Il Sole 24 Ore interroga il direttore di economiaepolitica.it, Riccardo Realfonzo. Restare nell’euro è costosissimo, ma nessuno pensi che l’uscita sia una panacea. Tuttavia, se il quadro macroeconomico dell’Unione Monetaria non cambia, presto o tardi saremo costretti ad abbandonare la moneta unica.
I costi dell’euro hanno surclassato i benefici per l’economia italiana. Esclusa la possibilità di scaricare sul cambio i pesanti differenziali di crescita della produttività rispetto ai paesi centrali d’Europa, Germania in testa, ci ritroviamo a competere nei mercati internazionali con una valuta più costosa rispetto alla nostra “lira teorica”.
Venuta meno anche la possibilità di praticare politiche di differenziazione del costo del denaro, il principale meccanismo di aggiustamento al quale l’eurozona ha voluto affidarsi, la flessibilità salariale, ha dimostrato di essere insufficiente (nonostante le ampie deregolamentazioni) e socialmente indigesto. E tutto ciò è aggravato dal capolavoro delle regole di politica fiscale improntate all’austerità, che hanno impedito – proprio dove ce ne sarebbe stato più bisogno – gli investimenti pubblici che avrebbero potuto rilanciare la produttività, sostenendo domanda e occupazione.
Gli impetuosi processi di divergenza tra centri e periferie che in questi anni hanno sconvolto l’Europa sono la prova più tangibile del fallimento di questo disegno. L’eurozona non è un’area valutaria ottimale e non potrà esserlo a meno di una ridefinizione del quadro di regole: con spazio a incisive politiche fiscali redistributive sul piano territoriale, anche finanziate dalla BCE, e vincoli ai movimenti di capitale. Ma il dramma è che l’assetto attuale conviene a una parte d’Europa, mentre per noi è costosissimo restare nell’euro e anche costosissimo uscirne. Eppure, se il quadro macroeconomico non cambia, presto o tardi saremo costretti a farlo.
[Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2017]
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