Con un suo recente intervento su economiaepolitica.it, Domenico Moro sottolineava l’inefficacia del quantitative easing alla Draghi ai fini della crescita economica. Queste tesi, che più volte abbiamo proposto ai nostri lettori, sono state oggetto di critiche da parte di Gerardo Marletto. Qui pubblichiamo un botta e risposta tra Marletto e Moro sulla inefficacia delle politiche monetarie espansive in presenza di austerità.
La critica di Gerardo Marletto
L’articolo di Domenico Moro (“Un quantitative easing per i mercati azionari e non per l’occupazione”) si inserisce in una linea di pensiero che da qualche tempo caratterizza non solo la rivista economiaepolitica.it ma buona parte del pensiero economico della sinistra nostrana. Una linea di pensiero allo stesso tempo presuntuosa e sbagliata.
A mio modo di vedere tutto comincia con l’arrivo di Draghi alla BCE.
Fino a quel momento non si poteva che essere d’accordo nella critica all’ossessione per l’inflazione della BCE. E giustamente si attaccava la reiterazione di questo modello restrittivo di politica economica contro i cosiddetti PIGS. Un modello che non faceva altro che favorire l’attacco della speculazione finanziaria, prima contro le economie europee più deboli e poi contro l’Euro in quanto valuta globale. E altrettanto giustamente si invocavano politiche monetarie accomodanti e azioni di esplicito sostegno ai debiti pubblici nazionali.
Ebbene con Draghi tutto ciò viene realizzato. Prima di tutto è Draghi – con gli acquisti di titoli di stato realizzati attraverso il sistema bancario – a lanciare un messaggio chiaro e semplice alla speculazione: tutti gli attacchi contro i debiti nazionali verranno sterilizzati. E infatti gli attacchi di colpo si arrestano. Spagna, Portogallo, Italia e tutta l’area dell’Euro non vengono contagiati da una crisi di matrice finanziaria che poteva avere effetti devastanti, ben più gravi di quelli che si sono avuti. Una sola vittima rimane sul campo: la Grecia. Una vittima dell’era Lagarde/Barroso/Trichet per la quale Draghi poteva fare ben poco.
E poi si arriva alla fase attuale: accade quello che solo qualche anno sarebbe sembrato impossibile. La BCE lancia un quantitative easing con obiettivi reflattivi. L’intento è chiaro: evitare una deflazione di lungo periodo come quella giapponese. Nessuno si illude – e tanto meno Draghi – che ciò sia sufficiente a rilanciare occupazione, investimenti e produzione. Draghi lo fa capire tra le righe dei suoi messaggi necessariamente cauti, ma molta stampa mainstream (da noi basterebbe leggere i fondi in prima pagina del Sole24Ore), tanti economisti “semplicemente” keynesiani (Krugman in testa) e persino Obama, ci ricordano che serve altro: bisogna uscire dal delirio dell’austerity e impostare una politica di bilancio espansivo alla scala europea. E quando Juncker partorisce il suo inconsistente piano d’investimenti, persino l’Economist si scatena nella critica e nello sfregio ironico.
Certo il QE di Draghi poteva essere fatto meglio. Ma affermare come fa Moro che “l’operazione non ha alcun senso, o almeno non il senso che ci è stato detto” è appunto – come dicevo all’inizio – presuntuso e sbagliato. Le critiche di Moro al QE di Draghi sono state ampiamente illustrate e discusse nella stampa e persino nei TG. È chiaro a tutte le persone minimamente informate – e sicuramente ai lettori di economiaepolitica.it – che il QE di Draghi non è la panacea di tutti i mali e che la sua attuazione tecnica è il meglio che si è potuto fare date le condizioni politiche attuali.
