1. Ci sono alcune indicazioni circa la potenza ed i limiti della politica monetaria in particolare nell’ambito dell’attuale struttura istituzionale europea che si possono ricavare dal Rapporto Annuale della BCE.[1]
La potenza della BCE trova manifestazione negli interventi che dal 2011 ad oggi hanno riportato sotto controllo i tassi dell’interesse nell’area dell’euro evitando di fatto la sua deflagrazione.[2] Si tratta di interventi non convenzionali – o almeno, non convenzionali per la BCE – quali l’immissione (enorme) di liquidità attraverso le operazioni LTRO (Long-Term Refinancing Operations) a tre anni, l’acquisto di titoli sui mercati secondari nell’ambito del Securities Markets Programme (SMP), e ancora l’annuncio delle operazioni monetarie definitive (le Outright Monetary Transactions). Si tratta poi del progressivo abbassamento dei tassi dell’interesse per le operazioni di rifinanziamento marginale, e delle (ripetute) rassicurazioni da parte del Consiglio della BCE circa la volontà di mantenere bassi i tassi per un lungo periodo di tempo – rassicurazioni che hanno modificato al ribasso le aspettative sui futuri tassi d’interesse. Sebbene, come sottolineato da Draghi nella sua nota introduttiva al Rapporto, permanga ancora nell’eurozona una certa segmentazione dei mercati finanziari, questi interventi hanno garantito una convergenza dei tassi dell’interesse sui titoli pubblici decennali dei vari paesi (dopo che, di contro, nel 2010-2012 si erano pericolosamente divaricati), così come, dall’ultimo trimestre del 2011, del tasso di interesse Euribor (o interbancario) a tre mesi verso il tasso overnight Eonia – dopo che il primo, a differenza del secondo, aveva iniziato ad aumentare a partire dalla seconda metà del 2010.
Riguardo ai limiti della politica monetaria, su cui qui ci si concentrerà, essi emergono nel Rapporto sia nell’analisi dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria, sia nei dati relativi all’andamento macroeconomico dei principali paesi industrializzati dal 2007 ad oggi. I diversi risultati in termini di crescita ed occupazione che vi si osservano si può infatti dire siano scaturiti da un lato dal mancato coordinamento delle politiche monetarie e fiscali in senso espansivo in Europa a differenza che in altri paesi, e dall’altro dal fatto che il ventaglio di tassi di interesse e cambi reali fissati dalla BCE in base alle condizioni medie complessive dell’area dell’euro o sotto la pressione di alcuni dei paesi economicamente e politicamente più forti dell’Unione europea (in particolare della Germania) ha assunto valori diversi da quelli in grado di favorire una ripresa economica più rapida e con costi sociali meno elevati nei paesi cosiddetti periferici dell’area dell’euro, tra cui l’Italia.
