Il dibattito sul PIL potenziale si è recentemente spostato dal concetto teorico alle relative metodologie di stima. Se da un lato emerge una sostanziale uniformità nel considerare il PIL potenziale come il livello massimo di prodotto ottenibile dal pieno utilizzo delle risorse disponibili (lavoro e capitale) e coerente con un’inflazione stabile (Okun, 1962; Gordon, 1984), dall’altro le stime del tasso di disoccupazione strutturale (o meglio, di quel tasso di disoccupazione che non genera spirali inflazionistiche, il cosiddetto NAWRU) proposte dalla Commissione Europea per il calcolo del PIL potenziale sono risultate, sotto vari aspetti, metodologicamente discutibili.[1]
Oltre che dal punto di vista scientifico, tali valutazioni sono state oggetto di un vivace dibattito politico, in quanto cruciali per l’attuazione della politica fiscale nei singoli Paesi UE, culminato in una lettera del governo italiano alle autorità europee in cui il ministro dell’economia Padoan le ha apertamente considerate penalizzanti per l’Italia.[2] In particolare, il governo sostiene che adottando delle metodologie alternative per le stime del PIL potenziale ci sarebbero maggiori margini di flessibilità per un’espansione non inflazionistica della spesa pubblica, in quanto già dal 2015 l’Italia registrerebbe un pareggio di bilancio strutturale: essendo il deficit strutturale relativo ad un PIL potenziale sottostimato per l’Italia (ovvero, ad una distanza dal PIL effettivo troppo contenuta), attualmente ci sarebbe meno spazio per l’attuazione di politiche fiscali espansive da parte del governo.[3]
Alla luce di questo dibattito, lo scopo di questa nota è quello di suggerire una manovra di politica economica che, partendo proprio da una revisione al rialzo del PIL potenziale italiano realizzabile tramite l’aumento del tasso di partecipazione alla forza lavoro, permetterebbe – almeno dal punto di vista statistico – di realizzare un deficit strutturale maggiore in termini assoluti ma non in termini di prodotto potenziale: tale misura risulterebbe, pertanto, perfettamente in linea con i trattati europei.
Per comprendere la misura proposta, è tuttavia necessario partire dal calcolo del prodotto potenziale, essenziale per il computo del saldo strutturale. Da qualche anno infatti, la Commissione Europea fissa gli obiettivi di deficit di medio termine per i Paesi membri sulla base del cosiddetto deficit strutturale (piuttosto che sul vecchio concetto del deficit al 3%), calcolato in riferimento al PIL potenziale, e non in base a quello effettivo che in recessione è più basso: in sostanza, il deficit strutturale viene depurato dagli effetti del ciclo economico. Più precisamente, sui tavoli europei la partita della flessibilità si gioca, attualmente, sull’output gap (OG): si tratta della differenza tra prodotto effettivamente realizzato e prodotto potenziale, espresso in percentuale del potenziale (1): quanto maggiore è il PIL potenziale, tanto maggiore sarà l’output gap, e tanto maggiore sarà in termini assoluti il deficit strutturale consentito.[4]
(1)
L’idea che intendiamo esporre, astraendo dalla possibilità che le attuali metodologie conducano ad un valore del prodotto potenziale troppo contenuto, in quanto viene sovrastimato il tasso di disoccupazione compatibile con un’inflazione stabile (e pertanto si indirizzino i Paesi all’adozione di politiche troppo restrittive),[5] è che si possa implementare una politica in grado di far registrare un output gap maggiore in valore assoluto, e di conseguenza avere più margini per l’attuazione delle politiche fiscali.
Tecnicamente, il prodotto potenziale di un Paese viene calcolato dalla Commissione Europea sulla base di una particolare funzione di produzione (2), all’interno della quale, oltre alla produttività totale dei fattori (TFP) e dello stock di capitale netto (K),[6] viene considerata una misura del “lavoro potenziale”.
