostra infatti un aumento tendenziale al tempo stesso della “grande moderazione” salariale. Esso rappresentava circa il 14 per cento del reddito nazionale alla fine degli anni 1980, con una percentuale più che raddoppiata nel 2006. Si osserva d’altra parte una sincronizzazione tra il tasso di crescita economica e il tasso di crescita del credito al consumo. Negli Stati Uniti, i debiti delle famiglie sono aumentati dal 62 per cento del loro reddito disponibile, nel 1975, al 127 per cento nel 2006. Se riferita al prodotto interno lordo, la percentuale dei debiti contratti dalle famiglie statunitensi è anch’essa raddoppiata nel medesimo arco temporale. Dal canto loro, i debiti ipotecari nel 2006 rappresentavano ormai il 97,5 per cento del prodotto interno lordo statunitense (la percentuale era la metà nel 1975).
Ora, la crisi finanziaria in atto comporta, fra le altre cose, un restringimento del credito in generale e, in particolare, il blocco totale del credito al consumo negli Stati Uniti. In questo modo, le spese per consumi delle famiglie sono amputate della loro componente che ne assicurava l’aumento tendenziale nel regime della finanziarizzazione. In questo regime, il credito al consumo si fonda in sostanza sulla messa in pegno, quale garanzia di rimborso, del patrimonio personale, un impegno tanto più richiesto dai finanziatori quanto i mutuatari subiscono la “grande moderazione” salariale. Sebbene gli attivi posti a garanzia dei prestiti possano essere dei titoli finanziari, per esempio delle azioni, si tratta soprattutto di proprietà immobiliari, che servono a garantire una somma maggiore dell’ipoteca concessa per il loro acquisto. Si sviluppano così gli “home equity loans”, una forma particolare di credito al consumo che, per una banca, consiste nel valutare la differenza tra il prezzo di vendita potenziale dell’abitazione del mutuatario e il prezzo del suo acquisto effettivo (deduzione fatta degli interessi maturati sull’oggetto immobiliare, se il suo acquisto fu finanziato mediante un’ipoteca), concedendo allora un credito al consumo per l’ammontare della suddetta differenza garantita dalla stessa proprietà immobiliare. Se il mutuatario non potrà pagare in futuro le rate del prestito così concesso, la vendita della sua proprietà permetterà al finanziatore di essere ripagato dal “mercato”, con maggior facilità quando i prezzi nel settore immobiliare continuano ad aumentare.
Nell’ultimo ventennio, gli “home equity loans” negli Stati Uniti sono diventati via via sempre più importanti rispetto all’ammontare totale dei crediti al consumo. Dopo essere rimasti attorno al 20 per cento di questo totale fino alla fine degli anni 1990, essi sono progrediti in maniera sostenuta fino a rappresentare più del 30 per cento dei crediti al consumo nel 2006. Per tale motivo, sin dai primi anni 1990, il mercato immobiliare è stato il motore principale della crescita economica negli Stati Uniti.
La crisi finanziaria rimette in causa durevolmente l’aumento sostanzioso dei prezzi delle proprietà immobiliari, senza il quale le lucrative pratiche di “home equity lending” non possono svilupparsi e sostenere così le spese di consumo delle famiglie statunitensi. Questo fenomeno blocca quindi la dinamica autorinforzante del credito, della domanda di immobili, e dell’aumento dei prezzi delle proprietà residenziali. Anche supponendo che il restringimento del credito in generale cui si assiste nella crisi in atto (soprattutto ma non soltanto negli Stati Uniti) sia di breve periodo, questa crisi colpisce inesorabilmente una delle due principali condizioni necessarie per questa dinamica autorinforzante: i prestiti ipotecari a rischio elevato (“subprime”). L’altra principale condizione necessaria è data dal ridotto livello dei tassi di interesse, verificatasi dallo scoppio della crisi nell’agosto 2007. Sebbene i tassi di interesse resteranno a livelli molto bassi per almeno ancora un anno, vale a dire fintanto che la recessione non sarà superata mediante una timida ripresa, la dinamica del regime di crescita finanziarizzata non sarà riattivata. Da un lato, il numero dei pignoramenti e degli abbandoni delle proprietà residenziali continua ad aumentare e lo farà ancora durante tutto il 2009, perché le famiglie statunitensi non riescono più a far fronte ai propri debiti sia ipotecari sia di altro tipo (tra cui spiccano quelli contratti con le loro numerose carte di credito e i leasing di autoveicoli). Questa tendenza blocca ogni incentivo a concedere nuovi mutui “subprime”. D’altro lato, i vari operatori nel settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi di investimento, e via dicendo) non sembrano più disposti ad acquistare titoli che trasferiscono ai loro possessori i rischi legati direttamente o indirettamente ai mutui “subprime”.
L’impossibilità di rilanciare i prestiti “subprime” rimette in causa in maniera durevole l’aumento rilevante dei prezzi delle proprietà immobiliari, che a sua volta rimette allora in causa l’incremento degli “home equity loans”. Il credito al consumo è così minacciato nella sua crescita tendenziale, ripercuotendosi negativamente sull’aumento delle spese di consumo statunitensi e, da qui, sulla continuazione del regime di crescita economica basato sulla finanziarizzazione, giunto al termine del suo “ciclo di vita” con una crisi di ampiezza e proporzioni dirompenti per l’economia mondiale.
*L’autore è Professore ordinario di macroeconomia e di economia monetaria nell’Università di Friburgo (Svizzera).