La teoria della politica economica è giunta negli ultimi anni a conclusioni che ne hanno messo in discussione le fondamenta. Tali posizioni si sono consolidate in Europa durante gli anni ottanta, quando la crescita sostenuta dei deficit di bilancio e del debito pubblico hanno condotto ad una profonda revisione della relazione diretta fra spesa pubblica e crescita e alla negazione di un possibile ruolo attivo della politica monetaria nell’influenzare il livello di equilibrio del reddito.
I fondamenti teorici di queste conclusioni possono essere ricondotti ai limiti delle politiche fiscali discrezionali e al fenomeno dell’incoerenza temporale sia in tema di politica fiscale che in tema di politica monetaria (Kydland and Prescott 1977). Infatti – seguendo l’ipotesi di aspettative razionali – “solo la moneta non anticipata è rilevante” (Lucas 1972, Sargent and Wallace 1975) e pertanto la politica monetaria non può avere alcun ruolo attivo nella stabilizzazione del prodotto. In tema di politica fiscale Barro (1974) avrebbe dimostrato che la spesa pubblica crea soltanto aspettative di maggiore tassazione futura – la cosiddetta equivalenza ricardiana – e nessun incremento di domanda. È stato poi rilevato che i politici raramente perseguono l’obiettivo dell’interesse pubblico, ma subordinano la decisione riguardo alla politica ottimale al meccanismo del consenso (si veda, fra gli altri, Buchanan and Tullock 1962).
Questi risultati teorici hanno ampiamente contribuito a formare il paradigma di politica economica dell’Unione monetaria europea.
Il nucleo centrale di queste posizioni può essere sintetizzato nei seguenti punti:
1. le politiche economiche di breve periodo non sono desiderabili: anche se nel breve periodo possono avere effetti positivi, il risultato finale è unicamente un incremento dell’inflazione;
2. l’inflazione è un fenomeno monetario, che può essere regolato controllando la quantità di moneta in circolazione.
3. il prodotto interno lordo e la disoccupazione fluttuano attorno al loro livello di lungo periodo, il quale è indipendente da politiche monetarie e fiscali attive.
Questi principi rappresentano i fondamenti teorici del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita, il cui contenuto generale ha come obiettivo assicurare che le variabili monetarie non disturbino la convergenza spontanea verso il cosiddetto non accelerating inflation rate of unemployment (NAIRU) e aiutare la Banca Centrale Europea a perseguire la stabilità dei prezzi.
I governi nazionali che appartengono all’Unione Monetaria Europea sono obbligati a rispettare rigidi parametri e non possono usare liberamente la politica fiscale per aumentare la crescita e ridurre la disoccupazione. La spesa in deficit è stata trasformata, da strumento, in obiettivo di politica economica.
Il prezzo in termini di costi sociali in generale, e di occupazione in particolare, del processo di unificazione monetaria dell’Europa è stato per gli anni passati già molto elevato. L’esperienza della crisi economica mondiale ci ha mostrato anche che non è stato sufficiente contenere il deficit e il debito pubblico per controllare l’instabilità finanziaria. Il risultato generale è che ora in Europa non si dispone di strumenti adeguati per contrastare la disoccupazione e la continua riduzione del tasso di crescita del reddito. La politica economica non ha margini di discrezionalità.
La subordinazione del mantenimento degli equilibri interni all’obiettivo della stabilità della valuta comune ha in definitiva messo profondamente in discussione l’esistenza stessa di una Europa unita. Come per un qualunque sistema a cambi fissi, se i costi di mantenimento delle parità sono troppo elevati per alcuni dei paesi che vi partecipano, prima o poi la stessa sopravvivenza dell’area valutaria risulta essere a rischio.
Il futuro dell’Europa e dell’Euro passa pertanto per la creazione di una autorità di politica fiscale comune che controbilanci l’azione della banca centrale e sia in grado di individuare strumenti condivisi per sostenere la crescita. Ma questo risultato può essere realizzato solo se l’Europa diventa politicamente unita.
Gli estensori del trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita hanno dimenticato che esso avrebbe dovuto essere l’ultimo anello di una catena partita dai trattati di Parigi e Roma, passata attraverso l’Atto Unico, le cui motivazioni di fondo hanno natura politica. Il rispetto dei principi dettati dall’ortodossia economica ha fatto ritenere inutile l’unione politica nella convinzione che l’accordo sarebbe stato il naturale risultato di economie convergenti, perché sarebbe venuta meno la materia del contendere[1].
Tuttavia l’equilibrio del reddito e dell’occupazione non è il risultato spontaneo del mercato, ma piuttosto dell’azione della politica economica, sia fiscale che monetaria[2]: di quella monetaria perché la Banca Centrale, nel modificare i tassi d’interesse, agisce sulla domanda sia attraverso gli investimenti che attraverso i consumi; e della politica fiscale dal momento che questa ha un ruolo attivo nell’influenzare la crescita del reddito attraverso il meccanismo del moltiplicatore keynesiano, la cui inefficacia non ha mai trovato un riscontro empirico convincete[3].
Sotto questo punto di vista l’esperienza sia passata che presente dell’economia statunitense, in cui la Federal Reserve coordina – pur essendo indipendente — il suo operato con il Governo federale, ci fornisce indicazioni importanti riguardo al ruolo dell’unità politica, e forse l’unica speranza di sopravvivenza dell’UME.
*L’autrice è professore associato di politica economica nell’Università di Napoli “Parthenope”.
[1] La necessità di realizzare una unione politica insieme a quella monetaria è rilevata da Krugmann, il quale ritiene conformemente alle tesi sostenute nel presente articolo (peraltro redatto prima del contributo di Krugmann) che proprio per questa ragione, l’UME non possieda strumenti sufficienti ad affrontare la crisi ed è destinata nel tempo a diventare progressivamente più debole. Krugmann (2009)
[2] Un gruppo numeroso di economisti – European economists for an alternative economic policy in Europe – ogni anno stende un memorandum per repilogare i contenuti della politica economica alternative e per raccogliere nuovi consensi sui suoi punti centrali. Si veda per esempio Euromemorandum Group (2006) ed anche Fitoussi e Saraceno (2004). Molte critiche possono essere anche ritrovate in un numero speciale dell’Oxford Review of Economic Policy (vol. 21, n°4, 2005), interamente dedicato al ruolo macroeconomico della politica fiscale. Si veda in particolare Allsopp and Vines (2005), Krugmann (2005) e Solow (2005).
[3] Molti contributi empirici del Fondo Monetario Internazionale hanno rilevato che al massimo l’effetto del moltiplicatore si riduce nel tempo o, sotto certe circostanze, è molto piccolo, ma mai che il suo valore è nullo o negativo. E’ stato dimostrato poi che i presunti effetti ‘non keynesiani’ di politiche keynesiane sono invece il risultato di un’attività congiunta e di segno opposto della politica monetaria. Canale et all. (2008).
Bibliografia