(2)
A sua volta, il lavoro potenziale (in termini di ore complessivamente lavorate) è ricavato dal prodotto tra tasso di partecipazione, popolazione in età lavorativa, ore lavorate per addetto ed il complemento ad uno del NAWRU (3).
(3)
Con riferimento al 2016, le stime della Commissione Europea del lavoro potenziale – che consideravano 1725.1 ore annue per addetto, una popolazione in età lavorativa di 45,276 milioni di individui, un tasso di partecipazione (15-74) di circa il 60% ed un NAWRU pari al 10.1% – hanno prodotto una stima del prodotto potenziale di 1603 miliardi di euro, al cospetto di un PIL effettivo di 1573 miliardi (dati AMECO a prezzi costanti 2010). Il relativo output gap si è attestato a -1.9, ed ha permesso di realizzare, stando ai nostri calcoli, una correzione di 16 miliardi di euro al saldo nominale di bilancio.[7]
Come già anticipato, qualora il PIL potenziale fosse più elevato, si registrerebbe un output gap più alto (in valore assoluto). Avendo espresso già i nostri dubbi riguardo alle criticità delle stime del NAWRU,[8] rimane tuttavia la possibilità di incidere concretamente sulla stima del PIL potenziale, intervenendo sul tasso di partecipazione della popolazione alla forza lavoro, ed avere quindi la possibilità, almeno dal punto di vista contabile, di un deficit strutturale consentito maggiore. Il tasso di partecipazione è dato dal rapporto tra occupati più disoccupati (la cosiddetta forza lavoro) sulla popolazione in età di lavoro. Il tasso di occupazione (fermo al 58%, dati ISTAT 2017) è calcolato sulla base di 23 milioni di lavoratori, mentre il tasso di disoccupazione (11.4%) dipende da quante persone effettivamente cercano lavoro: attualmente calcolate attorno ai 2,8 milioni. Esistono tuttavia in Italia più di 13 milioni di inattivi: tra questi, quasi 10 milioni non si dichiarano disponibili a lavorare, mentre i restanti 3 milioni – pur non avendo cercato attivamente un’occupazione nelle ultime quattro settimane – sarebbero disponibili a lavorare, tant’è che l’ISTAT li definisce “scoraggiati” (e pertanto li considera tra le forze lavoro potenziali).[9] Qualora questi individui partecipassero al mercato del lavoro, il valore del tasso di partecipazione andrebbe rivisto al rialzo, e anche la stima della Commissione Europea del prodotto potenziale ne risulterebbe accresciuta: di conseguenza, con una stima più alta del PIL potenziale, il margine di deficit strutturale permesso al governo risulterebbe automaticamente più elevato.
Come si può allora aumentare il tasso di partecipazione? Una risposta intuitiva a questa domanda è offrire agli scoraggiati una prospettiva occupazionale, al fine di convincerli a rientrare nella forza lavoro. Ciò potrebbe essere favorito da un sussidio (da distinguere da quello di disoccupazione) che li spingerebbe a cercare attivamente lavoro iscrivendosi ai centri per l’impiego e frequentando corsi di formazione. Qualche dato: un aumento del tasso di partecipazione di 1 milione di persone (a fronte di 3 milioni di scoraggiati) consentirebbe, secondo le nostre stime, un margine di deficit strutturale maggiore per circa 19 miliardi di euro al governo italiano. Nel dettaglio, l’aumento della forza lavoro farebbe aumentare il tasso di partecipazione – da considerare nella (3) e di riflesso nella (2) – dal 60.3 al 62.5%.[10] Il prodotto potenziale, fermi restando i parametri usati per le stime del 2016 in un semplice esercizio di statica comparata, crescerebbe del 2.3% (passando a 1641 miliardi di euro) e produrrebbe un valore dell’output gap di -4.1 (invece che di -1.9). Ne deriverebbe una correzione al saldo nominale di bilancio di circa 35 miliardi di euro – invece dei 16 indicati in precedenza. Di seguito proponiamo la nostra simulazione sulla variazione della correzione ciclica (ovvero, il maggior margine di flessibilità che il governo avrebbe avuto nel 2016) facendo alternativamente riferimento, oltre allo scenario appena descritto, all’ingresso nel mercato del lavoro di 2 milioni e di 3 milioni di scoraggiati.