2. Il primo punto che colpisce del Rapporto è che vi si riconosce che la forte immissione di liquidità ed il ribasso dei tassi dell’interesse hanno avuto effetti limitati sulla domanda aggregata e sui prezzi, sconfessando così coloro che si erano espressi contro quegli interventi per l’idea che avrebbero determinato, per via diretta o indiretta, una ripresa dell’inflazione.[3] Di fatto, come riconosciuto di recente da Draghi stesso, e come emerge da alcune stime allarmanti del Fondo Monetario Internazionale, il pericolo che tutt’ora si ha nell’eurozona non è quello di una crescita dei prezzi, bensì semmai quello della deflazione – un pericolo che ha fatto qualche giorno fa prospettare la necessità di ulteriori ingenti interventi ‘non convenzionali’ da parte della BCE.[4]
Il mancato funzionamento di quello che viene considerato il tradizionale meccanismo di trasmissione della politica monetaria emerge chiaramente nel Rapporto dall’analisi dell’andamento degli aggregati monetari e dei prestiti a famiglie e imprese negli ultimi anni. Come si specifica nel Rapporto, i miglioramenti nella situazione dei mercati finanziari e nella liquidità del sistema bancario non hanno determinato un aumento dei prestiti al settore non finanziario, ed anzi i prestiti al settore privato si sono nel corso del 2013 contratti ulteriormente, stabilizzandosi solo verso la fine dell’anno, con un – 2,0% a dicembre di contro ad un -0,2 del dicembre 2012. Ciò che è interessante è che la BCE stessa spiega questa dinamica dei prestiti non tanto o solo in base ad una crescente avversione del settore bancario verso prestiti troppo rischiosi (che potrebbero del resto trovare, ed hanno trovato, compensazione in una differenziazione dei tassi di interesse piuttosto che in un puro razionamento del credito),[5] ma soprattutto in base alla debole domanda di credito, a sua volta legata alla bassa crescita del reddito reale disponibile delle famiglie, al tentativo da parte loro e delle imprese di ridurre il proprio indebitamento (in aggregato, tuttavia, con scarso successo),[6] e, possiamo aggiungere, alla dinamica ancora fortemente negativa degli investimenti, soprattutto in alcuni paesi dell’area dell’euro. Non sorprende così che, con buona pace del rigido moltiplicatore dei depositi bancari (sempre più criticato anche a livello di Banche Centrali) e della idea stessa di moneta esogena,[7] la dinamica degli aggregati monetari mostri un andamento di M3 – cioè del circolante, dei depositi e delle obbligazioni a due anni – che fino a metà del 2011 segue strettamente il ciclo economico, e poi a quel punto (si veda la Figura 6 del Rapporto qui sotto riportata) per tutto il 2012 un andamento che, mentre i prestiti diminuiscono, risulta crescente come effetto del forte aumento di base monetaria a seguito delle operazioni “non convenzionali” – un aumento che non a caso avrà come contropartita un eccesso di riserve o liquidità delle banche presso la BCE rispetto a quanto usualmente considerato necessario in base all’ammontare di credito erogato.[8] In verità, come mostra l’analisi dei cambiamenti nella composizione di M3, la liquidità immessa nel sistema economico dalla metà del 2011 non ha dato vita ad alcun processo moltiplicativo dei depositi bancari, ed è stata utilizzata a partire dalla fine del 2011 e fino a quasi tutto il 2012 (quando poi per il ribasso dei tassi le banche hanno iniziato a liberarsi dei titoli a breve termine precedentemente acquistati) soprattutto a consentire quell’acquisto – senza ovviamente cancellarsi nel computo dell’eccesso di liquidità presso la BCE nella misura in cui non ha comportato una riduzione nelle riserve valutarie.
3. Che riduzioni dei tassi dell’interesse non abbiano necessariamente effetti espansivi è in realtà cosa nota, anche perché, come si finisce per ammettere nel Rapporto (cfr. ad esempio p. 59), sugli investimenti hanno influenza soprattutto le variazioni attese nella domanda aggregata piuttosto che variazioni nei tassi dell’interesse. L’influenza dei tassi è semmai indiretta, passando attraverso le ripercussioni che loro variazioni potranno avere sul consumo, le esportazioni nette e la spesa pubblica. Si tratta ad esempio del fatto che una diminuzione dei tassi dell’interesse potrà avere effetti redistributivi e quindi modificare la propensione al consumo della collettività, o del fatto che quella riduzione si accompagnerà con un aumento del valore dei titoli e dunque (forse) con un effetto ricchezza positivo sul consumo, o ancora, del fatto che essa potrà portare ad un deprezzamento reale del cambio e quindi ad un aumento delle esportazioni. Come si può intuire, si tratta di effetti meno certi di quelli ipotizzati dalla teoria ‘tradizionale’ nelle sue diverse formulazioni – quali l’aumento della domanda di beni di consumo (e non, di contro, di altre attività finanziarie) in presenza di scorte liquide reali non desiderate, o l’aumento degli investimenti a fronte di una diminuzione nel tasso dell’interesse – il che appunto è quanto rende meno chiaro e definito il meccanismo di trasmissione della politica monetaria.