Invece di attaccare Draghi con accuse senza senso (“l’obiettivo di Draghi è tenere alti i profitti delle banche e delle multinazionali”) e rilanciare in modo pavloviano gli slogan contro “il neoliberismo della BCE” meglio sarebbe concentrare le nostre energie per capire quali sono le condizioni politiche di una battaglia per politiche fiscali nazionali ed europee espansive. E per quello che qualcuno ha giustamente chiamato un “new new deal”. Capendo che la BCE di Draghi è oggi tra le condizioni favorevoli a questa battaglia.
La risposta di Domenico Moro
La critica di Marletto al mio articolo si fonda sull’assioma, per definizione indimostrato, che le decisioni della Bce di Draghi siano ispirate a politiche di carattere espansivo, addirittura <<di esplicito sostegno ai debiti pubblici nazionali>>. Quella di una Bce keynesiana è, però, una interpretazione quantomeno fantasiosa.
Innanzi tutto, quando si parla di politiche espansive bisogna capire di che cosa si parla. Un conto è abbassare i tassi d’interesse sul denaro e immettere liquidità attraverso prestiti alle banche. Un altro conto è sviluppare una vera politica pubblica espansiva, che si ha quando il debito pubblico può espandersi attraverso il finanziamento dell’economia reale. Il punto è proprio questo: le immissioni di liquidità operate dalla Bce di Draghi non hanno avuto alcun effetto positivo sull’economia reale.
Il denaro, ricevuto dalla Bce a tassi di interesse bassissimi, è stato investito dalle banche in titoli di stato che garantivano rendimenti molto più alti. Dunque, il denaro ricevuto non è fluito, attraverso le banche, all’economia reale, cioè a finanziare attività produttive che creassero occupazione. I dati su Pil, produzione industriale, consumi interni e occupazione stanno a dimostrarlo. In compenso le banche, piene di titoli tossici (risultato dell’esplosione della bolla dei mutui subprime e di altre operazioni “allegre” condotte in tempi di denaro facile) hanno avuto la possibilità di compensare la qualità deteriorata dei propri crediti attraverso l’acquisto di titoli stato e di lucrare sui differenziali dei tassi d’interesse. Un caso forse estremo ma esemplificativo è quello della Banca popolare dell’Etruria, in questi giorni nelle cronache dei quotidiani. Così, grazie alle varie operazioni della Bce, le banche hanno potuto presentare bilanci in utile più o meno alto anziché in perdita.
Ma veniamo al Qe attuale. Interpretare questa operazione come se si trattasse di uno stimolo all’economia reale, come hanno fatto i mezzi di comunicazione main stream, vuol dire prendere lucciole per lanterne. Questo era il senso del mio articolo precedente. Ma andiamo ai fatti. L’operazione di Qe non è rivolta ai Paesi in difficoltà, che pagano interessi sul debito pubblico molto più alti della Germania. L’operazione è condotta pro rata, cioè in proporzione alle quote del capitale della Bce che sono detenute dalle singole banche centrali nazionali. Di conseguenza, la parte più grande dei titoli di stato interessati dal Qe è costituita dai titoli della Germania, che pagano già interessi bassissimi. Quindi, il risultato è quello di spingere i tassi d’interesse dei titoli di stato della Germania e di altri paesi cosiddetti “core” verso rendimenti negativi. Lo scopo è evidente: incentivare gli investimenti di capitale a spostarsi dal mercato dei titoli di stato verso il mercato azionario.
Di conseguenza, gli effetti del Qe sono di tre tipi. Primo, si ha una impennata del valore azionario delle società quotate in borsa, insieme al quale salgono i dividendi degli azionisti. Secondo, le banche vedono crescere i guadagni per i margini di intermediazione sul debito pubblico e ottengono denaro fresco prima della scadenza dei prestiti precedenti. Terzo, grazie alla svalutazione dell’euro (un’altra conseguenza dell’immissione di liquidità), si ha un aumento delle esportazioni, che sono concentrate nelle grandi imprese multinazionali e che garantiscono margini di profitto maggiori.