Se consideriamo che la spesa prevista per la creazione di un reddito di cittadinanza (che a rigore andrebbe chiamato “reddito minimo condizionato”) recentemente depositato in Senato è di circa 15 miliardi di euro, possiamo facilmente concludere che questa misura troverebbe le adeguate coperture. Tale reddito, con l’obbligo ai percettori di partecipare attivamente alla ricerca di lavoro tramite iscrizione ai centri per l’impiego, farebbe aumentare il tasso di partecipazione, che a sua volta accrescerebbe il PIL potenziale e quindi i margini di deficit strutturale consentito – il tutto all’interno del quadro delle attuali regole comunitarie. Oltre alla misura appena descritta, il governo avrebbe la disponibilità di risorse aggiuntive, circa 4 miliardi, per finanziare una misura di sostegno alla povertà più cospicua di quella appena varata dal governo (reddito di inclusione) che copre meno di un terzo della povertà assoluta con un sussidio individuale di circa 187 euro.
Tuttavia, in un’ottica di medio-lungo periodo, e quindi al di là della contingenza della crisi e degli alti livelli di povertà attuali, la sostenibilità di uno strumento di reddito minimo garantito – inteso come un reddito assicurato ai non occupati e la cui erogazione è soggetta alla disponibilità a lavorare – deve essere favorita principalmente da più alti tassi di occupazione (troppo bassi, anche al netto del lavoro nero), e quindi da maggiori investimenti pubblici che stimolino una crescita economica sostenuta capace di trainare l’occupazione e di limitare pertanto la spesa in sussidi: come già argomentato su Economia e Politica,[11] buona occupazione e reddito minimo devono coesistere.
* Dipartimento di Economia, Università Roma Tre
Riferimenti
Cottarelli, C., Giammusso, F. & Porello, C. (2014). Politica di bilancio ostaggio della stima del PIL potenziale, lavoce.info, 04 novembre 14.
De Gennaro, A. (2016). Europa e flessibilità: la resa dei conti. Economia e Politica, anno 8 n. 11 sem.1.
Frale, C. & De Nardis, S. (2017). Quando il gap si fa incerto: stime alternative del potenziale e dell’output gap nell’economia italiana, nota di lavoro dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, n. 2 (luglio 2017).
Gordon, R. J. & Clark, P. K. (1984). Unemployment and Potential Output in the 1980s. Brookings Papers on Economic Activity, 1984(2), 537-568.
Fioramanti, M., Padrini, F. & Pollastri, C. (2015). La stima del PIL potenziale e dell’output gap: analisi di alcune criticità, nota di lavoro dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, n. 1 (gennaio 2015).
Marelli, E. P. & Signorelli, M. (2015). Politica economica: Le politiche nel nuovo scenario europeo e globale. Giappichelli Editore.
MEF (2013). Il calcolo del PIL potenziale e del saldo di bilancio corretto per il ciclo, Aprile.
Okun, A.M. (1962). Potential GNP, its measurement and significance. Cowles Foundation, Yale University.
Palumbo, A. (2008). I metodi di stima del PIL potenziale tra fondamenti di teoria economica e contenuto empirico, Dipartimento di Economia, Università di Roma Tre, Working Paper n. 92.
Solow, R.M. (1957). Technical change and the aggregate production function, Review of Economics and Statistics, 39, pp. 312-320.
Stirati, A. (2013). Buona occupazione e reddito minimo vanno insieme. Economia e Politica, anno 5 n. 06.
Zezza, G. (2017). Quanti disoccupati ci sono in Italia? Economia e Politica, anno 9 n. 14 sem. 2.