Ma la domanda che ci si può porre è perché, pur con questi effetti incerti, misure di riduzione dei tassi dell’interesse simili se non analoghe a quelle portate avanti dalla BCE si siano associate in altri paesi ad una ripresa dell’occupazione e del reddito a differenza che in Europa. E la risposta sta a mio avviso nella differente struttura istituzionale entro cui si è mossa la politica monetaria della BCE, ed il conseguente diverso profilo temporale e contenuto della sua politica monetaria.
E’ forse opportuno ricordare al riguardo alcuni semplici fatti elencanti nel Rapporto della BCE. L’Europa a differenza che gli Stati Uniti si trova nel 2013 ancora in recessione (per quanto si osservi qualche lieve segnale di ripresa verso la fine dell’anno), con il Pil che cade dello 0.4 per cento.[9] Al tempo stesso i prezzi crescono nel 2013 solo dell’1.4 per cento, meno che nel 2012, per una crescita contenuta dei salari monetari, e la caduta del prezzo del petrolio e degli alimenti.[10] Il quadro è diverso negli altri paesi. Negli Stati Uniti, ad esempio, per quanto si abbia nel 2013 un (lieve) rallentamento nel tasso di crescita del Pil, la ripresa va avanti a partire dal 2009 ad un ritmo intorno al 2 per cento l’anno (si veda la Figura 2 del Rapporto), ed una dinamica analoga si osserva nel Regno Unito.[11] Negli stessi anni in questi paesi, a differenza che nella media dei paesi dell’area euro, si ha una ripresa del credito al consumo, un aumento del prezzo delle case, un aumento del prezzo delle azioni più forte che in Europa (tanto da superare i valori precedenti la crisi del 2007), ed un aumento degli investimenti. Questa diversa dinamica del reddito spiega ovviamente il diverso andamento del tasso di disoccupazione – ancora in aumento in Europa, dove raggiunge il 12 per cento, ed invece in calo negli altri principali paesi industrializzati. Negli Stati Uniti ad esempio, dopo aver raggiunto il 9 per cento nel 2009, la disoccupazione è a gennaio 2014 al 6.6 per cento – un tasso ritenuto ancora ‘non sostenibile’ da parte della Federal Reserve.[12]
Ora, questi diversi risultati in termini di crescita ed occupazione dipendono dal fatto che – subito dopo la crisi del 2007 – in questi paesi a differenza che nell’area dell’euro vengono perseguite politiche fiscali e monetarie entrambe fortemente espansive.[13] I vincoli posti dai trattati europei sulle politiche di bilancio, per quanto in parte disattesi, non hanno invece consentito un sostegno di analoga entità alla domanda aggregata in Europa, e la situazione è peggiorata con le crescenti richieste da parte della Commissione Europea a molti paesi (tra cui Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro, Spagna e Italia) di un consolidamento fiscale a partire dal 2010 in applicazione dello Stability and Growth Pact e dei principi approvati dal consiglio Ecofin dell’ottobre del 2009 – consolidamento tuttora in atto, per quanto nel 2013 con un segno meno restrittivo. Come evidenziato del resto nel Rapporto, nel complesso, dal 2008 ad oggi, i disavanzi pubblici sono aumentati nell’eurozona meno che in Usa, Regno Unito, Giappone e Canada.
Ma il Rapporto della BCE plaude alle misure di consolidamento fiscale richieste dalla Commissione, e sembra prospettare per il futuro un apprezzamento dell’euro con un suo ritorno ai valori pre-crisi.[14] Se così fosse, ci saranno poche possibilità di vedere ridursi nell’eurozona gli attuali elevati tassi di disoccupazione. Come ci mostra l’esperienza di questi anni, tale riduzione richiederebbe infatti l’adozione di politiche monetarie e fiscali entrambe espansive, e ciò per una entità e lasso di tempo sufficienti allo scopo.[15]
*Università Roma Tre