Viceversa, l’influenza sull’occupazione e di conseguenza sui consumi interni – che sono i veri problemi – sarà zero, come nel caso delle operazioni precedenti della Bce. Perché? Perché il vero problema non sta nella liquidità, ma negli investimenti. Ciò vuol dire che denaro in giro nel mondo ce ne è anche troppo. Il problema reale è costituito, da una parte, dalla mancanza di volontà dei privati di investire in attività produttive, perché la redditività dei nuovi investimenti (leggi saggio di profitto) è troppo scarsa se non nulla e, dall’altra parte, dalle politiche di austerity e dalla mancanza di politiche di sostegno alla domanda aggregata. L’immissione di liquidità ha come unico effetto significativo in Europa come altrove (vedi Giappone) la crescita del valore della borsa, ovvero una nuova droga degli asset finanziari. Altro che rimettere in moto l’economia. Questi sono fatti e non slogan basati su un qualche condizionamento pavloviano anti-neoliberista.
Purtroppo, il punto è che Marletto sembra non rendersi conto di che cosa sia la Bce. Ciò appare evidente quando il nostro propone di <<capire quali sono le condizioni politiche di una battaglia per politiche fiscali nazionali ed europee espansive. E per quello che qualcuno ha giustamente chiamato un “new new deal”. Capendo che la Bce di Draghi è oggi tra le condizioni favorevoli a questa battaglia.[1]>> Ora, si da il caso che la Bce di Draghi è sempre stata inflessibile sulla necessità che i vari Paesi europei, in special modo quelli in maggiori difficoltà, rispettino il Fiscal compact e che mettano in atto le “riforme di struttura”. Tali riforme di struttura non sono altro che precarizzazione di massa del mercato del lavoro (vedi job act) e privatizzazioni.
Draghi, proprio in occasione del varo del QE, ha tenuto a ribadire che l’operazione non doveva essere intesa dai singoli stati come una scusa per derogare alle “riforme di struttura”. La determinazione del Presidente della Bce a questo proposito è stata sperimentata sulla propria pelle dal neoeletto governo greco. Infatti, la Bce, in modo palesemente ricattatorio, ha escluso le banche greche dal Qe, perché Tsipras intende rinegoziare le condizioni dei prestiti, ovvero le suddette “riforme di struttura”, aumentando le pensioni minime e revocando i licenziamenti dei dipendenti pubblici e soprattutto le privatizzazioni. Stando a questi fatti, non si direbbe che la Bce di Draghi sia propriamente, per dirla con Marletto, <<tra le condizioni favorevoli>> a una battaglia per un nuovo New Deal. Al contrario, la Bce di Draghi rimane uno dei pilastri della politica neoliberista europea e del sistema dell’euro, che scaricano la crisi dai profitti sui salari, dal privato sul pubblico.
Il problema risiede nel fatto che è molto diffusa una fascinazione acritica per il termine “politica espansiva”, senza chiarirsi a proposito di che cosa consista e di quale direzione debba prendere una tale politica. Alcuni pensano che il problema sia abbassare i tassi d’interesse sul costo del denaro e pompare liquidità nell’economia. Si dimentica che ciò è quanto è stato fatto per anni in tutti i Paesi avanzati, creando bolle finanziarie a ripetizione, visto che la liquidità prende quella strada spontaneamente in questa fase storica dell’economia e con questi rapporti di produzione. La politica espansiva più utile è invece un’altra. Quella che abbia come fine l’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico nell’economia reale, cioè nella produzione di beni e servizi, restringendo al contempo il perimetro dell’appropriazione privata del prodotto del lavoro sociale. Il come farlo e dove reperire le risorse può essere discusso. Ma ciò su cui ci sono sempre meno dubbi è che non si esce da una crisi, che è strutturale (ovvero del sistema capitalistico), se si pensa di farlo semplicemente mettendo il capitale in condizione di fare più profitti.