[1] Per un’analisi critica sui metodi di stima del prodotto potenziale si suggerisce Palumbo (2008). Per il dibattito sulle implicazioni di politica economica si rimanda Cottarelli et al. (2014) e Gennaro (2016).
[2] Nella lettera si asseriva testualmente “the structural position of public finances is […] not easy to be assessed and current measures of potential output used for fiscal surveillance are uncertain and unreliable”.
[3] Nel Documento di Economia e Finanza 2016 (sez. I, pag. 51) viene calcolato un output gap di -4.5 a fronte del -2.9 calcolato per il 2015 dalla Commissione Europea, da cui deriva un deficit strutturale dello 0.1 (invece del -1): sulla base di tali risultati, in linea con stime similari effettuate dall’OCSE e dal FMI, l’Italia avrebbe sostanzialmente conseguito nel 2015 un saldo strutturale in pareggio. A riprova delle criticità metodologiche, all’interno del DEF si propone anche una specificazione alternativa della Curva di Phillips basata sul NAIRU in quanto si ritiene che “abbia migliori proprietà statistiche e sia meno pro-ciclico rispetto alle stime del NAWRU della Commissione Europea”.
[4] Si noti che nel contesto attuale il prodotto effettivo è minore di quello potenziale, per cui l’output gap assume, per costruzione, un valore negativo.
[5] Marelli e Signorelli (2015) sollevano delle perplessità sulle stime del NAWRU per l’Italia che, essendo stimato ad un livello troppo alto, produce un PIL potenziale troppo contenuto (e quindi una minore stance for fiscal policy).
[6] In questa impostazione di crescita determinata esclusivamente da fattori d’offerta, il fattore TFP rappresenta il contributo del progresso tecnologico (Solow, 1957). Inoltre, la Commissione Europea assume una funzione di produzione a rendimenti costanti ed utilizza il parametro α (l’elasticità del prodotto al fattore lavoro) pari a 0.65 per tutti i Paesi dell’Unione. Infine, nei nostri calcoli lo stock di capitale è rappresentato dal net capital stock (Ameco).
[7] All’interno delle attuali regole di politica fiscale, Il saldo di bilancio corretto per il ciclo (CAB) è l’indicatore che esprime la situazione dei conti pubblici coerente con il prodotto potenziale, ossia al netto della componente ciclica e delle misure occasionali (Off). La componente ciclica, da sottrarre al saldo nominale di bilancio (B), misura l’operare degli stabilizzatori automatici, ovvero la variazione delle entrate fiscali e delle spese per ammortizzatori sociali in seguito a fluttuazioni congiunturali ed è il risultato del prodotto tra output gap e la sensitività del saldo di bilancio alla crescita economica (ε=0.55). Il saldo strutturale di bilancio (SB) è dato da SB = CAB – Off, con CAB = B – ε*OG. Per un approfondimento, si veda MEF (2013).
[8] Fioramanti et al. (2015) ha osservato delle revisioni molto ampie nel PIL potenziale, dovute in gran parte alla scarsa robustezza delle stime del NAWRU. Anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha recentemente indicato un’elevata variabilità delle stime tra le diverse specificazioni dei modelli anche qualora si usi la stessa metodologia di stima (Frale e De Nardis, 2017).
[9] In Italia emerge con forza la questione NEET: un giovane su quattro, nella fascia tra 15 e 24 anni, non ha e cerca un lavoro, né è impegnato in un percorso di studi o di formazione. L’Italia registra uno dei tassi di NEET più alti d’Europa (19,9%) contro una media nel UE dell’11,5% (dati ESDE 2016 pubblicati dalla Commissione Europea).
[10] Questi dati fanno riferimento alla popolazione 15-74, ovvero all’età lavorativa considerata nelle stime della Commissione Europea: eventuali discrepanze con i dati ISTAT sono attribuibili al fatto che quest’ultima considera la fascia 15-64. Per un approfondimento sulle statistiche e sulle definizioni occupazionali in Italia, si rimanda a Zezza (2017).
[11] Sul tema, si veda Stirati (2013).